Hypnos

Estratti dal racconto “Hypnos” (Delos Digital, collana Robotica.it) di Francesco Troccoli, la guest star della Terza Edizione della Quinta Era. All’interno sono disseminati indizi per il tema dell’edizione in programma per lunedì 21 novembre!

 
Camden si era piazzato all’angolo indicato dal contatto. Era in orario. Mentre aspettava, si guardava in giro come se dovessero beccarlo da un momento all’altro.
S’impose di calmarsi. Guardò per aria.
In lontananza, un gabbiano planò sull’ansa del Tamigi, sfiorò l’acqua e riprese quota con un pesce che si dimenava nel becco. Per un attimo Camden immaginò che Echo ne stesse monitorando il volo. Sarebbe stato inutile ma possibile.
La pioggia era cessata. Nubi sparse, di un bianco brillante, stazionavano nel cielo terso, i raggi del sole si diffrangevano nelle pozze d’acqua. Ma il bel tempo e l’efficienza delle misure antipolluzione non bastavano a farlo sentire meglio.
Si chiese che aspetto avesse il pusher. Si chiese che aspetto abbia in genere un pusher.
Dopo qualche minuto, un ragazzino con la pelle troppo scura per essere della City e un abito troppo pulito per essere della Barriera, si fermò sul lato opposto del vicolo, lo squadrò dalla testa ai piedi e gli venne incontro.
Aveva il portamento di un quattordicenne cresciuto con la fretta dei biomoduli. Mentre attraversava, una vettura sfrecciò a bassa quota vaporizzando una pozza d’acqua, e per poco non lo investì. Per Camden sarebbe stato un gran casino. Soprattutto perché avrebbe dovuto spiegare a qualcuno che diavolo ci faceva in quella zona senza padroni durante le sue sei ore di ferie. Magari al suo capo, in Echo. Oppure gli sarebbe toccato darsela a gambe, e… addio al viaggio.
-Sei tu il cliente?
Camden annuì dietro gli occhiali scuri che sembravano usciti da un negozio di antiquariato d’inizio millennio. Il ragazzo gli fece cenno di seguirlo. Camden si chiese dove volesse portarlo, ma non tradusse il pensiero in parole. Avrebbe parlato il meno possibile. Non avrebbe parlato affatto. Il ragazzo era tranquillo e sembrava sicuro di sé. Tanto bastava.
Procedettero a passo svelto, il ragazzo davanti e lui appresso, come un’ombra. Dopo un paio di svolte la sua guida si fermò sotto un ponteggio abbandonato. Camden si stava guardando le spalle e gli finì addosso.
-Tieni.- gli disse il ragazzo porgendogli un flaconcino bianco. -Un paio di gocce per occhio. Basteranno.
Camden guardò l’etichetta: “TempBlind”. Nessuna indicazione.
Si bloccò.
-Avanti, sei un chimico, no? Sai che è roba innocua. Facciamo il gioco del cieco a passeggio con il cane.
Camden guardò di nuovo il collirio e si sentì addosso lo sguardo triste di una Rhesus. La cosa che più lo turbava, nel periodo in cui aveva lavorato sulle cavie, erano gli occhi delle scimmie poco prima che somministrasse la sostanza sperimentale.
-Io faccio il cane.- aggiunse il ragazzo porgendogli l’estremità di una cinghia legata al polso.
Due gocce per occhio lo avrebbero reso cieco per cinque, dieci minuti al massimo. Nessuno avrebbe potuto estirpargli dal cervello l’ubicazione del posto, nemmeno se Echo avesse ordinato l’uso di un ago transencefalo. Durante il lungo tragitto urtò molti spigoli e ogni volta si maledisse per aver deciso di provare l’Hypnos.
Sei un chimico. Il contatto aveva parlato troppo.
Svoltarono varie volte. Volevano disorientarlo. Alla fine del percorso sentì un frastuono metallico e iniziarono a scendere per una scaletta. Era stretta e ripida. Alla Barriera ce n’erano a centinaia. Mobili e malsicure, come tutta la zona. Per un attimo s’immaginò immobilizzato e squartato da una lama bollente all’altezza dei reni, o del fegato. Aveva solo trent’anni ed era in salute, dopotutto. Sentiva il clangore sui gradini dei suoi passi e di quelli del suo cane. Là sotto l’inverno inglese lo punse ovunque e senza pietà.
Una serratura scattò e la temperatura aumentò. Uno sgradevole contatto di mani estranee e premurose lo accompagnò a sedersi. La poltrona era morbida.
La vista tornò, e la macchia biancastra assunse in pochi minuti le sembianze di un anziano in camice che si sfregava le mani. Del cane non c’era più traccia. La stanza era stretta e sporca, e adesso che Camden la vedeva era sporca anche la poltroncina. C’era odore di alcool misto a umidità stantia. Pensò di essere finito in uno di quegli ambulatori di un’altra epoca, quando era ancora lo stato a gestire la sanità. I secoli lontani di quando l’isola si chiamava Gran Bretagna. Economia pubblica.
Gliene aveva parlato Karul. Ne sapeva di cose, Karul.
-è la prima volta che provi l’Hypnos, figliolo?- La voce del vecchio era un sibilo stonato. L’accento era neo-australiano.
Camden annuì.
-Ti piacerà.
L’anziano lo fece alzare e lo condusse nella stanza attigua, altrettanto sudicia e appena un po’ più spaziosa.
Varcata la porta, Camden ci restò di stucco.
Su una panca di un paio di metri, addossata alla parete, c’era un materasso avvolto da un lenzuolo e una coperta a scacchi, rossi e blu. E c’era anche un cuscino, bianco, largo, gonfio. Doveva essere morbidissimo. Non come in ospedale, o nei laboratori. Nemmeno le brande da sesso più lussuose che aveva provato si avvicinavano lontanamente a quel che vedeva. La nuda semplicità del giaciglio aveva un effetto tranquillizzante. Inebriante, addirittura. Come l’antico richiamo di uno stimolo sconosciuto ma potente. Come il languore della fame, o il desiderio nei confronti di una donna bella e disponibile. A tratti l’aria gli parve intrisa di un profumo carezzevole. Avvertì una fitta alla pancia. Il cuore prese a battere forte.
Il vecchio continuava a sfregarsi le mani.
-La prima volta fa sempre uno strano effetto.- mormorò. -La risposta alla tua domanda è sì. Quello che stai contemplando è un letto. In piena regola.
Accanto alla parete c’era un ingombrante macchinario da cui si diramavano cavi terminanti in polsiere e cavigliere, e poi una batteria trans-dermica nucale. Tecnologia d’antiquariato. Il volto triste della scimmia Rhesus si affacciò di nuovo fra i ricordi e stavolta la solidarietà con la cavia si trasformò in un’esperienza tangibile fatta di pura angoscia, alimentata dal terrore della sofferenza fisica.
L’uomo prese una siringa ipodermica, di vecchio tipo, con tanto di ago lungo e sottile, e la brandì in aria con disinvoltura.
-Sta’ tranquillo. Non farà male.
Nei suoi occhi brillava una luce sinistra.
-Sei pronto per il primo sonno della tua vita, figliolo?
 

****

 
Hailé aveva sognato Londra. L’impareggiabile e sconosciuta. La capitale della cultura economica di tutte le epoche della storia umana. O perlomeno, di quella parte di storia che gli era concesso conoscere. Intorno alle anse del grande fiume che la tagliava in due aveva visto edifici immensi, pullulanti di stanze, e le stanze traboccanti di uomini in completo rosso, verde, giallo, che lavoravano, producevano. Rendevano. Uomini che potevano concedersi il lusso di dedicare diciotto ore al giorno allo sviluppo dell’economia terrestre. I più preparati, i più efficienti, erano capaci di venti ore di indefessi scambi e transazioni.
Ma poi un terremoto aveva fatto crollare il tempio della civiltà, trascinandolo nel fango e riducendo in macerie la maestosa ossatura di quell’organismo perfetto.
Il sogno lo aveva tradito.
Odiava sognare, eppure gli capitava ancora. Ormai era solo questione di tempo. Era costretto a dormire per non più di un paio d’ore ogni due giorni o tre, nei casi migliori. La consapevolezza di essere prossimo alla guarigione gli dette una sensazione inebriante e lo aiutò a scacciare le immagini del sogno, come un parassita che occasionalmente si ostinava a intaccare il meraviglioso flusso del pensiero logico, la base di quella che Hunter aveva definito la sua “straordinaria predisposizione al calcolo e alla disciplina della mente”.
Si chiese se sarebbe mai riuscito a raggiungere Londra. La sua determinazione era una prova del suo coraggio e delle sue doti. A soli diciannove anni era un candidato alla Migrazione; le sue possibilità erano buone. Glielo avevano detto i suoi Supervisori, e lui si fidava. Gente seria. Uno di loro era proprio di Londra.
Posso farcela.
Percorrendo l’unico viottolo del suo villaggio scoccò occhiate alle due metà che lo componevano. Misere casupole di compaesani che le troppe ore di sonno avevano imbarbarito nell’aspetto e nel comportamento. Un vecchio sdraiato su un’amaca in un giardino incolto, una ragazzina abbandonata su una panca a pancia all’aria, una donna gravida di inetta prole dormiente. Uno spettacolo indecente. Ad alcuni capitava persino ogni maledetto giorno.
Stava respirando un’aria di morte. La malattia pervadeva ogni angolo della sua terra sterile e sonnolenta. Provò un misto di rabbia e compassione e accelerò il passo, dandosi colpetti alle maniche della giacca, e scrollando il busto, come per togliersi di dosso i residui dell’epidemia che infestava la sua terra.
Entrò nell’Istituto che il sole era già alto.
-Buongiorno Hailé.- disse Jenna, sorridendo.
-Giorno, Jenna.
-Il Dottor Hunter ti sta aspettando.
Hailé sorrise, bussò delicatamente alla porta del laboratorio e come le altre volte si fece avanti, esitante.
-Buongiorno, giovanotto, come va oggi?
Hunter stava scrutando l’ologramma di un encefalo che roteava al centro della scrivania.
-Bene, Dottore. Grazie. Sono… sono io quello? Voglio dire, è il mio…
-Precisamente. Vieni, stenditi qui.
Il medico collegò gli elettrodi cranici, accese i monitor, prese la mascherina. Automatismi collaudati che promettevano la catarsi.
-E… qual è la situazione, dottore?
-C’è ancora da lavorarci su per qualche tempo, figliolo. Ma nel giro di un anno al massimo sarai pronto. Presto, ragazzo mio, il sonno per te sarà solo un triste ricordo.
 

****

 
Gli occhi di Camden si riaprirono annacquati dall’angoscia. Era stanco, gli abiti erano zuppi, respirava a fatica. Glielo avevano spiegato. Si sforzò di ricordare la parola. “Risveglio”.
Conosceva quel termine, ma lo aveva sempre riferito a ben altre situazioni, come le rivoluzioni politiche, le fasi del bioritmo degli animali o la riattivazione di un processo metabolico quiescente.
Era sdraiato sul divano, davanti a un terminale acceso. Si chiese come diamine facesse a trovarsi a casa propria. Qualcuno ce lo aveva portato mentre era sotto l’effetto dell’Hypnos. Era la sola spiegazione plausibile. Dunque sapevano tutto. Chi era, dove viveva. E soprattutto, per chi lavorava. Si chiese come avessero fatto ad attraversare inosservati mezza città. Il terrore di essere scoperto lo aggredì. No, non era possibile, altrimenti Echo avrebbe già mandato una squadra di pulitori. Conosceva bene le procedure di disinfezione sociale. Alcune le aveva scritte lui.
Si tirò su. Provava una sensazione opprimente alla nuca e alla schiena, le tempie gli pulsavano e a tratti la visione era disturbata da gocce di luce intensa che frammentavano il campo visivo. Sentiva la presenza di muco in gola, ma sapeva di non avere malanni. Avvertiva sgradevoli formicolii sparsi per tutto il corpo e piccoli spasmi della muscolatura mandibolare, ripetuti, continui, che lo costringevano suo malgrado ad aprire la bocca emettendo un verso strano, animalesco. Una volta cercò di opporsi, ma sentì una specie di scossa elettrica alla bocca. Si rassegnò e poi scoprì che in fondo era piacevole.
I suoi ultimi ricordi erano il cane, la stanza, il sedicente medico. Il fottuto, lurido mondo della Barriera. Poi l’iniezione, e alla fine… il buio. Ma in quel maledetto buio era successo qualcosa. In quel buio era apparsa una città, sì, ora lo ricordava distintamente. Era sterminata, bollente e circondata dal deserto. Si sentì mancare. Dovette sedersi. E poi… poi c’era stato il volto di una donna, una bella donna, che lo implorava di avere pietà. Sì… Lo stava letteralmente pregando, ma non gli riuscì di ricordare cosa diavolo volesse. Ma lui non era mai stato in quella città e purtroppo non conosceva nemmeno la donna.
Gli avevano detto anche questo. Ma non aveva capito allora e non era certo di capire nemmeno in quel momento.
Sognerai.
Fotogrammi confusi e sbiaditi continuarono ad affacciarsi alla memoria. Tentò di afferrarli, ma gli sfuggirono come acqua dalle mani. Aveva volato. Sì, la città l’aveva vista sorvolandola, come i gabbiani del Tamigi. Ma quella non era Londra. Era una città povera, sudicia, persino peggiore della Barriera, e lui non era mai uscito dai confini della Confederazione. Non ne aveva mai sentito il bisogno, e poi aveva troppa paura di ammalarsi. La droga che aveva assunto invece era innocua, almeno così gli aveva assicurato il contatto. Il Viaggio era durato solo qualche minuto. Dieci? Forse venti. Mezz’ora, al massimo. In Africa, invece, poteva durare ore. Si diceva che laggiù, a ogni angolo, si vedessero persone in preda al torpore. Si agitavano e vivevano in una condizione di delirio e allucinazione continui. Sognavano.
Era una patologia ereditaria, cronica, difficile da sradicare. Tutte le specie animali ne erano affette, ciascuna con la sua variante. Il virus diffuso con il Conflitto non aveva fatto distinzioni di sorta. Se la Confederazione e le colonie extraplanetarie erano ormai in salvo, i villaggi di gran parte dell’emisfero meridionale erano ridotti a ospedali da campo. I malati erano troppi; solo i migliori venivano curati. E chi ne soffriva non si rendeva nemmeno più conto delle drammatiche conseguenze dell’epidemia. Sull’economia, prima di tutto. Anzi, di più, chi ne era affetto s’illudeva di condurre una vita placida e appagante, felice persino. Ma Camden sapeva che inoperosità e felicità non costituivano un binomio valido.
Il Sonno attaccava la mente. Era pazzia in purezza.
Dicevano che non era contagioso, ma non c’era troppo da fidarsi. Aggirarsi in ambienti contaminati era rischioso. La follia imperversava nelle case, le case erano piene di letti, lettini, giacigli di fortuna. E dentro quelle dannate case l’aria, quello era il dettaglio che lo aveva impressionato di più, l’aria puzzava. Durante il Sonno si sprigionavano veleni e tossine. Migliaia, milioni di individui erano sottratti ogni giorno alla naturale operosità dell’essere umano e ridotti a scarti.
Nella migliore delle ipotesi, al Sud un turno di lavoro non poteva durare più di dodici ore. Una crisi economica perenne, un deficit di energia produttiva pro-capite ormai insanabile. Meno male, però, che sulla Terra c’era gente come lui. Individui attivi, instancabilmente all’opera per estirpare il problema alla radice. Per un attimo si sentì orgoglioso. Poi sussultò, al pensiero che se quello era l’effetto che pochi minuti di Sonno avevano avuto sul suo organismo, gli Africani vivevano in un dramma senza soluzione di continuità. Provò pena per loro. Ne immaginò i movimenti rallentati, l’indolenza, l’impotenza totale del corpo e della mente in quegli attimi così insopportabilmente esiliati dal flusso del tempo.
Camden non era un tipo impressionabile. Ma gli vennero prima la pelle d’oca e poi la nausea.
In Europa e in tutta la Confederazione la malattia era stata sconfitta da secoli e nessuno ne serbava più memoria. E la Confederazione guidava il Mondo. Ogni uomo, ogni donna, svolgeva turni lavorativi di almeno venti ore. Era questo, e solo questo, a farli sentire vivi e degni di appartenere al genere umano. Adesso che lo aveva provato, capiva quanto il Sonno rappresentasse una minaccia per la civiltà.
Guardò l’ora. Era tardi. Ancora barcollante, uscì per tornare in ufficio. Le sei ore di ferie erano finite e si sentì rinfrancato all’idea di tornare in Echo e dedicarsi al suo salvifico mestiere.
Vide su un tavolo un appunto con il codice del contatto.
Lo ridusse a pezzetti, li mise in bocca.
Deglutì.
 

****

 
Hailé aprì gli occhi, ma sperò che stesse ancora dormendo, sperò che fosse uno dei suoi maledetti incubi.
Il Dottor Hunter era seduto sulla poltroncina, la testa pendeva in avanti abbandonata al proprio peso. Il camice era macchiato di sangue. Il corpo del medico scivolò lentamente e caracollò riverso in terra. Una prima raffica lo aveva trapassato, la seconda, proveniente dall’esterno, mandò una finestra in frantumi. Un istante dopo la porta del laboratorio si spalancò.
Dopo il trattamento il ragazzo era troppo debole per alzarsi e fuggire. La sua mente, teatro di ripetute battaglie fra neurotrasmettitori ereditati da secoli di resistenza alla selezione e antagonisti inoculati a fini d’igiene e profilassi da fine terzo millennio, faticava a precisare un attendibile piano di realtà.
-Dì all’idiota là fuori di smetterla, siamo dentro!- gridò una voce. Era un uomo con il volto coperto e gli puntava addosso un fucile da guerra.
-è sveglio! è sveglio!- aggiunse un altro. Si precipitarono verso Hailé e lo incappucciarono. Fu sollevato e legato, mani e piedi.
-Jenna, Jenna…- mormorò il ragazzo mentre veniva trasportato di peso all’esterno. Ma l’infermiera non poteva rispondergli.
-Iniettate il sedativo.- fu l’ultima frase che udì, insieme al rumore di un motore a idrogeno che singhiozzava all’accensione.
 

****

 
Camden si stupì della piacevole sensazione di calore, e dei brividi sulla pelle. Erano sensazioni nuove, e le provava ogni volta che alla sua mente si riaffacciava il volto della donna che aveva sognato in quei minuti, gli unici della sua vita, in cui aveva violato le più elementari norme di igiene e profilassi, oltre ad almeno una ventina di leggi, norme e regolamenti della Confederazione.
Non era un ricordo. Non aveva un volto preciso, ma era bellissima. Forse mora. O bionda. O tutt’e due. Alta, forse. Sì, molto alta, e snella. Avvertì una fitta al ventre.
In quell’avventura ben oltre i limiti del lecito, laggiù alla Barriera, ce n’era abbastanza per essere radiati da Echo e sbattuti in qualche colonia penale a vita, in quarantena e avviati a un programma di disintossicazione, magari proprio uno di quelli che aveva sviluppato lui quando si occupava di studi in vivo.
Ormai il suo corpo aveva conosciuto il Sonno. Che ne sarebbe stato di lui? Per quanto ancora la sua mansione di analista di primo livello lo avrebbe protetto? E soprattutto, perché mai aveva commesso una simile idiozia? Non gli mancava niente. Biomoduli gratuiti, cibo, un bell’appartamento in Zona Protetta.
Prima o poi avrebbe dovuto sottoporsi a qualche test, magari per futili motivi, e qualcosa sarebbe saltato fuori. Passò in rassegna tutti i neurotrasmettitori di cui quei minuti di sonno potevano aver alterato i livelli plasmatici, e i danni economici associati, che persino un tester portatile avrebbe calcolato in un batter d’occhi. Era infetto? E quanto? Tre anni di produttività persa? Tre mesi? Trent’anni? In un caso simile sarebbe stata una fortuna se lo avessero espulso in qualche colonia per direttissima, senza nemmeno sprecare mezzo credipound per una cura.
Le droghe che avevano usato per farlo dormire avevano un potere mutageno o era solo un’intossicazione transitoria? Quanto tempo gli restava prima di essere scoperto?
È solo un attacco d’ansia. Un agente chimico, qualunque sostanza abbiano usato, non può indurre mutazioni. Non possono beccarmi.
Di getto, obbedendo a un impulso insopprimibile, afferrò il micro e uscì dalla stanza sforzandosi di riportare alla mente il codice del contatto.
Si maledisse per averlo messo nella pancia, anziché in testa.