Il marchese quantistico

Il racconto vincitore del Primo Capitolo de IL CAMALEONTE dedicato a Italo Calvino. Atmosfere tipiche del grande autore italiano tornano a vivere grazie alla penna di Jacopo Berti.

 
Alle prime avvisaglie dell’aurora, Filippo Filentomo Finotti, marchese di Essembergo, spalancò le porte del suo maniero e gettò un guanto di sfida all’indirizzo di un aprile annebbiato e sonnolento. Inspirò a pieni polmoni, verificò con uno strattone la tenuta dello schioppo in spalla e proclamò a gran voce: «Si va a caccia!»
Da nessun’altra parte un annuncio del genere avrebbe suscitato meno clamore: le fantesche trascinavano placide i pizzi delle camicie da notte, reggendo pitali da svuotare; i paggi, le palpebre socchiuse, accendevano candelabri e candelieri; le cuoche rintuzzavano il fuoco per la prima colazione. Tutti si preparavano a una tranquilla mattinata in giardino. Da sempre le battute di caccia del marchese si svolgevano nei ristretti limiti della sua tenuta. Provvisto di lente d’ingrandimento e di taccuino per gli appunti, Filippo Filentomo andava alla ricerca d’insetti, curvava la sua schiena ossuta su coccinelle e lombrichi, incoraggiava i cani quando si acquattavano mugugnando davanti a una blatta o un ragno: «Bravo, così si fa, Argo!» diceva, oppure «Che preda, Ariele!»
Ma quella mattina, montato a cavallo, il marchese superò d’un balzo le inferriate del cancello, fece impennare Bucefalo, sparò tre colpi in aria.
«Filippo s’è destato!» disse l’anziano maggiordomo da dietro i suoi occhi acquorei. «La maledizione di Petruna!»– fece, mentre il cuore si fermava. «Che Dio ci aiuti!»
Ci fosse stato qualcuno ad ascoltare! Tutti quanti invece correvano allarmati di qua di là di su di giù, gridando alla fine del mondo o ad altre sventure.
 
Tutto ciò accadeva nel tempo in cui l’Italia era ancora solo lo stivale che si estendeva dalle Alpi verso sud oltre il Po e giù lungo gli Appennini, e colla punta della Trinacria palleggiava la Sardegna. Tra le pieghe delle mappe dei Savoia, degli Asburgo e del papa c’era spazio per baronie, contadi e altri domini che passavano inosservati ai più, e non sarebbero stati ricordati. Ma non sono forse le pieghe a tenere assieme le mappe? E in quel giorno d’aprile, di una di queste pieghe, del suo intero dominio, il marchese di Essembergo aveva fatto territorio di caccia.
 
Colla doppietta, il destriero e la muta di bracchi, Filippo Filentomo si scapicollava tra boschi e balze. Il suo seguito di famigli e familiari s’affannava tra forre e roveti ma non riusciva a stargli dietro. Non perché fossero accorsi tardi (dopo il primo trambusto s’erano subito affaccendati) ma perché era semplicemente impossibile tenere il passo, giacché il marchese sembrava non averne uno. Il suo cimiero compariva sulla sommità del monastero di santa Ildegarda, ma un istante dopo s’udiva il suo corno risuonare nel bosco di betulle di Nevebigia.
«Eccolo!» faceva il capocaccia, maledicendo i suoi giorni. «Come corre!» diceva un cugino cavaliere; «Ma se a malapena passeggia!» ribatteva un altro. «Dove avrà trovato tutta quell’energia?» si domandava un terzo. C’era poi chi giurava di aver visto la sua esile figura, avvolta nella cacciatora marrone, sbucare di tra le cime degli alberi e volar via come uno spaventapasseri rapito dal vento.
Ogni tanto doveva pur fermarsi, ma solo il cielo sapeva dove si fosse cacciato!
Poi a un certo punto ricompariva e con aria stizzita «Forza, forza!» diceva al codazzo esausto «qui o si procede a grandi passi o si resta a casa!» E tutti, in effetti, avrebbero preferito stare a casa.
La sera stessa, alla tavola del marchese vennero serviti cinghiale e cervo e orso, conditi con mirtilli e miele selvatico, tutto procurato dal nobiluomo. Scaraventati i piatti con le parche porzioni cui era uso, Filippo Filentomo si avventava sugli arrosti sguainando l’arma e con maestria tagliava tocchetti e della sciabola faceva spiedo. Smise di mangiare e di bere soltanto quando poté specchiarsi nei vassoi e fu vuoto il barile di cervogia di santa Ildegarda.
Quella notte il maniero riecheggiò di alte grida, né fu soltanto la marchesa a godere del nuovo vigore del consorte.
 
La mattina dopo fu tutto come prima, e placidi furono l’indomani e il dì successivo. Il quarto giorno il marchese si svegliò con l’umore sanguigno, andò a caccia, organizzò un ricevimento, ingaggiò musicisti e attori, vinse duelli, trovò marito a due figlie, e la terza la raccomandò badessa.
E così avanti. Non solo c’erano giorni così e giorni cosà, ma capitava anche che a metà giornata d’un tratto il marchese s’accendesse e senza vie di mezzo passasse dalla calma all’ira o all’entusiasmo, dall’ozio alla frenesia, dal silenzio alle urla. E i suoi domini assecondavano i suoi capricci e sperimentavano a giorni alterni la bonaccia e la burrasca, siccità e inondazioni, abbondanza e carestia.
L’abitudine, si sa, è tra le forze che reggono questo mondo, e anche agli eccessi del marchese tutti, o quasi, s’adeguarono o fecero il callo.
 
Posso scrivere ancora qualcosa? Ma sì, qualcosa sì. Non vorrei dilungarmi troppo, però: temo che improvvisamente questo resoconto si muti in un grosso tomo, fitto di caratteri, zeppo di descrizioni araldiche, trattati di erboristeria, componimenti encomiastici, liste senza fine. Perché così, ahimè, accade nelle marche di Essembergo.
Dirò dunque brevemente della guerra.
Dovete sapere che, da quando ventenne si era distinto al congresso di Vienna, il marchese era noto per essere un fine diplomatico. Ne so qualcosa di diplomazia e immagino che il portamento elegante, il naso aquilino e i ricciolini alla Metternich abbiano molto giovato alla nomea.
Di tanto in tanto giungevano al suo maniero nobiluomini d’ogni rango, che richiedevano i suoi servigi di paciere e i suoi saggi consigli. Nei giorni instabili, i suoi congiunti si guardavano bene dal consentire questo tipo di visite, ma il conte di Malcascina era un amico di vecchia data e lo lasciarono passare.
«Finotti! Caro Essembergo, non sei invecchiato di un giorno!»
«Mi mantengo… attivo, Ristori.»
«Ho saputo! Le voci girano, èvéro?»
«E cosa dicono queste voci, Malcascina?»
«Che vuoi diventare duca.»
Il marchese camminava avanti e indietro, cercando d’indovinare le intenzioni dell’interlocutore. La mano e la mandibola di Filippo cominciarono a tremare come di trepidazione e gocce di sudore gli rigavano le tempie.
«In effetti, a volte, caro Malcascina, i miei domini mi stanno un po’ stretti. E non è certo con qualche piccola annessione che mi sentirei più a mio agio.»
«Sì, sì, capisco. Ma, riflettevo, non è questo il momento, èvéro? Con tutti i rivolgimenti che ci abbiamo intorno… Suvvia, in fondo resti sempre un moderato.»
«Signor conte, se c’è qualcosa che ho imparato in questi ultimi tempi è che la vita è fatta a scale. Non c’è posto tra un gradino e l’altro. E i gradini sono molto alti!»
Afferrato Malcascina per il bavero e la cintura, prontamente lo defenestrò. Sì, presto sarebbe diventato duca!
 
La prima annessione del marchese fui io che scrivo, segretario del conte di Malcascina. «Tu! Vieni qui!» mi disse Essembergo, prima ancora che il mio precedente signore smettesse di ruzzolare giù per dirupi. «Ora sei al mio servizio. Scrivi e fai cinque copie, una per ciascun confinante…»
Mi dettò delle dichiarazioni di guerra con tutti i crismi e i cavilli giuridici necessari, ma piene del suo spirito aggressivo e insaziabile. Sotto ciascuna di esse, Filippo Filentomo Finotti apponeva la sua sigla, sbrigativa, buttata lì, sprezzante. Quelle che avrebbero dovuto essere tre ‘effe’ si presentavano più o meno così: ≠ ≠ ≠.
I preparativi per la campagna di conquista iniziarono il giorno stesso: il marchese fece venire i migliori fabbri e commissionò loro delle enormi alabarde, che nessun uomo sarebbe stato in grado di brandire; mise al lavoro gli addetti al vettovagliamento e una squadra di cuochi; chiamò a sé i suoi armigeri più fidati, che avevano sedato le rivolte del Quarantotto. Fece approntare per loro un banchetto e comandò ai cuochi che servissero prelibatezze fino a contrordine. Gli armigeri inizialmente mangiavano di gusto, poi per obbedire al marchese, ma infine non ce la facevano davvero più: «Vi prego, signor marchese, basta!» diceva Gualtiero. «No, no, mangiate, dovete essere in forze!» rispondeva il marchese. «Di questo passo scoppieremo!» protestava Evaristo. «Oh, non andrà proprio così» obiettava Filippo, e infilava a forza un ultimo pasticcino alla crema nella bocca del milite.
Con un grido d’esultanza, il marchese veniva fiondato via dal ventre dell’alabardiere, che s’ingrossava tutto d’un tratto. Seguivano a ruota le gambe, le braccia e infine la testa, che s’espandeva con un pop fino a decuplicare il suo volume. Pop, faceva Evaristo, Pop! Gualtiero. Pop-sdeng Marcello (aveva infatti sbattuto contro una trave del soffitto) e in breve tempo il marchese ebbe al suo servizio un drappello di giganti. «Scrivi, Bertoldo: “La vita è fatta a scale!”»
 
I giganti già sbaragliavano gli eserciti avversari spazzando con le loro alabarde, usavano i cannoni come archibugi, pestavano cavalli e cavalieri come fossero giocattoli per bambini, facevano questo e altro quando sul più bello arrivò una missiva dal re. Fu fatta l’Italia, e ogni contesa fu appianata con privilegi e compensi. Il marchese Filippo fu fatto senatore del regno, e subito decise d’invecchiare. In un sol giorno, s’ingobbì e s’incanutì, depose la sciabola in favore della penna, volle che il suo desco fosse ingombro di libri e la sua biblioteca preziosa e invidiata. Alle volte uno si crede appagato, ed è soltanto vecchio.
Tra i tomi ho scoperto antiche leggende sulla maledizione che grava su Essembergo. Ma non mi arrischio ad aggiungere altro.
Ora che il marchese ha deciso di passare, con la sua solita determinazione, a miglior vita, ecco che scrivo la sua storia. Odo notizie assurde: qualcuno sta pensando di applicare la filosofia del marchese alle leggi eterne che governano il mondo, di dire che tutto, in fin dei conti, funziona così.
Che mai potrà venirne di buono? Con che giganti, alabarde e cannoni verranno combattute le prossime guerre?

I commenti sono chiusi.