Il mondo che cresce (lab. Agosto) di Jacopo Berti [5781]
Inviato: giovedì 8 dicembre 2016, 9:44
Sperando che qualcun altro si iscriva a questo laboratorio di Dicembre o che almeno qualcuno di quelli che mi aveva già dato la grazia possa confermarla pur non partecipando, ripropongo questo racconto di cui sono piuttosto soddisfatto e che col senno di poi vedo parte di una trilogia, di una serie, assieme a Propensioni e a Nel tempo degli dei falsi e bugiardi.
Li vedo come ambientati in un periodo, fra a qualche centinaio d'anni, in cui le nuove tecnologie hanno reso l'esplorazione del cosmo una cosa non per tutti ma per tanti. Un esercito di persone poco più che comuni che si trovano in circostanze oggettivamente eccezionali.
Lo ripropongo dopo averlo scritto ex novo per il laboratorio di Agosto. L'ho modificato in base ad alcuni vostri suggerimenti.
Il mondo che cresce
Conoscere i nomi di tutte quelle piante, le loro flessibili o inflessibili geometrie, le loro sfumature di colori e odori gli dava un senso di pace e di sicurezza. Erano nomi che nessun altro sapeva: lui stesso li aveva stabiliti, adeguandoli per quanto possibile alla variegata vita vegetale che prosperava su Dawkins. Ma aveva la sensazione di averli appiccicati come post-it su una superficie troppo ruvida: presto se ne sarebbe andato, ed essi sarebbero caduti uno ad uno, senza rumore, prima ancora che il mite inverno afelico strappasse dai rami le foglie decidue.
Dawkins era un raro caso di pianeta botanico. Non c’erano animali superiori veri e propri, autonomi. Tutte le creature che si erano evolute lo avevano fatto all’ombra della vita vegetale: tutte erano ibridi o simbionti, spesso specie-specifici. C’era il Pinoides arborescens e l’Apis pinicola var. arborescens. C’era la Ledeburia megalocristata e il suo specifico verme. Il Platanus nucifera var. tarsiis e il relativo tarsio. Questo si arrampicava sugli alberi, coglieva le grosse capsule, le portava lontano e le frantumava contro una roccia, per suggerne il succo, liberandone così i semi. Enrico lo guardava ammirato e la mente ritornava a vaghi ricordi universitari: per tutti questi animali, gli alberi e le piante erano cibo, rifugio, alcova. Sapeva che si trattava sempre di coevoluzione e che era superfluo domandarsi se gli animali si fossero adattati alle piante o se queste avessero in qualche modo addestrato, addomesticato gli animali. Ma nel caso di Dawkins propendeva decisamente per questa seconda ipotesi.
Enrico, botanico lui stesso, riusciva a immaginarsi in questa vita botanica, a trovarla sensata. Il tempo che si trascorre colle piante è fatto di silenzi corrisposti, di cure amorevoli e secrete cure, di disperata vulnerabilità. Voluttà d’acqua e di sole, bellezza estatica, immobile o ghermita dal vento, modellata da milioni di primavere estati autunni inverni.
Enrico viveva perpetuamente uno strano rapimento, come quello che si prova quando ci si risveglia nel primo pomeriggio, si guarda il cielo, le case, gli alberi color pastello e si gode del sole che illumina anche il nostro volto. Prima di rendersi conto di chi si è, di cosa si debba fare e che in fondo si è soli a questo mondo.
Quale mondo? Ormai il suo mondo era questo, Dawkins. Della sua vita precedente – poteva chiamarla così? – ricordava sempre meno. La sua memoria era sbiadita, come se appartenesse a qualcun altro. Persino i ricordi più recenti erano stranianti e confusi. Aveva provato la solitudine, l’ingombrante angosciosa presenza di noi stessi aggravata dall’assenza degli altri: com’era stato possibile? Poco a poco – era qualche settimana fa o un tempo remoto? – si era avvicinato a Clarissa Genchi, la genetista della squadra: il suo compito era modificare le specie che si fossero rivelate utili – utili? – dotandole di una variabilità che consentisse loro di essere portate su altri pianeti con un minimo di accorgimenti, di quelli soliti: resistenza al caldo o al freddo, alle radiazioni, alla stasi temporale necessaria al viaggio iper-luce. Il lavoro congiunto di evoluzione casuale e di finalità umana era il binomio perfetto. La progettazione di una specie ex novo non era nelle possibilità degli esseri umani perché richiedeva una capacità di calcolo ancora ineguagliata: erano necessari un pianeta e un ecosistema; e le centinaia di migliaia, i milioni di anni, erano le unità di computazione minime per produrre da zero una forma di vita, per affinarne la morfologia e i meccanismi regolatori. L’uomo, però, era in grado di cogliere queste potenzialità, di sfruttarle appieno, di forzare la sopravvivenza anziché di conseguirla attraverso innumerevoli tentativi.
A tutto ciò Enrico non pensava quando lui e Clarissa erano stati aggrediti da un branco di tarsi insolitamente lontani dai loro platani. Le bestie, una dozzina, erano accorse verso di loro, brandendo pietre e bastoni; li avevano atterrati e con ferocia avevano colpito i loro caschi fino a che questi non si erano rotti. Poi se n’erano andati in fretta, mentre l’odore prorompente di Dawkins invadeva le narici dell’uomo e della donna. Enrico e Clarissa si erano tolti le pesanti tute e si erano presi per mano, intrecciando le dita. Insieme, a piedi nudi sul muschio, erano corsi al seguito d’un vento ebbro, fino ad arrivare a una Quercus nutrix, la più grande che avessero mai visto. Nei recessi delle sue radici, in un talamo naturale, la tiepida carne dell’albero aveva avvolto i loro corpi attorti e frementi, aveva accolto i loro pensieri, serbandoli come il più grande dei tesori.
Ricordi: erano suoi? Perché ricordava Clarissa ora come amante ora come madre? Se voleva rimanere su Dawkins, cosa lo spingeva invece ad andarsene in tutta fretta, ad accorrere all’astronave che si stava preparando a partire? Nudo, con una manciata di semi stretti nel pugno, Enrico si precipitava al portellone che aveva cominciato a chiudersi. Altri lo seguivano. E un altro Enrico, da dentro, lo guardava incredulo. Enrico di fuori poteva indovinare le ultime esperienze del suo omonimo: il ritorno angoscioso all’astronave, le visite mediche, il periodo di decontaminazione, l’inquietudine per le conseguenze delle proprie leggerezze. Capiva e non capiva quella paura, così come capiva e non capiva il senso delle sue parole.
«Ce ne sono a decine, simili a me o alla dottoressa Genchi, o a McGregor o alla Dimitrova. Vengono verso di noi, vogliono appropriarsi della nave. Tentiamo un decollo di emergenza, ma non so per quanto ancora riusciremo a respingerli».
Sì, la descrizione corrispondeva al vero. Ma cosa c’era di male? Per quale assurda ragione stavano ostacolando il mondo che cresce?
Li vedo come ambientati in un periodo, fra a qualche centinaio d'anni, in cui le nuove tecnologie hanno reso l'esplorazione del cosmo una cosa non per tutti ma per tanti. Un esercito di persone poco più che comuni che si trovano in circostanze oggettivamente eccezionali.
Lo ripropongo dopo averlo scritto ex novo per il laboratorio di Agosto. L'ho modificato in base ad alcuni vostri suggerimenti.
Il mondo che cresce
Conoscere i nomi di tutte quelle piante, le loro flessibili o inflessibili geometrie, le loro sfumature di colori e odori gli dava un senso di pace e di sicurezza. Erano nomi che nessun altro sapeva: lui stesso li aveva stabiliti, adeguandoli per quanto possibile alla variegata vita vegetale che prosperava su Dawkins. Ma aveva la sensazione di averli appiccicati come post-it su una superficie troppo ruvida: presto se ne sarebbe andato, ed essi sarebbero caduti uno ad uno, senza rumore, prima ancora che il mite inverno afelico strappasse dai rami le foglie decidue.
Dawkins era un raro caso di pianeta botanico. Non c’erano animali superiori veri e propri, autonomi. Tutte le creature che si erano evolute lo avevano fatto all’ombra della vita vegetale: tutte erano ibridi o simbionti, spesso specie-specifici. C’era il Pinoides arborescens e l’Apis pinicola var. arborescens. C’era la Ledeburia megalocristata e il suo specifico verme. Il Platanus nucifera var. tarsiis e il relativo tarsio. Questo si arrampicava sugli alberi, coglieva le grosse capsule, le portava lontano e le frantumava contro una roccia, per suggerne il succo, liberandone così i semi. Enrico lo guardava ammirato e la mente ritornava a vaghi ricordi universitari: per tutti questi animali, gli alberi e le piante erano cibo, rifugio, alcova. Sapeva che si trattava sempre di coevoluzione e che era superfluo domandarsi se gli animali si fossero adattati alle piante o se queste avessero in qualche modo addestrato, addomesticato gli animali. Ma nel caso di Dawkins propendeva decisamente per questa seconda ipotesi.
Enrico, botanico lui stesso, riusciva a immaginarsi in questa vita botanica, a trovarla sensata. Il tempo che si trascorre colle piante è fatto di silenzi corrisposti, di cure amorevoli e secrete cure, di disperata vulnerabilità. Voluttà d’acqua e di sole, bellezza estatica, immobile o ghermita dal vento, modellata da milioni di primavere estati autunni inverni.
Enrico viveva perpetuamente uno strano rapimento, come quello che si prova quando ci si risveglia nel primo pomeriggio, si guarda il cielo, le case, gli alberi color pastello e si gode del sole che illumina anche il nostro volto. Prima di rendersi conto di chi si è, di cosa si debba fare e che in fondo si è soli a questo mondo.
Quale mondo? Ormai il suo mondo era questo, Dawkins. Della sua vita precedente – poteva chiamarla così? – ricordava sempre meno. La sua memoria era sbiadita, come se appartenesse a qualcun altro. Persino i ricordi più recenti erano stranianti e confusi. Aveva provato la solitudine, l’ingombrante angosciosa presenza di noi stessi aggravata dall’assenza degli altri: com’era stato possibile? Poco a poco – era qualche settimana fa o un tempo remoto? – si era avvicinato a Clarissa Genchi, la genetista della squadra: il suo compito era modificare le specie che si fossero rivelate utili – utili? – dotandole di una variabilità che consentisse loro di essere portate su altri pianeti con un minimo di accorgimenti, di quelli soliti: resistenza al caldo o al freddo, alle radiazioni, alla stasi temporale necessaria al viaggio iper-luce. Il lavoro congiunto di evoluzione casuale e di finalità umana era il binomio perfetto. La progettazione di una specie ex novo non era nelle possibilità degli esseri umani perché richiedeva una capacità di calcolo ancora ineguagliata: erano necessari un pianeta e un ecosistema; e le centinaia di migliaia, i milioni di anni, erano le unità di computazione minime per produrre da zero una forma di vita, per affinarne la morfologia e i meccanismi regolatori. L’uomo, però, era in grado di cogliere queste potenzialità, di sfruttarle appieno, di forzare la sopravvivenza anziché di conseguirla attraverso innumerevoli tentativi.
A tutto ciò Enrico non pensava quando lui e Clarissa erano stati aggrediti da un branco di tarsi insolitamente lontani dai loro platani. Le bestie, una dozzina, erano accorse verso di loro, brandendo pietre e bastoni; li avevano atterrati e con ferocia avevano colpito i loro caschi fino a che questi non si erano rotti. Poi se n’erano andati in fretta, mentre l’odore prorompente di Dawkins invadeva le narici dell’uomo e della donna. Enrico e Clarissa si erano tolti le pesanti tute e si erano presi per mano, intrecciando le dita. Insieme, a piedi nudi sul muschio, erano corsi al seguito d’un vento ebbro, fino ad arrivare a una Quercus nutrix, la più grande che avessero mai visto. Nei recessi delle sue radici, in un talamo naturale, la tiepida carne dell’albero aveva avvolto i loro corpi attorti e frementi, aveva accolto i loro pensieri, serbandoli come il più grande dei tesori.
Ricordi: erano suoi? Perché ricordava Clarissa ora come amante ora come madre? Se voleva rimanere su Dawkins, cosa lo spingeva invece ad andarsene in tutta fretta, ad accorrere all’astronave che si stava preparando a partire? Nudo, con una manciata di semi stretti nel pugno, Enrico si precipitava al portellone che aveva cominciato a chiudersi. Altri lo seguivano. E un altro Enrico, da dentro, lo guardava incredulo. Enrico di fuori poteva indovinare le ultime esperienze del suo omonimo: il ritorno angoscioso all’astronave, le visite mediche, il periodo di decontaminazione, l’inquietudine per le conseguenze delle proprie leggerezze. Capiva e non capiva quella paura, così come capiva e non capiva il senso delle sue parole.
«Ce ne sono a decine, simili a me o alla dottoressa Genchi, o a McGregor o alla Dimitrova. Vengono verso di noi, vogliono appropriarsi della nave. Tentiamo un decollo di emergenza, ma non so per quanto ancora riusciremo a respingerli».
Sì, la descrizione corrispondeva al vero. Ma cosa c’era di male? Per quale assurda ragione stavano ostacolando il mondo che cresce?