Grano nero

Il racconto vincitore della Baraldi Edition. Daniele Picciuti ci guida in un viaggio fra campi di granturco, spaventapasseri e fuochi fatui in cui non tutto è ciò che sembra.

Gabriele scrutava il buio attraverso i vetri. Il campo di granturco giaceva silenzioso come ogni notte. Là in mezzo, lo spaventapasseri vegliava sul raccolto con la solita immobilità.
Nella stanza qualcosa si mosse. Voltandosi, Gabriele vide che Leonessa si era alzata dalla sedia a dondolo e si stirava le zampe, assonnata. La gatta prese a leccarsi una zampa, con aria indifferente.
«Beata te, che te ne stai tranquilla» mormorò il ragazzo. Da quando suo nonno se n’era andato, restava solo lui a badare al campo. Non che la cosa gli dispiacesse, ma non si sentiva ancora abbastanza adulto per farsi carico di una simile responsabilità.
Guardò di nuovo attraverso la finestra e, ancora una volta, la vide.
La luce.
Tremolava, una fiammella azzurra che tornava ogni maledetta notte.
Vagolava fra le alte spighe di granturco, a volte guizzando in alto con strane piroette, altre volte spegnendosi per poi tornare a brillare più intensamente.
Gabriele emise un sospiro. Decise che stavolta sarebbe uscito, avrebbe affrontato le sue paure nonostante una vocina nella testa gli gridasse di non andare.
Afferrò la piccozza appoggiata al camino e uscì, spalancando la porta.
Fuori soffiava una brezza calda, leggera. Richiuse il battente e s’incamminò tra le ombre.
Quand’era piccolo, suo nonno gli raccontava spaventose storie sui fantasmi e sulla loro eterea essenza, che però, a suo dire, poteva lasciare residui viscosi di ectoplasma.
Ormai Gabriele era grande abbastanza per non crederci più ma, mentre si avvicinava a quella strana apparizione, non poté fare a meno di guardare il suolo in cerca di qualche sostanza fosforescente.
S’immerse nel folto del campo. La luce azzurrognola aleggiava vicino allo spaventapasseri.
Mentre si avvicinava accorto, Gabriele s’immaginò quella figura prender vita e saltargli addosso, come aveva visto in qualche film horror in seconda serata. Erano sciocchezze, naturalmente, ma la sua mente spesso gli giocava strani scherzi, come quella volta in cui si era convinto che in fondo al pozzo doveva esserci un cadavere. La puzza che saliva era di morto, ed era certo che un qualche uccellaccio fosse andato a morire proprio là in fondo. Si era immaginato la carcassa gonfia d’acqua galleggiare nel buio. L’aveva subito detto a suo nonno e lui prima si era rifiutato di ascoltarlo, poi era andato a vedere. Al suo ritorno gli aveva detto che non c’era proprio niente là in fondo e, anzi, di non andare in giro a raccontare quell’assurda storia.
Le ultime spighe si diradarono e lui emerse di fronte allo spaventapasseri. La lucina azzurra galleggiava proprio lì accanto, in mezzo a un fetore che lo costrinse a chiudersi il naso con le dita. Ne aveva sentito parlare proprio da suo nonno, dei fuochi fatui. Pareva fossero uno strano gioco chimico dovuto ai gas esalati dai corpi in putrefazione.
«Puzzi come la nonna» disse Gabriele fissando le orbite vuote del nonno, legato al palo in mezzo al campo, la testa fracassata «che diavolo, forse dovevo buttare anche te nel pozzo.»

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