Il dono dell'evoluzione - Ex novo [4295]
Inviato: lunedì 10 ottobre 2016, 23:31
Dopo aver ripetutamente colpito sua zia alla testa ed il sangue aveva iniziato a tingergli le mani, il corpo senza vita era caduto a terra. Tutto ciò che riusciva a sentire era il profondo ansare del suo respiro affannato. Si sentiva come se avesse appena corso lungo una salita. Il sudore caldo si spandeva come un olio essenziale sulla sua pelle gelida. Era estremamente scivoloso e caldo. Lo ricopriva. L’aria entrava a fatica dentro di lui, il catarro bloccava ogni accesso e gli faceva bruciare il torace ad ogni tentativo di respiro. L’inspirazione si infrangeva in migliaia di piccole sfere d’aria, che, una volta all'interno, iniziavano a bruciare in autocombustione. Tutto attorno era silenzio e aria fredda; in lontananza, ogni tanto, il rumore di qualche macchina. Guardò il corpo a terra.
Com’erano belli quei capelli, così scuriti dal sangue e che già iniziavano ad indurirsi. Li toccò, erano appiccicosi e rigidi, sembrava che potessero spezzarsi come un rametto ricoperto da un sottilissimo strato di ghiaccio. Erano proprio belli quei rametti. Sembravano piante marine fatte essiccare al sole, che per un attimo - un infantile tentativo di ridargli la vita - erano state bagnate da qualche mano pietosa nell'acqua del mare. I loro colori brillavano lucidi al sole, come quelli delle pietre che appartengono al fondale, ma era, ahimè, solo un trucchetto da negromante.
Non sentiva niente. Niente. Non dolore, non pena, non smarrimento. Come era possibile? Provò a commuoversi. Penso alle colazioni estive sulla veranda di sua zia, pensò ai disegni, alle passeggiate tra gli alberi, agli abbracci, al calore. Niente. Come era possibile?
Si rispose.
Tutto era lontano, conservato in una cesta piena di arance e limoni, in fondo ad una cantina buia. Quando pensava a quei ricordi non sentiva più il profumo della colazione e del bosco o la pastosità del colore o il conforto dell’abbraccio. La sua mente aveva conservato solo le immagini e lui non poteva fare altro che guardarle come uno spettatore a cui non appartengono. Dentro di sé sentiva una forza che tentava di spingersi verso quei ricordi, una forza che provava a toccarli, a baciarli, a tuffarcisi dentro. Ma era inutile. Era come in un sogno, in cui si prova a colpire qualcuno con forza ma le braccia cedono e sono molli e pesanti, impotenti.
C’era un vuoto intangibile e di qualche centimetro tra lui e quelle immagini e c’era un elastico che gli legava i polsi e le caviglie e che godeva nel richiamarlo a sé dopo qualche balzo verso il vero calore.
Una volta aveva osservato un gatto mentre questo non faceva niente. Cercava di catturare qualche luce nei suoi grandi occhi che potesse fargli capire che quel gatto stava effettivamente pensando a qualcosa. Per quanto si concentrasse, per quanto si sforzasse di catturare ogni singolo cambiamento di espressione o di intensità di pensiero, dopo circa dieci minuti aveva fatto propria la terribile convinzione che quel gatto non stesse effettivamente provando niente, nemmeno la noia, e che si trovasse lì, appollaiato sul pavimento, in attesa che accadesse qualcosa capace di sottrarlo a quello stato di vacuità. Forse non stava nemmeno aspettando.
Era una scoperta terribile. Era davvero così che ci sentiva qualche passo più indietro nell’evoluzione? C’era davvero, oltre la dura pelle, solo lo spazio bianco e pulito del susseguirsi di rampe di scale, in potenza capace di far echeggiare trionfalmente il più ruggente urlo, ma trattenuto dal rimandare una qualsiasi eco per la mancanza del più insignificante cigolio di una porta?
Questo pensiero lo aveva molto turbato.
Un agghiacciante terrore si era impadronito di lui quando aveva scoperto quel vuoto anche in se stesso. Anche in quel momento, con il corpo esanime della donna steso a terra, prima di chiedersi perché non provasse nulla, non aveva effettivamente provato nulla. Se solo il suo cervello non avesse avuto la crudeltà di fornirgli questa consapevolezza! Era questo il dono che l’evoluzione gli aveva fatto? Capire di non provare nulla?
Con suo grande stupore, ebbe pietà di se stesso e si commosse, all'improvviso. Era un guizzo inaspettato nella sua mente vuota, un sentimento orfano e smarrito in una terra desolata.
Mentre un bruciore si concentrava agli angoli più interni dei suoi occhi, ricacciò tutto dentro come si ingoia un liquido amaro.
Com’erano belli quei capelli, così scuriti dal sangue e che già iniziavano ad indurirsi. Li toccò, erano appiccicosi e rigidi, sembrava che potessero spezzarsi come un rametto ricoperto da un sottilissimo strato di ghiaccio. Erano proprio belli quei rametti. Sembravano piante marine fatte essiccare al sole, che per un attimo - un infantile tentativo di ridargli la vita - erano state bagnate da qualche mano pietosa nell'acqua del mare. I loro colori brillavano lucidi al sole, come quelli delle pietre che appartengono al fondale, ma era, ahimè, solo un trucchetto da negromante.
Non sentiva niente. Niente. Non dolore, non pena, non smarrimento. Come era possibile? Provò a commuoversi. Penso alle colazioni estive sulla veranda di sua zia, pensò ai disegni, alle passeggiate tra gli alberi, agli abbracci, al calore. Niente. Come era possibile?
Si rispose.
Tutto era lontano, conservato in una cesta piena di arance e limoni, in fondo ad una cantina buia. Quando pensava a quei ricordi non sentiva più il profumo della colazione e del bosco o la pastosità del colore o il conforto dell’abbraccio. La sua mente aveva conservato solo le immagini e lui non poteva fare altro che guardarle come uno spettatore a cui non appartengono. Dentro di sé sentiva una forza che tentava di spingersi verso quei ricordi, una forza che provava a toccarli, a baciarli, a tuffarcisi dentro. Ma era inutile. Era come in un sogno, in cui si prova a colpire qualcuno con forza ma le braccia cedono e sono molli e pesanti, impotenti.
C’era un vuoto intangibile e di qualche centimetro tra lui e quelle immagini e c’era un elastico che gli legava i polsi e le caviglie e che godeva nel richiamarlo a sé dopo qualche balzo verso il vero calore.
Una volta aveva osservato un gatto mentre questo non faceva niente. Cercava di catturare qualche luce nei suoi grandi occhi che potesse fargli capire che quel gatto stava effettivamente pensando a qualcosa. Per quanto si concentrasse, per quanto si sforzasse di catturare ogni singolo cambiamento di espressione o di intensità di pensiero, dopo circa dieci minuti aveva fatto propria la terribile convinzione che quel gatto non stesse effettivamente provando niente, nemmeno la noia, e che si trovasse lì, appollaiato sul pavimento, in attesa che accadesse qualcosa capace di sottrarlo a quello stato di vacuità. Forse non stava nemmeno aspettando.
Era una scoperta terribile. Era davvero così che ci sentiva qualche passo più indietro nell’evoluzione? C’era davvero, oltre la dura pelle, solo lo spazio bianco e pulito del susseguirsi di rampe di scale, in potenza capace di far echeggiare trionfalmente il più ruggente urlo, ma trattenuto dal rimandare una qualsiasi eco per la mancanza del più insignificante cigolio di una porta?
Questo pensiero lo aveva molto turbato.
Un agghiacciante terrore si era impadronito di lui quando aveva scoperto quel vuoto anche in se stesso. Anche in quel momento, con il corpo esanime della donna steso a terra, prima di chiedersi perché non provasse nulla, non aveva effettivamente provato nulla. Se solo il suo cervello non avesse avuto la crudeltà di fornirgli questa consapevolezza! Era questo il dono che l’evoluzione gli aveva fatto? Capire di non provare nulla?
Con suo grande stupore, ebbe pietà di se stesso e si commosse, all'improvviso. Era un guizzo inaspettato nella sua mente vuota, un sentimento orfano e smarrito in una terra desolata.
Mentre un bruciore si concentrava agli angoli più interni dei suoi occhi, ricacciò tutto dentro come si ingoia un liquido amaro.