"Il Presidente" di Giancarmine Trotta
Inviato: martedì 20 dicembre 2016, 0:25
L'uomo studiava tutti i dettagli e puntava in alto, alla gloria.
Fausto viveva solo, nell'appartamento di famiglia. I rumori dei vicini ne accompagnavano la consueta cena del lunedì: petto di pollo, verdure in umido e sessanta grammi di pane morbido.
Certe volte avrebbe voluto essere coccolato da una donna, magari cenare con sguardi complici, vivere una storia, persino litigare al bisogno. Altre sere benediceva la vita da single e si godeva, spaparanzato sul divano, tutte le notizie del tg.
Rare uscite, pochi e pigri amici.
La vita sedentaria, il grigiore della folta capigliatura e il sorriso appena abbozzato, avevano aumentato la circonferenza e quella vaga somglianza al politico del momento. Tanto che, prima gli intimi e poi tutti i colleghi del piano, presero presto a chiamarlo “Presidente”.
Fausto, forse per compiacersi, oppure per sfidare la sua indole mansueta, caricò il resto del suo corpo delle fattezze già di per sé simili a quelle del presidente vero: la giacca grigia e la camicia bianca, i mocassini di pelle firmati, le idee socio-economiche. Viveva la sua nuova vita sempre sul divano, ma diversamente eccitato, non più dalle scene hot che ogni tanto si concedeva, ma da quelle politiche ad alti livelli a cui si sentiva legato.
L'uomo era concentrato e passeggiava nervoso, in attesa del tempo e della vittoria.
Fasto aveva saputo del comizio e ne aveva parlato con tutti come se fosse l'avvenimento dell'anno. A pranzo aveva visto il Presidente concedere un'intervista e, felice per l'occasione, corse a casa a cambiarsi per essere pronto all'appuntamento con il suo idolo. In bagno, come faceva da tempo, ripassò il neo vicino l'orecchio che suggellava il loro essere uno.
Non aveva mai visto tanta gente nella piazza e lui, dalle prime file dal palco, era certo che l'avesse notato. Al termine, le parole del Presidente esaltarono la folla.
“Lavoro, dignità, libertà!”
Scese e per la calca Fausto ebbe difficoltà a restare in piedi. Applausi, cori e spintoni facevano da sottofondo in quegli ultimi secondi insieme. Poi si sentì tirato, con forza.
L'uomo, incappucciato, lo guardava dall'alto in basso ed era pronto ad interrogarlo.
“Veda, Presidente, le sue politiche anti-proletarie e le sue amicizie inquinate con i servi del potere, quegli imprenditori che succhiano il sangue degli operai, sono il biglietto da visita che lascerà alla storia di questo Paese.”
La pausa parve infinita.
“Ma noi la fermeremo prima.”
L'uomo strappò il fazzoletto dalla bocca e fece cenno all'imputato di parlare.
“Non sono io. Non sono!”
Lui si affannò e rispose mille volte che si stavano sbagliando, che lui non era che un sosia, uno che somigliava al vero loro obiettivo.
La voce rotta dall'emozione mise i primi dubbi all'uomo, ma solo quando Fausto si ripulì del suo finto neo, tutto fu chiaro.
Fausto tornò a casa, senza sporgere denuncia. Buttò via la giacca grigia e la camicia bianca.
Sì sentì fortunato di essere stato solo il sosia della persona che avrebbe voluto essere.
Fausto viveva solo, nell'appartamento di famiglia. I rumori dei vicini ne accompagnavano la consueta cena del lunedì: petto di pollo, verdure in umido e sessanta grammi di pane morbido.
Certe volte avrebbe voluto essere coccolato da una donna, magari cenare con sguardi complici, vivere una storia, persino litigare al bisogno. Altre sere benediceva la vita da single e si godeva, spaparanzato sul divano, tutte le notizie del tg.
Rare uscite, pochi e pigri amici.
La vita sedentaria, il grigiore della folta capigliatura e il sorriso appena abbozzato, avevano aumentato la circonferenza e quella vaga somglianza al politico del momento. Tanto che, prima gli intimi e poi tutti i colleghi del piano, presero presto a chiamarlo “Presidente”.
Fausto, forse per compiacersi, oppure per sfidare la sua indole mansueta, caricò il resto del suo corpo delle fattezze già di per sé simili a quelle del presidente vero: la giacca grigia e la camicia bianca, i mocassini di pelle firmati, le idee socio-economiche. Viveva la sua nuova vita sempre sul divano, ma diversamente eccitato, non più dalle scene hot che ogni tanto si concedeva, ma da quelle politiche ad alti livelli a cui si sentiva legato.
L'uomo era concentrato e passeggiava nervoso, in attesa del tempo e della vittoria.
Fasto aveva saputo del comizio e ne aveva parlato con tutti come se fosse l'avvenimento dell'anno. A pranzo aveva visto il Presidente concedere un'intervista e, felice per l'occasione, corse a casa a cambiarsi per essere pronto all'appuntamento con il suo idolo. In bagno, come faceva da tempo, ripassò il neo vicino l'orecchio che suggellava il loro essere uno.
Non aveva mai visto tanta gente nella piazza e lui, dalle prime file dal palco, era certo che l'avesse notato. Al termine, le parole del Presidente esaltarono la folla.
“Lavoro, dignità, libertà!”
Scese e per la calca Fausto ebbe difficoltà a restare in piedi. Applausi, cori e spintoni facevano da sottofondo in quegli ultimi secondi insieme. Poi si sentì tirato, con forza.
L'uomo, incappucciato, lo guardava dall'alto in basso ed era pronto ad interrogarlo.
“Veda, Presidente, le sue politiche anti-proletarie e le sue amicizie inquinate con i servi del potere, quegli imprenditori che succhiano il sangue degli operai, sono il biglietto da visita che lascerà alla storia di questo Paese.”
La pausa parve infinita.
“Ma noi la fermeremo prima.”
L'uomo strappò il fazzoletto dalla bocca e fece cenno all'imputato di parlare.
“Non sono io. Non sono!”
Lui si affannò e rispose mille volte che si stavano sbagliando, che lui non era che un sosia, uno che somigliava al vero loro obiettivo.
La voce rotta dall'emozione mise i primi dubbi all'uomo, ma solo quando Fausto si ripulì del suo finto neo, tutto fu chiaro.
Fausto tornò a casa, senza sporgere denuncia. Buttò via la giacca grigia e la camicia bianca.
Sì sentì fortunato di essere stato solo il sosia della persona che avrebbe voluto essere.