Clausura - Andrea Grillone
Inviato: sabato 17 dicembre 2016, 0:26
Adesso, finalmente, vedo tutto con chiarezza: ogni piccolo frammento della mia esistenza ha rappresentato la scintilla che minaccia di divampare in un incendio devastante. Le campane suonano a morte violentando la quiete del chiostro e le sorelle seguono la bara credendo che il mio corpo vi giaccia all’interno. Ma io sono qui nella quasi oscurità degli occhi e con la luce della mente; respiro tra queste mura antiche spirando dolorosamente un anelito di vita dopo l’altro. Immagino Maria che urla mentre affonda le sue unghie nelle sue guance rosee, disperandosi per la mia morte. Ma io sono viva, Maria, sono qui. Trovami, te ne prego.
Ho raggiunto la consapevolezza che con il passare degli anni la disposizione d’animo di ciascuno viri quasi inevitabilmente verso l’odio del caos. Caos. Questa è forse la parola più pagana che riesca a turbarmi. Quando la pronuncio nella mente mi sembra che si aggiri come una belva famelica nel buio del mio cranio, urtando e graffiando qualsiasi cosa incontri, pronta a prendere fuoco da un momento all’altro. E’ potente e terribile. Provo quasi terrore, io che sono così incombusta.
Ormai da giorni non parlo con qualcuno che possa pronunciarla e l’unico rumore che mi tiene compagnia e che rischia di condurmi tra le braccia della follia è questo incessante gocciolare dell’umidità sulla pietra. A volte, di notte, mi sento talmente tesa da sobbalzare non appena odo la goccia che colpisce il pavimento, sebbene sia il tono costante e perpetuo che scandisce le mie giornate. Mi mancano le voci che origliavo attraverso i muri del cortile, mi manca il bagliore lancinante della luce del sole sui miei occhi asciutti, mi manca respirare l’aria libera e fresca. Sopra ogni cosa, mi manca lei.
Io e Maria siamo le uniche componenti della classe ad aver proseguito la strada benedetta del convento, dopo l’istruzione superiore. Nel nostro convento le classi di educande prendono il nome dalle iniziali della suora che le istruisce. La nostra istruttrice è sempre stata suor Maria Margherita e la nostra classe era dunque la classe MM. Tutte in convento ci chiamavano per abitudine “la classe duemila”, sia per la vicinanza del nostro anno di nascita alla soglia del terzo millennio, sia perché la sigla veniva letta come se si trattasse di numeri romani. Veniva sempre detto con ironia e faceva sfuggire spesso un sorriso divertito. In convento ci si diverte davvero con poco, nei limiti di quanto è permesso divertirsi.
Il convento della Madonna delle Grazie sorge al centro del paese di Jate Valdostano. E’ una costruzione che risale al XV secolo e si erge con imponenza come se giudicasse tutto ciò che gli è stato costruito attorno successivamente. Oltre ad essere il convento di un ordine di suore di clausura, ospita una scuola per orfane. Il mondo mi ha gettata tra queste mura quando avevo l’età di sei anni, mentre Maria è arrivata all’età di nove anni. Essendo nate nel 1997 siamo state assegnate alla stessa classe. Entrambe non abbiamo dei ricordi molto vividi della nostra vita prima del convento. Sappiamo soltanto che i nostri vecchi orfanotrofi erano troppo pieni e siamo state spedite qui non appena il convento ha avuto dei posti liberi. Maria ha potuto raggiungerci soltanto perché Alberta è morta per una brutta polmonite. E’ stato molto triste ed inizialmente odiavo Maria per aver sostituito quella mia amica, ma poco dopo la vita è continuata e quella morte si è ridotta all’indifferenza di qualsiasi avvenimento della mia infanzia, come un brutto temporale.
Tutte le classi del convento sono formate da un massimo di cinque educande che non possono uscire dal convento se non dopo la maggiore età, se lo desiderano. E’ una sorta di clausura forzata con un termine prefissato. Molte volte mi sono chiesta come fosse possibile che nessuno dall’esterno facesse qualcosa per liberare le orfane da questa prigionia. Mi sono risposta che è perché a nessuno importa di noi, che è perché abitiamo in un paesino di cinquecento abitanti e che è perché nessuna delle educande uscite dal convento si è mai lamentata. D’altronde qui è meglio che altrove. Abbiamo ricevuto in dono dal Signore una casa che ci protegge. Come morbido filo attorno al fuso di un arcolaio, quasi ogni mio ricordo è avvolto attorno agli echi delle laudi attraverso i corridoi di pietra. Ho spesso avuto un desiderio altalenante di conoscere il mondo al di là delle mura ma ho sempre avuto delle sorelle qui con me e, soprattutto, ho sempre avuto Maria.
Nonostante il rigore della madre superiora ho appreso attraverso le strette fessure di un muro del cortile quanto io e le mie coetanee esterne potessimo essere simili e diverse. Molto spesso non comprendevo il significato dei loro discorsi perché utilizzavano delle parole che non conosco. Ciò che però ho notato dai discorsi degli adulti che passavano accanto a quel muro è che nemmeno loro lo capivano e avevano quasi in odio la diversità di quelle giovani ragazze.
Dicevano “Ora hanno tutti questi selfi, questo feisbuc, non fanno altro dalla mattina alla sera. Dove andremo a finire? Non hanno proprio idea di cosa sia la vita vera e pensano solo a divertirsi, a comprare vestiti nuovi e a fotografare tutto per metterlo su feisbuc. Che i loro genitori li puniscano una volta per tutte e gli mettano la testa sulle spalle! Questi nati dal 2000 in poi stanno facendo diventare il mondo uno schifo! Tutte queste americanate stanno trasformando l’Italia in un paese di coglioni e di buttane!”
Discorsi infiammati come questo venivano pronunciati con autentico disprezzo e con l’inimitabile alterigia di chi crede di essere il custode del buon costume. Mi sembrava di vivere in un mondo parallelo; io avevo la loro stessa età eppure non mi identificavo in quelle descrizioni colorite che ascoltavo. Nonostante il mio comportamento non rientrasse tra i motivi di biasimo che sembravano caratterizzare la popolazione di Jate, le suore del convento e la madre superiora avevano sempre qualcosa da ridire sul mio comportamento. Ero troppo rumorosa, ero troppo scherzosa, disturbavo troppo, volevo passare troppo tempo con le mie compagne e con Maria. Ero lo scompiglio nel loro Eden, la loro fonte di caos e il caos, dicevano, non è gradito a Dio. Sembrava che essere nati nel 2000 o in prossimità di quell’anno portasse gli adulti e gli anziani ad odiarci senza alcun vero motivo apparente. Io ero diversa dalle ragazze che vivevano fuori dal convento, eppure molto spesso notavo le occhiatacce di disgusto che mi lanciava la madre superiora quando passeggiavo nel chiostro con Maria. Sembrava che tutto ciò che era nuovo, giovane e diverso facesse avvertire agli adulti una sensazione di pericolo e minaccia, dunque doveva essere cambiato. Non capivo, davvero non capivo. Ma adesso capisco.
Credo che la mia vita sia stata molto diversa da quella delle ragazze esterne. Sono cresciuta indossando soltanto degli abiti neri e bianchi, mangiando sempre le stesse pietanze essenziali, giocando con i piccoli volatili e gli insetti che popolavano il chiostro. Non trovavo con quelle ragazze alcun punto di incontro fino a quando non udii una ragazza piangere. Quando la udii avevo da poco compiuto diciotto anni e immagino che lei avesse più o meno la mia stessa età. All’inizio del mio ascolto clandestino era sola ed emetteva soltanto dei piccoli gemiti sommessi. Mi sembrava di percepire la profondità della sua sofferenza e sentivo io stessa una fitta al centro del petto. Poco tempo dopo una ragazza che doveva essere sua amica la raggiunse. Riuscii ed ascoltare ben poco di ciò che si dissero quella volta, ma una frase penetrò come ghiaccio attraverso la roccia fino alle mie orecchie assetate: “Ma io lo amo”. Il mio cuore ebbe un sobbalzo. Di questo allora si trattava. Quella ragazza soffriva per amore.
Udire quella ragazza che soffriva così intensamente risvegliò una violenta scossa che percorse tutto il mio corpo. Tentai di smettere di tremare, tentai di acquietare il cuore e di rallentare il respiro ma ad ogni futile tentativo la mia mente urlava sempre più energicamente un nome: Maria.
Mi ammalai. La febbre mi trattenne a letto per oltre una settimana. Quando Maria tentava di entrare nella stanza i miei gemiti deliranti diventavano più violenti, costringendola a fuggire in preda al senso di colpa. La madre superiora impedì le visite da parte di chiunque, come spesso faceva quando una di noi si ammalava. Mi fece trasferire in una stanza appartenente alla parte più antica del convento, vicino a dove è conservato un frammento della Santa Croce. Diceva sempre che la vicinanza a quella sacra reliquia avrebbe liberato il nostro debole corpo traviato da ogni malattia. Con la piccola Alberta questo non avvenne ma con me dovette funzionare, visto che iniziai a sentirmi molto meglio dopo qualche giorno. Le camere dell’antica parte del convento sono molto oscure ed umide e alcune non hanno finestre che si affaccino all’esterno. Adesso so di essere in una di queste camere. Ho provato ad urlare, ma i muri sono molto spessi e sono distante dalla parte abitata del convento. Nessuno mi ha ancora sentita.
Dopo la mia convalescenza qualcosa cambiò nel mio animo. Ero esternamente calma e sembrava che nessuna preoccupazione potesse far nascere delle rughe sulla mia fronte bianca. Tutto su Maria e la madre superiora mi fu chiaro, lampante. Capii finalmente cosa portava la madre superiora a guardarmi con disgusto mentre trascorrevo del tempo con la mia amica e capii finalmente cosa albergava nel mio petto in attesa di qualcuno che aprisse la sua gabbia.
La madre superiora è una donna anziana e credo che il mondo in cui è cresciuta fosse molto diverso dal nostro. Quando eravamo bambine si concedeva talvolta una pausa dalla sua personalità rigida e severa raccontandoci storie riguardanti la sua giovinezza. A detta della madre superiora, il mondo era un posto perfetto quando era giovane: non c’erano tutte le tentazioni che ci sono oggi, la gente non aveva bisogno di comprare continuamente qualcosa per credere di essere felice e tutto andava secondo le regole. Un uomo ed una donna si sposavano, mettevano su famiglia, il padre lavorava e la madre cresceva i figli. Uno schema antico, quasi un archetipo. Quando ascoltavo i suoi racconti vedevo una luce soffice che bagnava le sue pupille e mi commuovevo. Il mondo di allora doveva essere molto bello e dovevano esserci molte meno ragioni per cui pregare.
Ciò che mi portò a scegliere la via della clausura fu la meraviglia che provai quando scoprii l’adorazione perpetua. Le suore del convento della Madonna delle Grazie scelgono di rinunciare alla propria vita nel mondo esterno per trascorrerne una di preghiera, con il fine di riparare con la fede ciò che il peccato guasta nel mondo. Ho sempre trovato questa missione di vitale importanza e vicina a Dio in modo supremo. Mai avrei immaginato che il primo anno del mio noviziato sarebbe stato l’anno in cui avrei smesso di sentire la luce del sole sulla mia pelle.
La forte febbre che mi prese dopo aver origliato il pianto della ragazza attraverso le fessure del muro si verificò appena due mesi fa. Da poco io e Maria eravamo state accettate come novizie e ci sentivamo entrambe profondamente amate dal resto del convento. Ci avevano cresciute e tutte erano per noi un po’ come madri, più che come sorelle. Il giorno dopo essere guarita mi recai risolutamente nella cella di Maria. Faceva molto freddo quella notte e Maria aveva acceso una candela sul comodino, come era sempre solita fare prima di addormentarsi. Quando entrai nella sua cella vidi subito l’alternarsi del suo respiro addormentato sotto le coperte. Avvicinandomi al letto la osservai alla luce della candela, con i capelli corti un po’ arricciati sul viso e la bocca semichiusa. Sembrava un angelo e sentivo un formicolio percorrermi tutta la pelle sotto la veste, come una brezza gelida. Quando accarezzai i capelli sulla sua fronte Maria si svegliò ed in preda allo spavento gettò un urlo, che io arrestai appoggiando un dito sulle sue labbra.
“E tu cosa ci fai qui? Sei guarita! La madre superiora non mi ha permesso di avvicinarmi mentre eri malata. Avrei voluto farti compagnia quando avevi la febbre ma la tua agitazione aumentava quando entravo nella tua cella.”
Non risposi, rimasi a fissarla in ammirazione.
“Va tutto bene? Sicura di sentirti meglio? Perché mi guardi così?”
Maria tremava appena percettibilmente e le sue labbra secche si muovevano come se bisbigliasse qualcosa, come se pregasse. Poggiai nuovamente la mia mano sulla sua fronte e le scostai i capelli dal viso. Quando la mia mano fredda toccò la sua pelle vidi Maria rabbrividire, ma non si ritrasse.
“Cosa fai?”
Non risposi. Non c’era nulla da dire. Continuai ad accarezzarla mentre la osservavo. Fissava i miei occhi con spavento, le sue labbra fremevano. Notai i suoi capezzoli turgidi sotto la vestaglia. Il formicolio sotto la mia veste aumentò sensibilmente.
“Cosa…?”
Sorrisi. Maria chiuse gli occhi e iniziò anche lei a sfiorare la pelle del mio viso. Quando le sue dita mi toccarono mi sembrò di prendere fuoco. Tutto ciò che riuscivo a pensare era caos. Era bellissima e vulnerabile. Quando ebbi tolto la sua vestaglia e la mia veste sembrò terrorizzata e felice allo stesso tempo. Quando la mia lingua circondò i suoi capezzoli e la mia mano sentì il calore ardente tra le sue cosce ogni terrore era svanito ma entrambe continuammo a tremare per tutta la notte, fino a quando ci addormentammo.
Ci svegliarono i canti delle laudi. Eravamo in ritardo, molto in ritardo. Ci guardammo in modo interrogativo e con un sorriso appena accennato, mentre in fretta ci rivestivamo. Quando uscimmo dalla sua cella iniziammo a camminare velocemente verso la cappella e poco prima di raggiungerla incrociammo la madre superiora. Ci guardò con uno dei peggiori sguardi di rimprovero che ci abbia mai rivolto e noi abbassammo la testa ed entrammo nella cappella. Mentre mi univo alle consorelle nella liturgia delle ore, la mia mente rimase fuori dalla stanza sacra. Lo sguardo della madre superiora era rimasto arpionato alla mia mente come la lisca di un pesce sul palato. Ciò che non permetteva la mia concentrazione non era tanto il rimprovero, quanto l’espressione di fugace terrore e rabbia che aveva attraversato il suo volto per un secondo. Continuavo a ripetere a me stessa di averlo soltanto immaginato.
Per un mese io e Maria non aspettavamo altro che finissero i canti di compieta per poter andare ognuna della propria cella ad aspettare l’altra. Fu un mese di immensa gioia e di profonda preoccupazione per la paura di essere scoperte. La madre superiora fissava in ogni occasione il suo sguardo su di me, come se volesse forzare le barriere della mia mente. Nei suoi occhi leggevo lo stesso disgusto che avevo visto negli ultimi anni ogni volta che sorridevo in compagnia di Maria passeggiando accanto al muro del cortile. Non capivo. Ero cieca.
Mi ammalai nuovamente. L’ultima cosa che ricordo prima che la febbre mi facesse delirare era lo sguardo amorevole di Maria mentre poggiava una pezza fresca sulla mia fronte in fiamme. Poi solo buio, letteralmente. La madre superiora mi fece trasferire di nuovo nelle stanze più interne del convento. Non vidi nessuno per molti giorni. Una volta guarita, mi resi conto di giacere in una camera totalmente oscura, tra lenzuola sudate. La porta di quella cella era chiusa a chiave. Nonostante i miei tentativi di richiamare l’attenzione di una delle sorelle con i pugni o con le urla, nessuno venne. Credo di essere qui da due settimane. Due volte al giorno sento dei passi che si avvicinano verso la mia cella. A quel punto mi dispero, urlo, batto i pugni contro la porta. Nessuna reazione dall’esterno, soltanto una fessura della porta che si apre e lancia dentro un piatto con del pane ed una ciotola con dell’acqua. Sono prigioniera nel mio convento. So chi ha fatto questo. Perché la madre superiora mi odia così tanto? Si riconduce tutto soltanto al modo che ha sempre avuto di bisbigliare con disappunto e a denti stretti “voi della classe MM”, guardando me e Maria? Non può essere solo l’inevitabile insofferenza che nutrono le vecchie generazioni verso le nuove.
So che non è solo questo. So che l’odio della madre superiora nei miei confronti non è neanche minimamente paragonabile a quello degli adulti verso le ragazze esterne al convento. Lei sa e per questo mi punisce, perché ritiene che io abbia peccato.
Due giorni fa, oltre ad aver portato la mia razione di cibo ed acqua della sera, ha lasciato la fessura aperta per qualche secondo in più. Ho tentato di toccarla attraverso la porta mentre piangevo lacrime disperate. Non diceva nulla e sentivo soltanto il suo respiro rapido e irregolare, come se fosse furibonda. Dopo poco ha detto solo “Tu sei morta”.
Non ho capito cosa intendesse fino a quando oggi ho sentito le campane suonare a morte.
Oggi abbiamo sepolto la bara di Beatrice nel piccolo cimitero del convento. E’ stato straziante vedere il modo in cui la piccola Maria si disperava durante la marcia funebre. Continuava a gridare “La voglio vedere! La voglio vedere!” ma il nostro ordine impone di non vedere mai il corpo di una sorella morta. E’ così giovane Maria, deve ancora diventare forte. Oggi, dopo i vespri, non ho portato cibo ed acqua a Beatrice. Sentivo che stava per succedere qualcosa e sono rimasta in attesa nella mia cella. Una speranza vaporosa si gonfiava nel mio petto con lo scorrere dei secondi. Poi qualcuno ha bussato. “Maria!” ho pensato subito. Era lei ed era in lacrime, ancora. Mi ha detto di non riuscire a smettere di pensare alla nostra povera sorella che è morta, sembrava stordita e disorientata. Ho messo da parte il mio rigore di madre superiora per essere solo una madre per lei, in quel momento. Ho aperto le braccia e ho lasciato che Maria si stringesse al mio petto. Nonostante i suoi singhiozzi interrompessero il contatto tra i nostri corpi, mi sembrava di sentire distintamente il suo seno che premeva contro il mio. Com’è giovane Maria! Sentivo un formicolio sotto la veste, come se la mia pelle vibrasse di vita propria. “Supereremo anche questa, sorella Maria” le ho detto. Poi ho poggiato le mie labbra una volta sulla sua fronte ed una volta sulla sua guancia, sentendo il sapore delle sue lacrime salate. Qualche centimetro più in là e avrei sfiorato le sue labbra.
Ho raggiunto la consapevolezza che con il passare degli anni la disposizione d’animo di ciascuno viri quasi inevitabilmente verso l’odio del caos. Caos. Questa è forse la parola più pagana che riesca a turbarmi. Quando la pronuncio nella mente mi sembra che si aggiri come una belva famelica nel buio del mio cranio, urtando e graffiando qualsiasi cosa incontri, pronta a prendere fuoco da un momento all’altro. E’ potente e terribile. Provo quasi terrore, io che sono così incombusta.
Ormai da giorni non parlo con qualcuno che possa pronunciarla e l’unico rumore che mi tiene compagnia e che rischia di condurmi tra le braccia della follia è questo incessante gocciolare dell’umidità sulla pietra. A volte, di notte, mi sento talmente tesa da sobbalzare non appena odo la goccia che colpisce il pavimento, sebbene sia il tono costante e perpetuo che scandisce le mie giornate. Mi mancano le voci che origliavo attraverso i muri del cortile, mi manca il bagliore lancinante della luce del sole sui miei occhi asciutti, mi manca respirare l’aria libera e fresca. Sopra ogni cosa, mi manca lei.
Io e Maria siamo le uniche componenti della classe ad aver proseguito la strada benedetta del convento, dopo l’istruzione superiore. Nel nostro convento le classi di educande prendono il nome dalle iniziali della suora che le istruisce. La nostra istruttrice è sempre stata suor Maria Margherita e la nostra classe era dunque la classe MM. Tutte in convento ci chiamavano per abitudine “la classe duemila”, sia per la vicinanza del nostro anno di nascita alla soglia del terzo millennio, sia perché la sigla veniva letta come se si trattasse di numeri romani. Veniva sempre detto con ironia e faceva sfuggire spesso un sorriso divertito. In convento ci si diverte davvero con poco, nei limiti di quanto è permesso divertirsi.
Il convento della Madonna delle Grazie sorge al centro del paese di Jate Valdostano. E’ una costruzione che risale al XV secolo e si erge con imponenza come se giudicasse tutto ciò che gli è stato costruito attorno successivamente. Oltre ad essere il convento di un ordine di suore di clausura, ospita una scuola per orfane. Il mondo mi ha gettata tra queste mura quando avevo l’età di sei anni, mentre Maria è arrivata all’età di nove anni. Essendo nate nel 1997 siamo state assegnate alla stessa classe. Entrambe non abbiamo dei ricordi molto vividi della nostra vita prima del convento. Sappiamo soltanto che i nostri vecchi orfanotrofi erano troppo pieni e siamo state spedite qui non appena il convento ha avuto dei posti liberi. Maria ha potuto raggiungerci soltanto perché Alberta è morta per una brutta polmonite. E’ stato molto triste ed inizialmente odiavo Maria per aver sostituito quella mia amica, ma poco dopo la vita è continuata e quella morte si è ridotta all’indifferenza di qualsiasi avvenimento della mia infanzia, come un brutto temporale.
Tutte le classi del convento sono formate da un massimo di cinque educande che non possono uscire dal convento se non dopo la maggiore età, se lo desiderano. E’ una sorta di clausura forzata con un termine prefissato. Molte volte mi sono chiesta come fosse possibile che nessuno dall’esterno facesse qualcosa per liberare le orfane da questa prigionia. Mi sono risposta che è perché a nessuno importa di noi, che è perché abitiamo in un paesino di cinquecento abitanti e che è perché nessuna delle educande uscite dal convento si è mai lamentata. D’altronde qui è meglio che altrove. Abbiamo ricevuto in dono dal Signore una casa che ci protegge. Come morbido filo attorno al fuso di un arcolaio, quasi ogni mio ricordo è avvolto attorno agli echi delle laudi attraverso i corridoi di pietra. Ho spesso avuto un desiderio altalenante di conoscere il mondo al di là delle mura ma ho sempre avuto delle sorelle qui con me e, soprattutto, ho sempre avuto Maria.
Nonostante il rigore della madre superiora ho appreso attraverso le strette fessure di un muro del cortile quanto io e le mie coetanee esterne potessimo essere simili e diverse. Molto spesso non comprendevo il significato dei loro discorsi perché utilizzavano delle parole che non conosco. Ciò che però ho notato dai discorsi degli adulti che passavano accanto a quel muro è che nemmeno loro lo capivano e avevano quasi in odio la diversità di quelle giovani ragazze.
Dicevano “Ora hanno tutti questi selfi, questo feisbuc, non fanno altro dalla mattina alla sera. Dove andremo a finire? Non hanno proprio idea di cosa sia la vita vera e pensano solo a divertirsi, a comprare vestiti nuovi e a fotografare tutto per metterlo su feisbuc. Che i loro genitori li puniscano una volta per tutte e gli mettano la testa sulle spalle! Questi nati dal 2000 in poi stanno facendo diventare il mondo uno schifo! Tutte queste americanate stanno trasformando l’Italia in un paese di coglioni e di buttane!”
Discorsi infiammati come questo venivano pronunciati con autentico disprezzo e con l’inimitabile alterigia di chi crede di essere il custode del buon costume. Mi sembrava di vivere in un mondo parallelo; io avevo la loro stessa età eppure non mi identificavo in quelle descrizioni colorite che ascoltavo. Nonostante il mio comportamento non rientrasse tra i motivi di biasimo che sembravano caratterizzare la popolazione di Jate, le suore del convento e la madre superiora avevano sempre qualcosa da ridire sul mio comportamento. Ero troppo rumorosa, ero troppo scherzosa, disturbavo troppo, volevo passare troppo tempo con le mie compagne e con Maria. Ero lo scompiglio nel loro Eden, la loro fonte di caos e il caos, dicevano, non è gradito a Dio. Sembrava che essere nati nel 2000 o in prossimità di quell’anno portasse gli adulti e gli anziani ad odiarci senza alcun vero motivo apparente. Io ero diversa dalle ragazze che vivevano fuori dal convento, eppure molto spesso notavo le occhiatacce di disgusto che mi lanciava la madre superiora quando passeggiavo nel chiostro con Maria. Sembrava che tutto ciò che era nuovo, giovane e diverso facesse avvertire agli adulti una sensazione di pericolo e minaccia, dunque doveva essere cambiato. Non capivo, davvero non capivo. Ma adesso capisco.
Credo che la mia vita sia stata molto diversa da quella delle ragazze esterne. Sono cresciuta indossando soltanto degli abiti neri e bianchi, mangiando sempre le stesse pietanze essenziali, giocando con i piccoli volatili e gli insetti che popolavano il chiostro. Non trovavo con quelle ragazze alcun punto di incontro fino a quando non udii una ragazza piangere. Quando la udii avevo da poco compiuto diciotto anni e immagino che lei avesse più o meno la mia stessa età. All’inizio del mio ascolto clandestino era sola ed emetteva soltanto dei piccoli gemiti sommessi. Mi sembrava di percepire la profondità della sua sofferenza e sentivo io stessa una fitta al centro del petto. Poco tempo dopo una ragazza che doveva essere sua amica la raggiunse. Riuscii ed ascoltare ben poco di ciò che si dissero quella volta, ma una frase penetrò come ghiaccio attraverso la roccia fino alle mie orecchie assetate: “Ma io lo amo”. Il mio cuore ebbe un sobbalzo. Di questo allora si trattava. Quella ragazza soffriva per amore.
Udire quella ragazza che soffriva così intensamente risvegliò una violenta scossa che percorse tutto il mio corpo. Tentai di smettere di tremare, tentai di acquietare il cuore e di rallentare il respiro ma ad ogni futile tentativo la mia mente urlava sempre più energicamente un nome: Maria.
Mi ammalai. La febbre mi trattenne a letto per oltre una settimana. Quando Maria tentava di entrare nella stanza i miei gemiti deliranti diventavano più violenti, costringendola a fuggire in preda al senso di colpa. La madre superiora impedì le visite da parte di chiunque, come spesso faceva quando una di noi si ammalava. Mi fece trasferire in una stanza appartenente alla parte più antica del convento, vicino a dove è conservato un frammento della Santa Croce. Diceva sempre che la vicinanza a quella sacra reliquia avrebbe liberato il nostro debole corpo traviato da ogni malattia. Con la piccola Alberta questo non avvenne ma con me dovette funzionare, visto che iniziai a sentirmi molto meglio dopo qualche giorno. Le camere dell’antica parte del convento sono molto oscure ed umide e alcune non hanno finestre che si affaccino all’esterno. Adesso so di essere in una di queste camere. Ho provato ad urlare, ma i muri sono molto spessi e sono distante dalla parte abitata del convento. Nessuno mi ha ancora sentita.
Dopo la mia convalescenza qualcosa cambiò nel mio animo. Ero esternamente calma e sembrava che nessuna preoccupazione potesse far nascere delle rughe sulla mia fronte bianca. Tutto su Maria e la madre superiora mi fu chiaro, lampante. Capii finalmente cosa portava la madre superiora a guardarmi con disgusto mentre trascorrevo del tempo con la mia amica e capii finalmente cosa albergava nel mio petto in attesa di qualcuno che aprisse la sua gabbia.
La madre superiora è una donna anziana e credo che il mondo in cui è cresciuta fosse molto diverso dal nostro. Quando eravamo bambine si concedeva talvolta una pausa dalla sua personalità rigida e severa raccontandoci storie riguardanti la sua giovinezza. A detta della madre superiora, il mondo era un posto perfetto quando era giovane: non c’erano tutte le tentazioni che ci sono oggi, la gente non aveva bisogno di comprare continuamente qualcosa per credere di essere felice e tutto andava secondo le regole. Un uomo ed una donna si sposavano, mettevano su famiglia, il padre lavorava e la madre cresceva i figli. Uno schema antico, quasi un archetipo. Quando ascoltavo i suoi racconti vedevo una luce soffice che bagnava le sue pupille e mi commuovevo. Il mondo di allora doveva essere molto bello e dovevano esserci molte meno ragioni per cui pregare.
Ciò che mi portò a scegliere la via della clausura fu la meraviglia che provai quando scoprii l’adorazione perpetua. Le suore del convento della Madonna delle Grazie scelgono di rinunciare alla propria vita nel mondo esterno per trascorrerne una di preghiera, con il fine di riparare con la fede ciò che il peccato guasta nel mondo. Ho sempre trovato questa missione di vitale importanza e vicina a Dio in modo supremo. Mai avrei immaginato che il primo anno del mio noviziato sarebbe stato l’anno in cui avrei smesso di sentire la luce del sole sulla mia pelle.
La forte febbre che mi prese dopo aver origliato il pianto della ragazza attraverso le fessure del muro si verificò appena due mesi fa. Da poco io e Maria eravamo state accettate come novizie e ci sentivamo entrambe profondamente amate dal resto del convento. Ci avevano cresciute e tutte erano per noi un po’ come madri, più che come sorelle. Il giorno dopo essere guarita mi recai risolutamente nella cella di Maria. Faceva molto freddo quella notte e Maria aveva acceso una candela sul comodino, come era sempre solita fare prima di addormentarsi. Quando entrai nella sua cella vidi subito l’alternarsi del suo respiro addormentato sotto le coperte. Avvicinandomi al letto la osservai alla luce della candela, con i capelli corti un po’ arricciati sul viso e la bocca semichiusa. Sembrava un angelo e sentivo un formicolio percorrermi tutta la pelle sotto la veste, come una brezza gelida. Quando accarezzai i capelli sulla sua fronte Maria si svegliò ed in preda allo spavento gettò un urlo, che io arrestai appoggiando un dito sulle sue labbra.
“E tu cosa ci fai qui? Sei guarita! La madre superiora non mi ha permesso di avvicinarmi mentre eri malata. Avrei voluto farti compagnia quando avevi la febbre ma la tua agitazione aumentava quando entravo nella tua cella.”
Non risposi, rimasi a fissarla in ammirazione.
“Va tutto bene? Sicura di sentirti meglio? Perché mi guardi così?”
Maria tremava appena percettibilmente e le sue labbra secche si muovevano come se bisbigliasse qualcosa, come se pregasse. Poggiai nuovamente la mia mano sulla sua fronte e le scostai i capelli dal viso. Quando la mia mano fredda toccò la sua pelle vidi Maria rabbrividire, ma non si ritrasse.
“Cosa fai?”
Non risposi. Non c’era nulla da dire. Continuai ad accarezzarla mentre la osservavo. Fissava i miei occhi con spavento, le sue labbra fremevano. Notai i suoi capezzoli turgidi sotto la vestaglia. Il formicolio sotto la mia veste aumentò sensibilmente.
“Cosa…?”
Sorrisi. Maria chiuse gli occhi e iniziò anche lei a sfiorare la pelle del mio viso. Quando le sue dita mi toccarono mi sembrò di prendere fuoco. Tutto ciò che riuscivo a pensare era caos. Era bellissima e vulnerabile. Quando ebbi tolto la sua vestaglia e la mia veste sembrò terrorizzata e felice allo stesso tempo. Quando la mia lingua circondò i suoi capezzoli e la mia mano sentì il calore ardente tra le sue cosce ogni terrore era svanito ma entrambe continuammo a tremare per tutta la notte, fino a quando ci addormentammo.
Ci svegliarono i canti delle laudi. Eravamo in ritardo, molto in ritardo. Ci guardammo in modo interrogativo e con un sorriso appena accennato, mentre in fretta ci rivestivamo. Quando uscimmo dalla sua cella iniziammo a camminare velocemente verso la cappella e poco prima di raggiungerla incrociammo la madre superiora. Ci guardò con uno dei peggiori sguardi di rimprovero che ci abbia mai rivolto e noi abbassammo la testa ed entrammo nella cappella. Mentre mi univo alle consorelle nella liturgia delle ore, la mia mente rimase fuori dalla stanza sacra. Lo sguardo della madre superiora era rimasto arpionato alla mia mente come la lisca di un pesce sul palato. Ciò che non permetteva la mia concentrazione non era tanto il rimprovero, quanto l’espressione di fugace terrore e rabbia che aveva attraversato il suo volto per un secondo. Continuavo a ripetere a me stessa di averlo soltanto immaginato.
Per un mese io e Maria non aspettavamo altro che finissero i canti di compieta per poter andare ognuna della propria cella ad aspettare l’altra. Fu un mese di immensa gioia e di profonda preoccupazione per la paura di essere scoperte. La madre superiora fissava in ogni occasione il suo sguardo su di me, come se volesse forzare le barriere della mia mente. Nei suoi occhi leggevo lo stesso disgusto che avevo visto negli ultimi anni ogni volta che sorridevo in compagnia di Maria passeggiando accanto al muro del cortile. Non capivo. Ero cieca.
Mi ammalai nuovamente. L’ultima cosa che ricordo prima che la febbre mi facesse delirare era lo sguardo amorevole di Maria mentre poggiava una pezza fresca sulla mia fronte in fiamme. Poi solo buio, letteralmente. La madre superiora mi fece trasferire di nuovo nelle stanze più interne del convento. Non vidi nessuno per molti giorni. Una volta guarita, mi resi conto di giacere in una camera totalmente oscura, tra lenzuola sudate. La porta di quella cella era chiusa a chiave. Nonostante i miei tentativi di richiamare l’attenzione di una delle sorelle con i pugni o con le urla, nessuno venne. Credo di essere qui da due settimane. Due volte al giorno sento dei passi che si avvicinano verso la mia cella. A quel punto mi dispero, urlo, batto i pugni contro la porta. Nessuna reazione dall’esterno, soltanto una fessura della porta che si apre e lancia dentro un piatto con del pane ed una ciotola con dell’acqua. Sono prigioniera nel mio convento. So chi ha fatto questo. Perché la madre superiora mi odia così tanto? Si riconduce tutto soltanto al modo che ha sempre avuto di bisbigliare con disappunto e a denti stretti “voi della classe MM”, guardando me e Maria? Non può essere solo l’inevitabile insofferenza che nutrono le vecchie generazioni verso le nuove.
So che non è solo questo. So che l’odio della madre superiora nei miei confronti non è neanche minimamente paragonabile a quello degli adulti verso le ragazze esterne al convento. Lei sa e per questo mi punisce, perché ritiene che io abbia peccato.
Due giorni fa, oltre ad aver portato la mia razione di cibo ed acqua della sera, ha lasciato la fessura aperta per qualche secondo in più. Ho tentato di toccarla attraverso la porta mentre piangevo lacrime disperate. Non diceva nulla e sentivo soltanto il suo respiro rapido e irregolare, come se fosse furibonda. Dopo poco ha detto solo “Tu sei morta”.
Non ho capito cosa intendesse fino a quando oggi ho sentito le campane suonare a morte.
Oggi abbiamo sepolto la bara di Beatrice nel piccolo cimitero del convento. E’ stato straziante vedere il modo in cui la piccola Maria si disperava durante la marcia funebre. Continuava a gridare “La voglio vedere! La voglio vedere!” ma il nostro ordine impone di non vedere mai il corpo di una sorella morta. E’ così giovane Maria, deve ancora diventare forte. Oggi, dopo i vespri, non ho portato cibo ed acqua a Beatrice. Sentivo che stava per succedere qualcosa e sono rimasta in attesa nella mia cella. Una speranza vaporosa si gonfiava nel mio petto con lo scorrere dei secondi. Poi qualcuno ha bussato. “Maria!” ho pensato subito. Era lei ed era in lacrime, ancora. Mi ha detto di non riuscire a smettere di pensare alla nostra povera sorella che è morta, sembrava stordita e disorientata. Ho messo da parte il mio rigore di madre superiora per essere solo una madre per lei, in quel momento. Ho aperto le braccia e ho lasciato che Maria si stringesse al mio petto. Nonostante i suoi singhiozzi interrompessero il contatto tra i nostri corpi, mi sembrava di sentire distintamente il suo seno che premeva contro il mio. Com’è giovane Maria! Sentivo un formicolio sotto la veste, come se la mia pelle vibrasse di vita propria. “Supereremo anche questa, sorella Maria” le ho detto. Poi ho poggiato le mie labbra una volta sulla sua fronte ed una volta sulla sua guancia, sentendo il sapore delle sue lacrime salate. Qualche centimetro più in là e avrei sfiorato le sue labbra.