Idillio

Idillio

«Sei un idiota! Lo sapevo che finiva così.»

Laura diede un calcio al cancello, che vibrò metallicamente prima di quietarsi. Il catenaccio che ne fissava i battenti, fermato da un solido lucchetto, ammiccava nella fredda luce dei lampioni. Federico si grattò la nuca, guardandosi attorno, spaesato. Avrebbe voluto replicare, metterla in riga, farle capire chi comandava, nella coppia; ma era troppo sballato nel farlo, e anche la voce biascicata di lei gli aveva fatto capire, anche oltre la nebbia che gli appannava la ragione, che il suo sfogo non era realmente diretto a lui. Osservò l’inferriata che definiva il perimetro del luna park: troppo alta per poterla scavalcare e troppo pericolosa da affrontare, a giudicare dalle cuspidi appuntite in cima a ogni singola sbarra.
Alle sue spalle, Milena e Andrea rimanevano in silenzio. Federico si voltò verso di loro, sentendo addosso il disappunto che i loro sguardi, volenti o nolenti, gli stavano lanciando.
Che colpa ne aveva, lui? Aveva solo dato il via, aveva solo proposto l’ultimo giro. Gli altri lo avevano seguito, tutto qui. Perché doveva beccarsi tutta la colpa?
Eppure, per loro il luna park era uno sballo. Specie dopo aver tirato, dopo che quello “spinello atomico” – Andrea lo definiva così – si era ridotto ai minimi termini piombando nei loro polmoni e avvolgendogli la mente. “Idillio”, era il nome che gli dava Milena. Lei ne sapeva abbastanza sull’argomento, e soprattutto, era stata parecchio generosa a condividerlo anche a loro, anche se fino a poche ore prima era una perfetta sconosciuta, un volto ignoto in mezzo a quel turbinio di facce che si era avvicinata a loro sussurrando una proposta all’orecchio…
Federico gliene era grato. L’Idillio era paradisiaco. Era troppo divertente vedere il mondo accelerare, vorticare, quando già sulle giostre la gravità e la forza motrice delle macchine sballavano completamente i sensi. Un divertimento centuplicato. La fumavano nelle rozze toilette pubbliche sparse nel luna park (più che bagni, una volta Laura aveva detto che sembrassero bare, e Federico aveva paura che avesse ragione) e poi si cominciava. Dava dipendenza, eccome… e quando Milena aveva proposto un ultimo giro di giostra, nel vero senso della parola, lui si era impuntato come un bambino insistendo che lo facessero, anche se gli altri si erano mostrati contrari. Milena gli aveva sorriso e si era chiusa nel bagno con lui, a fumare.
Solo che stavolta, ad attenderli non c’era stato lo schiamazzo, le luci impazzite e la musica che si ripeteva, pedante e monotona. Solo il silenzio, la penombra, il deserto.
«Ci abbiamo messo troppo» fece eco Milena, come leggendo i suoi pensieri. La luce dei lampioni che circondavano la cancellata era sufficientemente forte da far risaltare il pallore del suo viso e le venuzze che artigliavano le iridi. Lei era stata male subito, ed era stata anche l’ultima a riprendersi, quel tanto che bastava per riuscire almeno a stare in piedi. «Non abbiamo previsto che di domenica chiudesse prima.»
«E adesso?»
“Adesso? Adesso ci calmiamo, punto primo» sentenziò Federico, con un’occhiataccia a Laura. «Chi mi presta il cellulare? Io sono a secco.»
«E chi vorresti chiamare?» lo piccò Laura. «Vuoi chiamare la polizia, o i vigili? Così finiremmo in guai peggiori.»
«A meno che non conoscete qualcuno che abbia un’accetta o che sia un maestro a scassinare, non credo si riesca a distruggere quel lucchetto.» Andrea era apatico. Federico non era del tutto sicuro che fosse a causa la droga.
«Chiusi dentro! Una bella prospettiva.»
Laura sospirò con una scrollata di spalle. «Beh, almeno abbiamo l’Idillio. E qui siamo soli. Non so voi, ma sono stanca di chiudermi in un buco che sa di sterco per potermelo godere. Voi che ne dite?» Indicò le varie aiuole sparse tutt’attorno e le panchine ora vuote. Federico seguì la direzione indicata dalla sua mano e nella sua testa s’accese il lampo dell’eccitazione.
Perché no? Milena aveva ancora parecchie buste. Sarebbero bastata per tutta la notte, e nessuno li avrebbe disturbati.
Sarebbe stato uno sballo.

«Avete sentito?»
«Cosa?»
Laura alzò una mano. Federico la squadrò da capo a piedi come se la vedesse per la prima volta. Aveva fatto un tiro troppo in fretto e ora persino l’udito gli sembrava compromesso.
«Ho sentito una risata.»
«Piantala di dire stronzate. E’ la droga.»
«No! E’ che…» Laura attese. «Siete sicuri che non ci sia nessuno?»
«Se è il custode, ora lo spavento con un rutto» replicò Andrea, acido. Il bianco degli occhi era ormai un nugolo di venuzze che si attorcigliavano una sull’altra. «Gli cambio la tinta dei capelli con un “do” d’esofago, altroché…»
«Taci, Andrea! Non riesco a sentire nulla se continui a…»
Laura non ebbe bisogno di finire di parlare. Stavolta lo sentirono entrambi. Uno sghignazzo, profondo, rauco. Uno sghignazzo colmo di un’ilarità impareggiabile. Andrea trattenne il rutto che stava davvero per far esplodere e si alzò appena dal tappeto d’erba su cui si era sdraiato per fumare, puntellandosi coi gomiti. Federico sobbalzò e sbattendo gli occhi per mettere a fuoco. Gli sembrava che il fumo, anziché scendergli nei polmoni, gli fosse finito nella retina.
Non videro nulla nei dintorni.
«Sarà qualche pupazzo elettronico rimasto in funzione» minimizzò Milena, aspirando a lungo; l’estremità dello spinello s’accese per qualche istante per poi tornare a brillare di una luce fioca, come una lucciola sperduta nella notte.
Laura non rispose. Alzandosi di scatto, gli era salita la bile in bocca. Era la droga: non c’era abituata. Si piegò, colta da un conato che però non riuscì a scaricare. Con la pazienza di una mamma, Milena gli fu accanto.
«Vieni, almeno non farlo qui in mezzo…»
La sorresse e la condusse un po’ più lontano, girando l’angolo del chiosco dei gelati. Federico si rilassò; Andrea tornò a sdraiarsi. Il tempo parve fermarsi, a lungo. Poi Andrea sussultò e si alzò di scatto.
«Hai sentito?»
Federico mugugnò qualcosa prima di spiccicare parola. «Cosa…»
«Qualcuno ha gridato!»
Federico tentò di alzarsi dalla panchina, ma il mondo girava come un pazzo. Gli veniva quasi da vomitare, peggio che sulle montagne russe. Cristo, forse aveva esagerato.
«Non ho sentito niente…» Guardò nella direzione intrapresa dalle due ragazze. «Laura…?» chiamò, poco convinto.
Nulla.
«Te lo sei sognato…»
«Senti, idiota, l’ho sentito davv…»
«Va bene, va bene…» Federico s’alzò con malavoglia. Dio, come gli pulsava la testa. Azzardò un passo, poi un altro, infine cominciò a camminare. Non ragionava completamente, barcollava come un ubriaco, eppure, a parte tutto, si sentiva quasi euforico. Aggirò l’angolo e aguzzò la vista; i muri ostacolavano in parte la luce dei lampioni. Scrollò la testa e avanzò di un passo.
«Dove cazzo sono andate a cacciarsi…?»
In quel momento, la suola della scarpa scivolò su qualcosa di viscido. Si ritrasse, d’istinto, e guardò per terra. C’era qualcosa… vernice? Una scritta? Qualche writer con scarso tocco artistico? Dalla luce si capiva poco. Si accovacciò strofinandosi gli occhi. Aveva visto qualcosa brillare nel centro di quel…
Cristo…
Due parole, semplici, contorte, scritte con qualcosa. Ne sentì l’odore, anche se non sapeva come facesse, lo sentiva eccome.
HO FAME.
E nel centro di quella frase, l’anello di Laura, che grondava sangue.
Federico sgranò gli occhi. Gonfiò i polmoni, li tenne tesi, poi urlò.

Stava ancora urlando, quando Andrea lo raggiunse. Lo colpì al viso. «Che cazzo ti prende?»
Federico non riuscì a rispondere.
«Dov’è Laura? E Milena?» insistette l’amico. Si guardò attorno, ma non scorse nessuno. «MILENA! LAURA! LAURAAA!»
Nessuno a rispondergli.
«Io non… io non…!» Federico si chinò a terra e raccolse il gioiello. Poi si girò verso l’amico. «Tu… non lo vedi? Cristo santo, non vedete cosa c’è scritto qua?»
«Non c’è scritto nulla!» urlò Andrea. Gli tirò un ceffone che a Federico sembrò una cannonata, nella mente avvolta dalla droga. «Tu hai fumato troppo!»
«No!» La disperazione strozzava la voce di Federico. «Non…»
La mano di Andrea troncò i suoi vaneggiamenti. «Eccola, idiota» gli ringhiò all’orecchio. La sua voce era ancora più roca dopo che il fumo degli spinelli gliel’avevano asciugata.
Indicò la giostra dei cavallini. Federico seguì ciò che puntava il suo dito. Non vide nessuno.
«Cosa…»
«Laura è lì, seduta sul cavalluccio. La vedi?»
«No!» Si afferrò i capelli e sembrò sul punto di strapparseli. «Cristo, tu non vedi questa scritta, io non vedo lei! Che cazzo sta succedendo, per la miseria!? Milena! Cristo santo, Milena, dove sei!»
Aveva urlato a pieni polmoni. A rispondergli solo il silenzio.
Andrea si era avvicinato alla giostra. Non capiva il panico dell’amico: Laura era lì, accoccolata all’amazzone su uno dei ronzini bianchi che componevano la giostrina per bambini.
«Laura?»
Lei non rispose. Sembrava guardare da tutt’altra parte, immobile come una statua, la testa appoggiata sul palo che permetteva al cavalluccio di andare su e giù. Andrea sbuffò. Si avvicinò e salì sulla predella. Aggirò un’automobile, una carrozza delle fate, fino a giungere da Laura. Lei non si mosse, né diede segno di volerlo fare.
«Senti, carina, piantala con le stronzate e…»
La voce gli morì in gola. Aveva afferrato Laura per i capelli e la testa si era piegata da sola, innaturalmente. La sua mano si chiazzò di un liquido scuro, caldo e viscoso. Gli occhi di Laura erano aperti, vitrei. Sul suo collo si aprivano due fori sanguinolenti.
Andrea non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto. Sentì una mano sulla spalla, e quando si voltò, l’ultima cosa che vide furono due canini appuntiti. Poi quelle zanne gli piombarono addosso, e fu il buio.

Federico non sapeva cosa stesse succedendo. Aveva visto Andrea urlare, contorcersi, per poi cadere a terra, sempre dimenandosi, gorgogliando come se soffocasse.
Fu troppo.
Strinse l’anello nella mano e cominciò a correre. Si dimenticò di tutto, di tutti; corse via, verso l’uscita. Arrivò trafelato al cancello, col cuore che gli scoppiava nelle orecchie.
E vi trovò Milena ad aspettarlo.
Rimase inebetito, senza capire. Lei gli sorrise, appoggiata al cancello; aveva gli occhi strani, brillanti, lucenti. E non era la droga, Federico sapeva che non era per effetto della droga…
«Milena…»
«Sai?» disse lei in tono confidenziale. «Il sangue umano, se impastato dalla droga, è qualcosa di unico.»
«Perché?» Federico quasi piangeva.
«Perché ho fame.» Le zanne erano spaventevoli. «Perché agli umani non piace morire. Quindi ho cercato di non farvi vedere la morte. L’Idillio serve a questo. Per darvi l’illusione che sia tutto un sogno, scombinandovi la mente in modo da non farvi accorgere quando la vostra morte vi prende, e mi sazia.»
«NO!» Federico indietreggiò, terrorizzato. Benché la vista ondeggiasse, era chiara la figura di lei, che più che umana pareva un’ombra, con gli occhi rossi e le zanne acuminate.
Si riscosse e tornò a correre, su gambe sempre più malferme. Costeggiò la cancellata, sentendo la presenza di lei sempre presente, come se lo seguisse mulinando nel vento.
Raggiunse il casello del custode. Nessuno. Spintonò la porta, e la trovò aperta. Si guardò intorno, in cerca di un’arma, ma non trovò nulla. Nulla di nulla.
Qualcosa brillò sul muro, quasi ammiccando alla luce dei lampioni che trapelava dall’esterno. Lo raggiunse, caraccollando, lo staccò.
Una chiavetta. Piccola, minuta, come la sua speranza. Si guardò rapidamente intorno e scorse una porticina. Vi si gettò contro, armeggiò con la serratura, la spalancò di getto.
E rimase di sasso.
Era una toilette privata. Nessuno sbocco. Nulla di nulla. Solo un water, sporco, che puzzava di merda.
“Sono stanca di chiudermi in un buco che sa di sterco” aveva detto Laura. Sentì l’ironia della sua voce nei ricordi annebbiati.
La stessa ironia nella risata di Milena, ora così vicina. Praticamente dietro.
In trappola. Tutto finiva praticamente dov’era iniziato…La consapevolezza lo colse. E insieme a essa, una sensazione che nemmeno lui sapeva definire. Qualcosa non causato dalla droga.
Non si voltò mentre Milena gli giungeva alle spalle. Con movimenti lenti, da automa, andò alla tasca e ne trasse fuori uno degli spinelli che si era preparato. Il tempo parve fermarsi. Lo accese. Lo portò alla bocca, aspirò forte, una volta, poi un’altra. A fondo.
L’Idillio.
Aspirò ancora mentre il mondo si distorceva, mentre l’euforia iniziava ad agguantarlo; mentre due canini si appoggiavano sul suo collo, a livello della carotide.
Sorrise e chiuse gli occhi.
Milena aveva ragione. La morte poteva davvero sembrare un sogno.

 

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