La curandera - M.R. Del Ciello
Inviato: martedì 31 gennaio 2017, 15:47
La curandera
di M.R. Del Ciello
Quando Rose La Fontaine scese dalla carrozza, gli occhi le si riempirono di spazio. Per un attimo le sembrò di ricordare tutto, ma fu solo un istante. Alcuni granelli di sabbia, trascinati dal vento bollente, le irritarono un occhio che lacrimò. Come se le lacrime cercassero un motivo per uscire mentre lei faceva di tutto per ricacciarle indietro.
Entrò nel saloon e tutti rimasero impietriti quando la udirono ordinare: «Un whiskey, per favore».
Rose conosceva bene i sentimenti che attraversavano gli animi degli astanti.
Incredulità di fronte a una donna, non più giovane, che entrava in un saloon.
Stupore per quel volto metà carne, metà metallo.
Doveva ringraziare l’amico Pantera se era ancora viva e se aveva imparato un mestiere.
Il passato era ancora sepolto e faticava a venire a galla, ma lei sapeva di avere più di un debito morale con quell’uomo. Per questo non si era potuta tirare indietro quando l’aveva pregata di recarsi in quel villaggio.
Durante il viaggio Rose La Fontaine aveva avuto strane visioni mentre il treno attraversava praterie e deserto. Ragni e serpenti avevano popolato i suoi brevi sogni e lei si era chiesta perché. Giunta a destinazione, la pelle sotto la maschera di rame, che le copriva metà del volto, aveva cominciato a pizzicare.
«Siete forestiera?» un uomo grasso, barba incolta di giorni e sguardo bovino le si avvicinò e allungò una mano. «Lasci che mi presenti. Sono Pat Smith, proprietario di gran parte dei terreni che vede qui intorno. Cosa la porta qui da queste polverosi parti?»
Rose strinse la mano dell’uomo forse con troppo vigore e nello sguardo dell’uomo le parve di notare un moto di disappunto.
«Mi chiamo Rose La Fontaine. Son qui su invito di padre…»
Non terminò la frase che una figura nera e allampanata fece ingresso nel saloon e, allargando le braccia, si rivolse alla donna:
«Che piacere vedervi, Rose. Sono padre Whitestone. Venga, dia pure a me la borsa» e dopo averla abbracciata si chinò per afferrare i manici del borsone di cuoio che Rose aveva poggiato accanto a sé. «Pantera mi ha parlato molto di voi.»
«Credo che le abbia taciuto alcuni particolari» rispose Rose, divertita dallo sguardo sfuggente dell’uomo sul suo volto di metallo.
«È un onore per me, Rose, avervi qui...» Il reverendo arrossì.
I due uscirono dal locale e padre Whitestone raccontò a Rose l’affanno che negli ultimi tempi colpiva il villaggio.
«Siamo tutti preda di incubi. Da oltre un anno. All’inizio abbiamo pensato a un caso, poi pian piano tutti ne sono stati contagiati. Nessuno ha più voglia di prendere sonno, in paese.»
«Siamo sicuri che non sia solo una specie di fantasia collettiva?»
«Se Pantera l’ha fatta venire significa che c'è un motivo valido.»
«Cosa sono quelle rovine?» Rose indicò alcuni resti di antiche costruzioni circolari, proprio ai margini del villaggio.
«Quelli sono i resti dell’antico Pueblo Bonito. Più tardi, se vuole, le faccio fare una visita. Ma ora venga con me che le mostro la sua stanza presso la vecchia infermeria. So che lei è un’apprezzata levatrice.»
«Bah, i bambini possono nascere benissimo da soli. Io sto solo lì a guardia delle madri.»
Nel pomeriggio il reverendo mostrò i resti del villaggio degli antichi Anasazi e Rose ne rimase affascinata.
«Interessante… e gli scavi?»
«Sono interrotti da un anno, da quando i soldi sono stati usati per costruire la ferrovia. Poi sono cominciati gli incubi. E molti parrocchiani sono morti, altri hanno perso la fede. Rose, sono molto preoccupato e mi piacerebbe che lei riuscisse a porre fine al più presto a questo dramma.»
«Non si preoccupi, per ora sto solo curiosando un po’ e la mia pelle sotto la maschera ha iniziato a procurarmi un lieve fastidio… » Rose si chinò per raccogliere qualcosa.
«Quindi?»
«Significa che in questo luogo c’è energia negativa, padre. Mi racconti per bene.»
«Come le dicevo da circa un anno i miei parrocchiani hanno cominciato ad avere i incubi. Hanno cominciato le persone più anziane e abbiamo pensato fosse per via della ferrovia.»
«Cosa c’entra la ferrovia?»
«Per la costruzione della ferrovia che passa per Santa Fe e Albuquerque sono stati espropriati molti terreni, in larga parte di proprietà dei più anziani. Perciò all’inizio abbiamo legato gli incubi agli espropri.»
«Invece?»
«Dopo un paio di mesi hanno cominciato ad avere incubi anche gli uomini e le donne più giovani.»
«Tutti?»
«Non proprio…»
«Cioè?»
«C’è una persona del villaggio che pare ne sia rimasta immune.»
«Chi?»
«La vecchia pazza che abita oltre il fiume.»
«Vecchia pazza?»
«I più anziani la chiamano curandera, ma secondo me è solo una vecchia pazza. Dice di essere discendente degli antichi Anasazi.»
La mattina seguente Rose si recò oltre il fiume, dove era la baracca della vecchia. Poche galline scorrazzavano intorno, un paio di gatti giocavano a nascondino nella polvere.
Da lontano la figura di un uomo, lo stesso grassone che l’aveva accolta all’arrivo nel villaggio, uscì sbraitando dalla capanna. I loro sguardi si incrociarono: «È una strega!» urlò l’uomo superando Rose di corsa. «È colpa sua se non riusciamo ad avere sonni tranquilli.»
Rose si avvicinò all’uscio e una voce indurita dal catarro e dall’età la invitò ad entrare.
La vecchia, rannicchiata in un angolo, sollevò lo sguardo dalla ciotola che teneva tra le mani e fece cenno a Rose di sedersi.
«Siediti, donna di metallo.»
«Mi chiamo Rose e voi…»
«Io sono la polvere di ciò che era un tempo. Ma presto tutto diverrà polvere…»
«Cosa dite? Perché polvere?»
«Perché ci sono ossa che devono avere ancora giustizia. E perché l’uomo ha cacciato l’altro uomo e ora gli spiriti vagano alla ricerca della terra che hanno perso. E’ tempo che la fine si compia.»
La vecchia bevve un sorso della sua scura bevanda. Ne offrì anche a Rose, poi si sdraiò su un pagliericcio sporco di fango.
Rose intuì che quella bevanda fosse veicolo di qualche viaggio mistico. Ne aveva sentite di storie di erbe che mettono in contatto con gli spiriti e con il mondo ultraterreno.
«Bevi l’ayahuarasca» la invitò la vecchia. «Ti porterà in contatto con gli spiriti del luogo.»
Rose accettò e sorseggiò quell’intruglio amaro.
Cadde in un sonno profondo, almeno così le parve.
Fu allora che tutto si fece vivido. Vide tre figure altere, con abiti sontuosi muoversi in circolo e danzare. «Tu non sei kachina!» le disse uno di questi tre. Rose toccò il metallo sul suo volto e ricordò.
Ricordò quando quell’uomo l’aveva aggredita. Ubriaco, aveva cominciato a toccarla, a palparla, a dire parole oscene e Rose lo aveva allontanato da se. Finché era divenuto una vera e propria minaccia. L’aveva colpita con un pugno sul viso, afferrata per i capelli e trascinata. Era buio e l’uomo aveva continuato a trascinarla nel buio e nel fango. Poi s’era fermato. Aveva provato di nuovo ad abusare di lei e allora Rose aveva cominciato a scalciare, ma lui era stato più veloce. Le aveva legato i polsi con una corda, l’aveva premuta a terra e aveva fatto i suoi comodi. Fu subito dopo che Rose aveva sentito qualcosa di bollente colpirle il volto. Forse vapore, forse una fiamma. Riusciva ancora a percepire l’odore di carne bruciata. La sua carne.
No, lei non era kachina, avevano ragione gli spiriti. Non era un essere soprannaturale. Il soprannaturale era lì, davanti a lei e l’uomo bianco, che aveva portato caos tra quelle popolazioni, ora stava scontando la pena. Comprese ciò che stava accadendo.
Gli antichi Anasazi, costretti all’esilio, tornavano come spiriti per condannare il serpente di ferro, la ferrovia, e gli incubi erano la giusta pena.
La sera stessa Rose tornò dalla curandera per mettere in pratica gli insegnamenti dell’amico Pantera. Portò la prenda, vi sbriciolò piccole ossa che aveva raccolto nella kiva, insieme a manufatti e altri oggetti, e vi mise dentro alcune rocce di quel terreno e piante mediche che aveva portato con sé. Chiese alla vecchia di unire le erbe che usava per l’ayahuarasca, poi bollì il tutto.
Intonò degli icaros e chiese alla curandera di bere il miscuglio.
«Sei donna di pace, lo sento» disse la vecchia e bevve, in segno di condivisione.
Alcuni minuti dopo iniziò a parlare una lingua incomprensibile, poi sempre più chiara:
«Siamo tornati dopo la morte per incontrare Kwanitaqa. Quando lui avrà guardato nel cuore degli uomini allora raggiungeremo il popolo delle nubi, da cui dipende l'abbondanza del raccolto ed il benessere della tribù.»
Anche Rose bevve e rivide serpenti già sognati che pian piano presero la consistenza di metallo lucente sotto il sole accecante del deserto.
Ai serpenti si unirono ragni, piccoli, numerosi, poi sempre più grandi che ingabbiavano cose e persone in una stretta mortale. Tutto si colorò di nero, il cielo e la terra divennero una cosa sola. E serpenti e ragnatele di metallo occuparono lo spazio.
Rose rassicurò gli spiriti che il cuore degli uomini di quel villaggio era puro e che ad altri uomini dovevano chiedere conto.
Quando la vecchia si riprese, iniziò a piovere.
L’indomani la pioggia caduta durante la notte aveva ripulito l’aria polverosa e secca. Ora tutto sembrava più nitido. All’orizzonte si riusciva a vedere persino il contorno del Monte Elbert.
Rose, in piedi davanti al saloon, teneva con una mano il borsone di cuoio consumato, con l’altra sistemava i capelli dietro la nuca. La pelle sotto la maschera aveva smesso di bruciare.
Un gruppetto si era radunato per salutarla, prima che arrivasse la carrozza per tornare a casa.
Uomini e donne la guardavano questa volta con interesse e curiosità.
Il reverendo, in segno di festa, si accese un sigaro.
«Ben fatto, Rose. Io e i miei parrocchiani, per la prima volta dopo mesi, abbiamo avuto un sonno tranquillo.»
In molti a quelle parole annuirono.
Poco lontano, seduta su un masso, la curandera sorrideva, fumando una lunga pipa.
Rose accarezzò la sua maschera, scrutando la fine della strada in attesa della carrozza.
Una voce le risuonò nella testa e nel cuore.
Ben fatto, mia cara…
Era la voce di Pantera. Il suo maestro. Il suo angelo.
di M.R. Del Ciello
Quando Rose La Fontaine scese dalla carrozza, gli occhi le si riempirono di spazio. Per un attimo le sembrò di ricordare tutto, ma fu solo un istante. Alcuni granelli di sabbia, trascinati dal vento bollente, le irritarono un occhio che lacrimò. Come se le lacrime cercassero un motivo per uscire mentre lei faceva di tutto per ricacciarle indietro.
Entrò nel saloon e tutti rimasero impietriti quando la udirono ordinare: «Un whiskey, per favore».
Rose conosceva bene i sentimenti che attraversavano gli animi degli astanti.
Incredulità di fronte a una donna, non più giovane, che entrava in un saloon.
Stupore per quel volto metà carne, metà metallo.
Doveva ringraziare l’amico Pantera se era ancora viva e se aveva imparato un mestiere.
Il passato era ancora sepolto e faticava a venire a galla, ma lei sapeva di avere più di un debito morale con quell’uomo. Per questo non si era potuta tirare indietro quando l’aveva pregata di recarsi in quel villaggio.
Durante il viaggio Rose La Fontaine aveva avuto strane visioni mentre il treno attraversava praterie e deserto. Ragni e serpenti avevano popolato i suoi brevi sogni e lei si era chiesta perché. Giunta a destinazione, la pelle sotto la maschera di rame, che le copriva metà del volto, aveva cominciato a pizzicare.
«Siete forestiera?» un uomo grasso, barba incolta di giorni e sguardo bovino le si avvicinò e allungò una mano. «Lasci che mi presenti. Sono Pat Smith, proprietario di gran parte dei terreni che vede qui intorno. Cosa la porta qui da queste polverosi parti?»
Rose strinse la mano dell’uomo forse con troppo vigore e nello sguardo dell’uomo le parve di notare un moto di disappunto.
«Mi chiamo Rose La Fontaine. Son qui su invito di padre…»
Non terminò la frase che una figura nera e allampanata fece ingresso nel saloon e, allargando le braccia, si rivolse alla donna:
«Che piacere vedervi, Rose. Sono padre Whitestone. Venga, dia pure a me la borsa» e dopo averla abbracciata si chinò per afferrare i manici del borsone di cuoio che Rose aveva poggiato accanto a sé. «Pantera mi ha parlato molto di voi.»
«Credo che le abbia taciuto alcuni particolari» rispose Rose, divertita dallo sguardo sfuggente dell’uomo sul suo volto di metallo.
«È un onore per me, Rose, avervi qui...» Il reverendo arrossì.
I due uscirono dal locale e padre Whitestone raccontò a Rose l’affanno che negli ultimi tempi colpiva il villaggio.
«Siamo tutti preda di incubi. Da oltre un anno. All’inizio abbiamo pensato a un caso, poi pian piano tutti ne sono stati contagiati. Nessuno ha più voglia di prendere sonno, in paese.»
«Siamo sicuri che non sia solo una specie di fantasia collettiva?»
«Se Pantera l’ha fatta venire significa che c'è un motivo valido.»
«Cosa sono quelle rovine?» Rose indicò alcuni resti di antiche costruzioni circolari, proprio ai margini del villaggio.
«Quelli sono i resti dell’antico Pueblo Bonito. Più tardi, se vuole, le faccio fare una visita. Ma ora venga con me che le mostro la sua stanza presso la vecchia infermeria. So che lei è un’apprezzata levatrice.»
«Bah, i bambini possono nascere benissimo da soli. Io sto solo lì a guardia delle madri.»
Nel pomeriggio il reverendo mostrò i resti del villaggio degli antichi Anasazi e Rose ne rimase affascinata.
«Interessante… e gli scavi?»
«Sono interrotti da un anno, da quando i soldi sono stati usati per costruire la ferrovia. Poi sono cominciati gli incubi. E molti parrocchiani sono morti, altri hanno perso la fede. Rose, sono molto preoccupato e mi piacerebbe che lei riuscisse a porre fine al più presto a questo dramma.»
«Non si preoccupi, per ora sto solo curiosando un po’ e la mia pelle sotto la maschera ha iniziato a procurarmi un lieve fastidio… » Rose si chinò per raccogliere qualcosa.
«Quindi?»
«Significa che in questo luogo c’è energia negativa, padre. Mi racconti per bene.»
«Come le dicevo da circa un anno i miei parrocchiani hanno cominciato ad avere i incubi. Hanno cominciato le persone più anziane e abbiamo pensato fosse per via della ferrovia.»
«Cosa c’entra la ferrovia?»
«Per la costruzione della ferrovia che passa per Santa Fe e Albuquerque sono stati espropriati molti terreni, in larga parte di proprietà dei più anziani. Perciò all’inizio abbiamo legato gli incubi agli espropri.»
«Invece?»
«Dopo un paio di mesi hanno cominciato ad avere incubi anche gli uomini e le donne più giovani.»
«Tutti?»
«Non proprio…»
«Cioè?»
«C’è una persona del villaggio che pare ne sia rimasta immune.»
«Chi?»
«La vecchia pazza che abita oltre il fiume.»
«Vecchia pazza?»
«I più anziani la chiamano curandera, ma secondo me è solo una vecchia pazza. Dice di essere discendente degli antichi Anasazi.»
La mattina seguente Rose si recò oltre il fiume, dove era la baracca della vecchia. Poche galline scorrazzavano intorno, un paio di gatti giocavano a nascondino nella polvere.
Da lontano la figura di un uomo, lo stesso grassone che l’aveva accolta all’arrivo nel villaggio, uscì sbraitando dalla capanna. I loro sguardi si incrociarono: «È una strega!» urlò l’uomo superando Rose di corsa. «È colpa sua se non riusciamo ad avere sonni tranquilli.»
Rose si avvicinò all’uscio e una voce indurita dal catarro e dall’età la invitò ad entrare.
La vecchia, rannicchiata in un angolo, sollevò lo sguardo dalla ciotola che teneva tra le mani e fece cenno a Rose di sedersi.
«Siediti, donna di metallo.»
«Mi chiamo Rose e voi…»
«Io sono la polvere di ciò che era un tempo. Ma presto tutto diverrà polvere…»
«Cosa dite? Perché polvere?»
«Perché ci sono ossa che devono avere ancora giustizia. E perché l’uomo ha cacciato l’altro uomo e ora gli spiriti vagano alla ricerca della terra che hanno perso. E’ tempo che la fine si compia.»
La vecchia bevve un sorso della sua scura bevanda. Ne offrì anche a Rose, poi si sdraiò su un pagliericcio sporco di fango.
Rose intuì che quella bevanda fosse veicolo di qualche viaggio mistico. Ne aveva sentite di storie di erbe che mettono in contatto con gli spiriti e con il mondo ultraterreno.
«Bevi l’ayahuarasca» la invitò la vecchia. «Ti porterà in contatto con gli spiriti del luogo.»
Rose accettò e sorseggiò quell’intruglio amaro.
Cadde in un sonno profondo, almeno così le parve.
Fu allora che tutto si fece vivido. Vide tre figure altere, con abiti sontuosi muoversi in circolo e danzare. «Tu non sei kachina!» le disse uno di questi tre. Rose toccò il metallo sul suo volto e ricordò.
Ricordò quando quell’uomo l’aveva aggredita. Ubriaco, aveva cominciato a toccarla, a palparla, a dire parole oscene e Rose lo aveva allontanato da se. Finché era divenuto una vera e propria minaccia. L’aveva colpita con un pugno sul viso, afferrata per i capelli e trascinata. Era buio e l’uomo aveva continuato a trascinarla nel buio e nel fango. Poi s’era fermato. Aveva provato di nuovo ad abusare di lei e allora Rose aveva cominciato a scalciare, ma lui era stato più veloce. Le aveva legato i polsi con una corda, l’aveva premuta a terra e aveva fatto i suoi comodi. Fu subito dopo che Rose aveva sentito qualcosa di bollente colpirle il volto. Forse vapore, forse una fiamma. Riusciva ancora a percepire l’odore di carne bruciata. La sua carne.
No, lei non era kachina, avevano ragione gli spiriti. Non era un essere soprannaturale. Il soprannaturale era lì, davanti a lei e l’uomo bianco, che aveva portato caos tra quelle popolazioni, ora stava scontando la pena. Comprese ciò che stava accadendo.
Gli antichi Anasazi, costretti all’esilio, tornavano come spiriti per condannare il serpente di ferro, la ferrovia, e gli incubi erano la giusta pena.
La sera stessa Rose tornò dalla curandera per mettere in pratica gli insegnamenti dell’amico Pantera. Portò la prenda, vi sbriciolò piccole ossa che aveva raccolto nella kiva, insieme a manufatti e altri oggetti, e vi mise dentro alcune rocce di quel terreno e piante mediche che aveva portato con sé. Chiese alla vecchia di unire le erbe che usava per l’ayahuarasca, poi bollì il tutto.
Intonò degli icaros e chiese alla curandera di bere il miscuglio.
«Sei donna di pace, lo sento» disse la vecchia e bevve, in segno di condivisione.
Alcuni minuti dopo iniziò a parlare una lingua incomprensibile, poi sempre più chiara:
«Siamo tornati dopo la morte per incontrare Kwanitaqa. Quando lui avrà guardato nel cuore degli uomini allora raggiungeremo il popolo delle nubi, da cui dipende l'abbondanza del raccolto ed il benessere della tribù.»
Anche Rose bevve e rivide serpenti già sognati che pian piano presero la consistenza di metallo lucente sotto il sole accecante del deserto.
Ai serpenti si unirono ragni, piccoli, numerosi, poi sempre più grandi che ingabbiavano cose e persone in una stretta mortale. Tutto si colorò di nero, il cielo e la terra divennero una cosa sola. E serpenti e ragnatele di metallo occuparono lo spazio.
Rose rassicurò gli spiriti che il cuore degli uomini di quel villaggio era puro e che ad altri uomini dovevano chiedere conto.
Quando la vecchia si riprese, iniziò a piovere.
L’indomani la pioggia caduta durante la notte aveva ripulito l’aria polverosa e secca. Ora tutto sembrava più nitido. All’orizzonte si riusciva a vedere persino il contorno del Monte Elbert.
Rose, in piedi davanti al saloon, teneva con una mano il borsone di cuoio consumato, con l’altra sistemava i capelli dietro la nuca. La pelle sotto la maschera aveva smesso di bruciare.
Un gruppetto si era radunato per salutarla, prima che arrivasse la carrozza per tornare a casa.
Uomini e donne la guardavano questa volta con interesse e curiosità.
Il reverendo, in segno di festa, si accese un sigaro.
«Ben fatto, Rose. Io e i miei parrocchiani, per la prima volta dopo mesi, abbiamo avuto un sonno tranquillo.»
In molti a quelle parole annuirono.
Poco lontano, seduta su un masso, la curandera sorrideva, fumando una lunga pipa.
Rose accarezzò la sua maschera, scrutando la fine della strada in attesa della carrozza.
Una voce le risuonò nella testa e nel cuore.
Ben fatto, mia cara…
Era la voce di Pantera. Il suo maestro. Il suo angelo.