Una spada di nome Giulietta
Inviato: mercoledì 27 novembre 2024, 16:55
Martin mandò giù un altro sorso di rum. Se ricevessi un doblone per ogni conato di vomito avuto in questa locanda, sarei così ricco da potermi permettere un vascello tutto mio. Sarei il corsaro più ricco dei sette mari!
L’odore di muffa, sudore e alcol era nauseante. Il brusio degli altri avventori gli perforava le orecchie, ma… fanculo, io sono qui solo per ubriacarmi!
Appoggiò il suo boccale di rum sul tavolo ingiallito e macchiato di cibo. Scostò la spada che teneva legata alla cintura e si sedette a cavalcioni sulla panca. Le schegge di legno marcio gli grattarono le cosce attraverso i pantaloni di cotone. Con la suola dello scarpone toccò una poltiglia densa: sulle assi del pavimento c’era del vomito fresco.
Martin accarezzò l’elsa della spada. Vecchia mia, guarda in che schifo di buco siamo finiti…
Bevve un altro sorso di rum e l’odore di fumo lo prese alla gola. Agitò la mano per scacciare il nuvolone che l’aveva investito. Al tavolo di fronte fumavano come degli ossessi. Se mettessero un divieto di fumare, questa catapecchia diverrebbe un cazzo di deserto.
Il corsaro tirò su col naso, strinse il manico del boccale e buttò giù il poco rum rimasto. Il sapore amaro del liquore gli pizzicò la gola. Un vero schifo, ma ne voglio ancora!
Afferrò il manico del boccale vuoto e lo sbatté sul tavolo. Il figlioletto dell’oste corse a prenderlo. Lo sollevò e si fermò con lo sguardo incantato verso il basso.
Martin sorrise a labbra chiuse e toccò l’elsa della spada, facendo vibrare il fodero: “Guardi questa, ragazzo?”
Il ragazzo alzò la testa di scatto e i boccoli biondi si mossero: “S-sì signore”, la mano gli tremava e il boccale vacillò: “è p-proprio b-bella, s-signore”
Martin si schiarì la voce. La curiosità del ragazzo era soddisfacente: era raro trovare qualcuno con cui parlare, qualcuno che si interessasse davvero a quello che gli si diceva. Slacciò il fodero dal cinturone e con un tintinnio poggiò l’arma sul tavolo: “Questa è la mia Giulietta, ho solcato i sette mari con lei”
Il ragazzo sgranò gli occhi: “G-gli avete d-dato un n-nome?”
“Ma certo figliolo, è bene dare un nome alla propria spada, perché è l’unica su cui tu possa contare quando stai in mare aperto, l’unica che non ti tradirà, l’unica che non ti pugnalerà alle spalle. La vita di mare, figliolo, è una vita di solitudine”. Il ragazzo rilassò i muscoli della bocca, sembrava deluso. Forse si aspettava una risposta più eroica, più vicina alle leggende che circolano sui pirati.
Il corsaro si passò una mano sulla fronte sudata. Mi dispiace aver distrutto la sua fascinazione verso la vita piratesca con una doccia fredda di realismo, ma qualcuno doveva pur farlo.
Martin si grattò la barba. Il tavolo di fronte si era riempito di boccali di birra scura, fumare non basta più a quanto pare. Le panche gremite di ominacci unti e ubriachi sembravano sul punto di crollare sotto tutto quel peso. Erano in sette su una panca da tre. Cosa non si fa per risparmiare. Lanciavano occhiate sbilenche al suo tavolo: Cosa vorranno da me?
Il figlio dell’oste restò fermo, Martin schioccò le dita per scuoterlo: “Hey ragazzo, mi sei simpatico ma finora troppe parole e troppo poco rum!”
Il ragazzo ingoiò la saliva: “S-sì signore, m- mi scusi signore. C-corro signore!”, e corse dietro il bancone col boccale vuoto. Così mi piacciono le locande: poche parole e molto rum.
Martin rimise la spada al suo posto e la riallacciò al cinturone. Un sibilo irruppe nella stanza. Un piatto volò e si infranse contro la parete di intonaco bianco scrostato, dove rimase una patacca di poltiglia gialla.
Il corsaro sospirò, non era strano che in una locanda come quella venissero tirati i piatti, la gente era imprevedibile quando alzava il gomito.
Le assi del pavimento scricchiolarono, tre degli uomini del tavolo davanti si stavano avvicinando. Gli occhi minacciosi si stagliavano sopra le barbe incolte. Oddio, cosa vorranno questi! Prima il fumo, poi le occhiate alla mia Giulietta…
Uno di loro si grattò l’occhio bendato. Il figlio dell’oste tornò con il boccale pieno fino all’orlo, così mi piaci figliolo! Lo poggiò sul tavolo e se ne andò di corsa.
Martin spostò il boccale davanti a sé senza sollevarlo. I tre gli si piazzarono davanti. Occhio bendato si sedette sul tavolo e diede un sorso al boccale. Che stronzo.
Gli altri due si sedettero sulla panca, uno a destra, l’altro a sinistra. Gli occhi incollati alla spada. Sì, ho una cazzo di spada, sono un corsaro, che cazzo di problemi avete?
Quello a destra diede un colpetto sull’elsa, Martin gli spostò la mano: “hai qualche problema amico?”
L’uomo si schiarì la voce: “Non ti abbiamo mai visto amico”, mise enfasi sull’ultima parola, come a fare intendere che avrebbero potuto essere tutto tranne che amici.
Occhio bendato sbatté le mani sul tavolo, il boccale traballò: “Però ci piace la tua spada”
Martin socchiuse gli occhi, prese il boccale come se niente fosse, lo portò alla bocca e si bagnò le labbra col liquido freddo: “Sì, vi capisco, piace anche a me”.
Il corsaro si passò una mano nei capelli umidi. Il colletto della camicia gli premette sul collo e si sentì sollevare. Alzò lo sguardo: Occhio bendato lo aveva afferrato per il bavero e stava tirando a sè. Martin spinse le mani contro il tavolo per resistere, il colletto gli premette sull’osso del collo. E io che volevo solo ubriacarmi in santa pace…
Martin afferrò il polso e strinse fino a quando l’avversario non mollò la presa. Lo spinse e quello cadde dal tavolo. Assestò una gomitata alle costole dell’uomo a destra, che si accasciò sulla panca. Il corsaro provò a prendere fiato, ma un colpo lo prese alla tempia e lo fece cadere di lato. Si resse con le mani sul tavolo e inspirò. Quel bastardo a sinistra gli aveva dato un bel cazzotto!
Si leccò le labbra appiccicose e un sapore metallico gli si attaccò alla lingua. Merda, sto sanguinando. Un calcio sul fianco gli spezzò il respiro. Il corsaro scivolò a terra e le ginocchia sbatterono sulle schegge taglienti del pavimento. Le costole erano come in frantumi.
Martin provò a riprendere fiato, ma il suo aggressore alzò la gamba e con la suola dello scarpone coprì il suo campo visivo. Il corsaro picchiò la schiena sul pavimento, la botta lo sconvolse, come se il cervello avesse rimbalzato da una parte all’altra del cranio. Si tastò il fianco: la spada era sempre lì. Non devono prenderla.
Il corsaro si voltò a pancia in giù e strisciò avanti con i gomiti, le assi sconnesse del pavimento gli raschiarono l’addome. I tre lo accerchiarono, squadrandolo dall’alto. Un calcio arrivò sulla costola, poi uno sul fianco e uno sulla testa. Il dolore ricoprì ogni parte del corpo.
Martin si raggomitolò con un braccio a protezione della testa, portò l’altra mano all’elsa e la strinse. Si girò e sguainò la spada. Un urlo graffiato squarciò l’aria e un fiotto di sangue schizzò sul pavimento legnoso. Martin si alzò brandendo Giulietta. Occhio bendato giaceva a terra tenendosi la gamba ferita. Il sangue zampillava e macchiava di rosso il tessuto verde dei pantaloni.
Il corsaro agitò Giulietta a vuoto: “Che c’è? Ne volete ancora?”, i due nemici ancora in piedi arretrarono con le mani avanti.
Martin rimise l’arma nel fodero, la locanda sembrava un dipinto: tutti erano immobili, terrorizzati. L’oste percorse a grandi passi la sala e indicò la porta: “Fuori di qui!”
Il figlioletto lo rincorse a piccoli passettini: “Ma padre, lui si è solo difeso, quelli l’hanno aggredito, io ho visto tutto”
“Ho detto fuori” l’oste corrugò la fronte: “Non voglio spargimenti di sangue nella mia locanda!”
Il figlio guardò Martin, poi di nuovo il padre: “Ma…”
Il corsaro alzò il braccio e sorrise: “Lascia stare figliolo, te l’ho detto” accarezzò l’elsa di Giulietta e la lama oscillò in risposta: “è una vita fatta di solitudine”.
Martin si voltò. Il silenzio era sceso sulla locanda, non sembra neanche più lo stesso posto. Andò verso la porta, prese la maniglia arrugginita e tirò a sé. Con un cigolio la porta si aprì. L’odore del salmastro lo accolse.
L’odore di muffa, sudore e alcol era nauseante. Il brusio degli altri avventori gli perforava le orecchie, ma… fanculo, io sono qui solo per ubriacarmi!
Appoggiò il suo boccale di rum sul tavolo ingiallito e macchiato di cibo. Scostò la spada che teneva legata alla cintura e si sedette a cavalcioni sulla panca. Le schegge di legno marcio gli grattarono le cosce attraverso i pantaloni di cotone. Con la suola dello scarpone toccò una poltiglia densa: sulle assi del pavimento c’era del vomito fresco.
Martin accarezzò l’elsa della spada. Vecchia mia, guarda in che schifo di buco siamo finiti…
Bevve un altro sorso di rum e l’odore di fumo lo prese alla gola. Agitò la mano per scacciare il nuvolone che l’aveva investito. Al tavolo di fronte fumavano come degli ossessi. Se mettessero un divieto di fumare, questa catapecchia diverrebbe un cazzo di deserto.
Il corsaro tirò su col naso, strinse il manico del boccale e buttò giù il poco rum rimasto. Il sapore amaro del liquore gli pizzicò la gola. Un vero schifo, ma ne voglio ancora!
Afferrò il manico del boccale vuoto e lo sbatté sul tavolo. Il figlioletto dell’oste corse a prenderlo. Lo sollevò e si fermò con lo sguardo incantato verso il basso.
Martin sorrise a labbra chiuse e toccò l’elsa della spada, facendo vibrare il fodero: “Guardi questa, ragazzo?”
Il ragazzo alzò la testa di scatto e i boccoli biondi si mossero: “S-sì signore”, la mano gli tremava e il boccale vacillò: “è p-proprio b-bella, s-signore”
Martin si schiarì la voce. La curiosità del ragazzo era soddisfacente: era raro trovare qualcuno con cui parlare, qualcuno che si interessasse davvero a quello che gli si diceva. Slacciò il fodero dal cinturone e con un tintinnio poggiò l’arma sul tavolo: “Questa è la mia Giulietta, ho solcato i sette mari con lei”
Il ragazzo sgranò gli occhi: “G-gli avete d-dato un n-nome?”
“Ma certo figliolo, è bene dare un nome alla propria spada, perché è l’unica su cui tu possa contare quando stai in mare aperto, l’unica che non ti tradirà, l’unica che non ti pugnalerà alle spalle. La vita di mare, figliolo, è una vita di solitudine”. Il ragazzo rilassò i muscoli della bocca, sembrava deluso. Forse si aspettava una risposta più eroica, più vicina alle leggende che circolano sui pirati.
Il corsaro si passò una mano sulla fronte sudata. Mi dispiace aver distrutto la sua fascinazione verso la vita piratesca con una doccia fredda di realismo, ma qualcuno doveva pur farlo.
Martin si grattò la barba. Il tavolo di fronte si era riempito di boccali di birra scura, fumare non basta più a quanto pare. Le panche gremite di ominacci unti e ubriachi sembravano sul punto di crollare sotto tutto quel peso. Erano in sette su una panca da tre. Cosa non si fa per risparmiare. Lanciavano occhiate sbilenche al suo tavolo: Cosa vorranno da me?
Il figlio dell’oste restò fermo, Martin schioccò le dita per scuoterlo: “Hey ragazzo, mi sei simpatico ma finora troppe parole e troppo poco rum!”
Il ragazzo ingoiò la saliva: “S-sì signore, m- mi scusi signore. C-corro signore!”, e corse dietro il bancone col boccale vuoto. Così mi piacciono le locande: poche parole e molto rum.
Martin rimise la spada al suo posto e la riallacciò al cinturone. Un sibilo irruppe nella stanza. Un piatto volò e si infranse contro la parete di intonaco bianco scrostato, dove rimase una patacca di poltiglia gialla.
Il corsaro sospirò, non era strano che in una locanda come quella venissero tirati i piatti, la gente era imprevedibile quando alzava il gomito.
Le assi del pavimento scricchiolarono, tre degli uomini del tavolo davanti si stavano avvicinando. Gli occhi minacciosi si stagliavano sopra le barbe incolte. Oddio, cosa vorranno questi! Prima il fumo, poi le occhiate alla mia Giulietta…
Uno di loro si grattò l’occhio bendato. Il figlio dell’oste tornò con il boccale pieno fino all’orlo, così mi piaci figliolo! Lo poggiò sul tavolo e se ne andò di corsa.
Martin spostò il boccale davanti a sé senza sollevarlo. I tre gli si piazzarono davanti. Occhio bendato si sedette sul tavolo e diede un sorso al boccale. Che stronzo.
Gli altri due si sedettero sulla panca, uno a destra, l’altro a sinistra. Gli occhi incollati alla spada. Sì, ho una cazzo di spada, sono un corsaro, che cazzo di problemi avete?
Quello a destra diede un colpetto sull’elsa, Martin gli spostò la mano: “hai qualche problema amico?”
L’uomo si schiarì la voce: “Non ti abbiamo mai visto amico”, mise enfasi sull’ultima parola, come a fare intendere che avrebbero potuto essere tutto tranne che amici.
Occhio bendato sbatté le mani sul tavolo, il boccale traballò: “Però ci piace la tua spada”
Martin socchiuse gli occhi, prese il boccale come se niente fosse, lo portò alla bocca e si bagnò le labbra col liquido freddo: “Sì, vi capisco, piace anche a me”.
Il corsaro si passò una mano nei capelli umidi. Il colletto della camicia gli premette sul collo e si sentì sollevare. Alzò lo sguardo: Occhio bendato lo aveva afferrato per il bavero e stava tirando a sè. Martin spinse le mani contro il tavolo per resistere, il colletto gli premette sull’osso del collo. E io che volevo solo ubriacarmi in santa pace…
Martin afferrò il polso e strinse fino a quando l’avversario non mollò la presa. Lo spinse e quello cadde dal tavolo. Assestò una gomitata alle costole dell’uomo a destra, che si accasciò sulla panca. Il corsaro provò a prendere fiato, ma un colpo lo prese alla tempia e lo fece cadere di lato. Si resse con le mani sul tavolo e inspirò. Quel bastardo a sinistra gli aveva dato un bel cazzotto!
Si leccò le labbra appiccicose e un sapore metallico gli si attaccò alla lingua. Merda, sto sanguinando. Un calcio sul fianco gli spezzò il respiro. Il corsaro scivolò a terra e le ginocchia sbatterono sulle schegge taglienti del pavimento. Le costole erano come in frantumi.
Martin provò a riprendere fiato, ma il suo aggressore alzò la gamba e con la suola dello scarpone coprì il suo campo visivo. Il corsaro picchiò la schiena sul pavimento, la botta lo sconvolse, come se il cervello avesse rimbalzato da una parte all’altra del cranio. Si tastò il fianco: la spada era sempre lì. Non devono prenderla.
Il corsaro si voltò a pancia in giù e strisciò avanti con i gomiti, le assi sconnesse del pavimento gli raschiarono l’addome. I tre lo accerchiarono, squadrandolo dall’alto. Un calcio arrivò sulla costola, poi uno sul fianco e uno sulla testa. Il dolore ricoprì ogni parte del corpo.
Martin si raggomitolò con un braccio a protezione della testa, portò l’altra mano all’elsa e la strinse. Si girò e sguainò la spada. Un urlo graffiato squarciò l’aria e un fiotto di sangue schizzò sul pavimento legnoso. Martin si alzò brandendo Giulietta. Occhio bendato giaceva a terra tenendosi la gamba ferita. Il sangue zampillava e macchiava di rosso il tessuto verde dei pantaloni.
Il corsaro agitò Giulietta a vuoto: “Che c’è? Ne volete ancora?”, i due nemici ancora in piedi arretrarono con le mani avanti.
Martin rimise l’arma nel fodero, la locanda sembrava un dipinto: tutti erano immobili, terrorizzati. L’oste percorse a grandi passi la sala e indicò la porta: “Fuori di qui!”
Il figlioletto lo rincorse a piccoli passettini: “Ma padre, lui si è solo difeso, quelli l’hanno aggredito, io ho visto tutto”
“Ho detto fuori” l’oste corrugò la fronte: “Non voglio spargimenti di sangue nella mia locanda!”
Il figlio guardò Martin, poi di nuovo il padre: “Ma…”
Il corsaro alzò il braccio e sorrise: “Lascia stare figliolo, te l’ho detto” accarezzò l’elsa di Giulietta e la lama oscillò in risposta: “è una vita fatta di solitudine”.
Martin si voltò. Il silenzio era sceso sulla locanda, non sembra neanche più lo stesso posto. Andò verso la porta, prese la maniglia arrugginita e tirò a sé. Con un cigolio la porta si aprì. L’odore del salmastro lo accolse.