Blu zaffiro - Troccoli edition [3304]
Inviato: martedì 13 dicembre 2016, 19:29
Ricordo il silenzio di quell'angolo di paradiso.
Il giardino infinito, il mare che ci accarezzava discreto, un'immensa casa lontano ad attenderci.
A volte, quasi a comando, le onde ci venivano incontro, e perdendoci nel blu zaffiro iniziava il viaggio verso un mondo nuovo, in cui faticavo a riconoscere la forma del sole e della luna, forse perché sentivo io stesso di essere un astro lucente.
Col mattino, tornava il buio.
Quei sogni ossessivi, che mi donavano notti brillanti e risvegli fatui, tormentavano il mio animo incerto e strozzavano i pensieri concreti di una vita normale, lasciandomi in balìa di quel mare che di giorno non governavo.
Volevo di più dalla vita, dannatamente. Non mi bastava la mia casa tre vani a pareti bianche, stretta tra la tangenziale e la vecchia fabbrica di mattoni abbandonata.
La fabbrica, per giunta, dove mio padre aveva lavorato tutta la vita, fino a morire di troppo sudore, sopra un cumulo di sabbia sporca.
Entrai, e le mie pupille si dilatarono, le ombre divennero sagome amiche.
Poche luci soffuse, verdi di speranze, illuminavano quei tavoli dove cercavo la svolta. Giocai qualche gettone alle slot, come un aperitivo necessario. Furono tutti gentili e le prime mani vincenti: due full di donne e un poker d'assi.
Soldi.
Tanti soldi. Non riuscii a contarli, se non a casa di nascosto, ebbro di quel fruscio che era orgasmo, battito di cuore.
Tornai. E le mie carte sembrarono subito indemoniate. Gli altri ridevano, sbuffavano fumo e raccattavano fiches rosse, verdi e blu. Le mie.
Ritornai e persi ancora.
Solo Lucia mi dava la forza per non farla finita. Lei vedeva in noi ancora i risvegli di latte e biscotti e le cene il sabato alla trattoria d'angolo. Non mi davo pace e non vivevo, non esistevo se non per tentare di pizzicare la sorte, sfiorandola con le dita, soffiando piangendo imprecando.
“Amore esco”.
“Ti prego, non andare a giocare”. Lei, innamorata e ingenua, mi supplicava.
E invece, risucchiato verso l'inferno, con il pensiero fisso di sbancare, di chiudere la porta di quella casa e raggiungere quel mare calmo che ci attendeva, giocai. I risparmi di una vita, i soldi del mutuo, a volte anche gli spiccioli per comprare il pane.
Lei mi lasciò e rimasi orfano di tutto, anche del lavoro e di quella maledetta casa che odiavo.
Sudicio, passavo le giornate ai margini del mondo, su un letto d'asfalto, in attesa di qualche euro per mangiare o di una coltellata fatale. Una di quelle notti, al freddo di un cartone, tornai a sognare. Non c'era il blu meraviglioso del mare o il verde lussureggiante dell'erba appena tagliata. Non v'era ombra neppure del mio amore.
Apparve solo mio padre, sporco come il giorno della sua morte. Si alzò, non volle aiuto. Pulendosi i vestiti mi guardava col piglio del rimprovero, come quando ero bambino. E proprio come allora mi abbracciò, prima di sparire.
La mia nuova stanza ha le pareti scrostate dal tempo e dall'umidità, ma non m'importa. A pranzo, la mensa del centro serve spesso gli stessi piatti e i nuovi arrivati hanno la maschera scura del mio viso.
Dal terrazzo, però, si scorge il golfo. Le onde vengono accolte dagli scogli e da uomini e donne che le guardano innamorati.
Oggi ho visto passeggiare una donna, sembrava Lucia.
Forse mi aspetta e intanto, i suoi occhi, si lasciano rapire dal nostro mare.
Il giardino infinito, il mare che ci accarezzava discreto, un'immensa casa lontano ad attenderci.
A volte, quasi a comando, le onde ci venivano incontro, e perdendoci nel blu zaffiro iniziava il viaggio verso un mondo nuovo, in cui faticavo a riconoscere la forma del sole e della luna, forse perché sentivo io stesso di essere un astro lucente.
Col mattino, tornava il buio.
Quei sogni ossessivi, che mi donavano notti brillanti e risvegli fatui, tormentavano il mio animo incerto e strozzavano i pensieri concreti di una vita normale, lasciandomi in balìa di quel mare che di giorno non governavo.
Volevo di più dalla vita, dannatamente. Non mi bastava la mia casa tre vani a pareti bianche, stretta tra la tangenziale e la vecchia fabbrica di mattoni abbandonata.
La fabbrica, per giunta, dove mio padre aveva lavorato tutta la vita, fino a morire di troppo sudore, sopra un cumulo di sabbia sporca.
Entrai, e le mie pupille si dilatarono, le ombre divennero sagome amiche.
Poche luci soffuse, verdi di speranze, illuminavano quei tavoli dove cercavo la svolta. Giocai qualche gettone alle slot, come un aperitivo necessario. Furono tutti gentili e le prime mani vincenti: due full di donne e un poker d'assi.
Soldi.
Tanti soldi. Non riuscii a contarli, se non a casa di nascosto, ebbro di quel fruscio che era orgasmo, battito di cuore.
Tornai. E le mie carte sembrarono subito indemoniate. Gli altri ridevano, sbuffavano fumo e raccattavano fiches rosse, verdi e blu. Le mie.
Ritornai e persi ancora.
Solo Lucia mi dava la forza per non farla finita. Lei vedeva in noi ancora i risvegli di latte e biscotti e le cene il sabato alla trattoria d'angolo. Non mi davo pace e non vivevo, non esistevo se non per tentare di pizzicare la sorte, sfiorandola con le dita, soffiando piangendo imprecando.
“Amore esco”.
“Ti prego, non andare a giocare”. Lei, innamorata e ingenua, mi supplicava.
E invece, risucchiato verso l'inferno, con il pensiero fisso di sbancare, di chiudere la porta di quella casa e raggiungere quel mare calmo che ci attendeva, giocai. I risparmi di una vita, i soldi del mutuo, a volte anche gli spiccioli per comprare il pane.
Lei mi lasciò e rimasi orfano di tutto, anche del lavoro e di quella maledetta casa che odiavo.
Sudicio, passavo le giornate ai margini del mondo, su un letto d'asfalto, in attesa di qualche euro per mangiare o di una coltellata fatale. Una di quelle notti, al freddo di un cartone, tornai a sognare. Non c'era il blu meraviglioso del mare o il verde lussureggiante dell'erba appena tagliata. Non v'era ombra neppure del mio amore.
Apparve solo mio padre, sporco come il giorno della sua morte. Si alzò, non volle aiuto. Pulendosi i vestiti mi guardava col piglio del rimprovero, come quando ero bambino. E proprio come allora mi abbracciò, prima di sparire.
La mia nuova stanza ha le pareti scrostate dal tempo e dall'umidità, ma non m'importa. A pranzo, la mensa del centro serve spesso gli stessi piatti e i nuovi arrivati hanno la maschera scura del mio viso.
Dal terrazzo, però, si scorge il golfo. Le onde vengono accolte dagli scogli e da uomini e donne che le guardano innamorati.
Oggi ho visto passeggiare una donna, sembrava Lucia.
Forse mi aspetta e intanto, i suoi occhi, si lasciano rapire dal nostro mare.