La legge dello Yukon

Una slitta trainata da una muta di cani, lo Yukon, neve, freddo e selezione naturale. Vincitore del Capitolo del Camaleonte dedicato a Jack London, un racconto di Fernando Nappo.

 
Non esiste musher che abbia trascorso almeno un inverno lungo le piste del Grande Nord che non nutra per la propria muta di cani la stessa considerazione che egli ha per se stesso, quando non maggiore. Egli sa che dalle condizioni dei suoi cani può dipendere la sua stessa vita, soprattutto quando l’inverno diventa più aspro, e tanto più il freddo scende sotto lo zero tanto più le piste si fanno lunghe e impervie. Egli si cura di tenere la propria muta nel pieno delle forze, in salute e ben pasciuta e si prodiga affinché tra i cani regni l’armonia. E se è pur vero che qualcuno è sopravvisuto agli stenti e alla morsa del gelo cibandosi dei propri cani, è altrettanto vero che quella decisione estrema è sempre stata dettata dall’imprescindibilità della lotta per la vita e presa tenendo nel massimo rispetto gli animali, sopprimendo dapprima quelli più deboli, quelli non più in grado di proseguire oltre e ormai destinati a morte certa.
Tom Raleigh solcava la pista per lo Yukon spronando i cani ora con rumorosi schiocchi di frusta, ora incitando il capomuta: «Forza! Baldy! Dai!»
Dopo giorni di duro cammino era stanco e a corto di provviste e non vedeva l’ora di arrivare a Circle City per rifocillarsi e fare rifornimento. Inoltre, benché di carattere schivo e incline alla solitudine, il lungo isolamento aveva acceso in lui il desiderio di incontrare qualche vecchio amico col quale trascorrere alcune ora a chiacchierare, bere whisky e raccontarsi le rispettive avventure, le dure fatiche e le vicissitudini.
La neve aveva smesso di scendere da diverse ore e la pista scivolava veloce sotto i pattini della slitta, tanto che Tom contava di arrivare alla meta con un certo anticipo.
Il suo sguardo cadde su di una piccola sagoma distesa nella neve ai margini della pista. Fermò la slitta e s’accorse che si trattava d’un cane da slitta; un malemute, senza ombra di dubbio. Dal corpo non ancora del tutto congelato, dedusse che era morto da non più di due o tre ore. Di una cosa era però certo: in vita, l’animale doveva aver patito non poche sofferenze: il manto era rado e la pelle troppo esposta al gelo e tirata sulle costole, probabilmente a causa di fatiche estenuanti ricompensate con scarse razioni di cibo; sul corpo erano evidenti diverse ferite, alcune sicuramente dovute alla frusta, altre che parevano morsi di animali. Si sarebbe detto un cane da slitta ormai sfinito, diventato preda degli altri cani della muta, forse fuggito o forse abbandonato al suo destino.
Negli ultimi tempi, la corsa all’oro aveva richiamato nella regione una moltitudine di uomini, molti dei quali, cercatori o cacciatori improvvisati, pagavano a caro prezzo la loro inadeguatezza e incapacità di fronteggiare la durezza della vita di frontiera.
Tom spronò i cani. «Mush, avanti!». Le tirelle si tesero e la slitta riprese la sua corsa verso la meta. La giornata era serena e il cielo terso. L’immensità del paesaggio ricoperto di neve e la profondità del silenzio, disturbato solamente dal rumore dei pattini della slitta, non smettevano di affascinare Tom, il quale non poteva immaginare per sé altra vita se non quella. Nonostante il freddo, che lo costringeva a tenere la barba lunga, malgrado questo non fosse di suo gradimento.
Essendo i cani in ottime condizioni, diverse miglia scivolarono via senza grosse difficoltà, fino a quando una figura in lontananza spezzò il candore del paesaggio. Tom rallentò un poco la corsa e si avvicinò con circospezione. Quando fu abbastanza vicino, vide che si trattava di una slitta ferma lungo la pista.
Tom fermò la slitta proprio vicino all’albero presso il quale giaceva un uomo. Scostò il parka e prese la pistola, pronto a qualunque evenienza. La scena che si trovò a ispezionare era straziante. L’uomo era gravemente ferito. I cani giacevano sulla neve, tre di essi respiravano a fatica ed erano feriti, gli altri due erano morti, uccisi da un colpo di arma da fuoco. Non gli ci volle molto a capire la tragedia che si era compiuta tra quei ghiacci silenziosi. I cani, stanchi e affamati, avevano smesso di tirare e cominciato a lottare nella speranza che il più debole di loro soccombesse. L’uomo era intervenuto nel tentativo di fermare la rissa, aveva ucciso un paio di cani, ma era stato a sua volta assalito e ferito.
Con ogni probabilità il cane che aveva incrociato alcune miglia addietro era stata con la prima vittima di quella sfortunata spedizione.
Ripose l’arma e si si avvicinò all’uomo. Respirava a stento e aveva le labbra cianotiche. Gli ispezionò le mani, trovandole ormai completamente assiderate, e il corpo martoriato dai morsi dei cani. Gli sfilò gli stivali e, usando la lama del coltello, scostò con delicatezza le dita dei piedi per verificare fino a che punto fosse arrivato il congelamento. Tom non era un medico, ma gli parve subito chiaro che l’uomo era ormai spacciato; non gli restavano che poche ore di vita. Non avrebbe potuto fare nulla per salvarlo.
Si alzò e si diresse verso la slitta abbandonata dell’uomo. Nonostante fosse poco carica, si era evidentemente rivelata un carico troppo oneroso per una muta di cani sparuta e, chissà, forse anche male assortita.
Scoprì il carico, e lo ispezionò brevemente. Non c’era nulla di valore, nulla per cui valesse la pena di morire in quel modo. Prese il winchester che l’uomo teneva vicino al posto di guida e ne verificò la carica. C’erano colpi a sufficienza per ciò che doveva fare. Si avviò verso i tre cani ancora in vita. Gli animali rimasero immobili; respiravano a fatica e mossero appena gli occhi in direzione di Tom, quasi fossero consapevoli che la loro sofferenza era giunta al termine.
Tre colpi ruppero il silenzio.
Con della neve, coprì velocemente le cinque carcasse per ridurre il rischio che l’odore del loro sangue e degli organi ancora caldi attirasse qualche animale e tornò verso l’uomo. Si accucciò al suo fianco, appoggiando il winchester sulle ginocchia.
«Come ti chiami?» disse.
Il respiro dell’uomo era ormai ridotto a un rantolo. Con grande sforzo sussurò appena: «Frank».
«Stammi a sentire, Frank» disse. «Vuoi che porti un messaggio a qualcuno? Hai una moglie? Un figlio?».
Frank, ormai troppo sfinito per proferire parola, si limitò a un debole gesto di diniego.
«C’è qualcosa del carico che desideri far avere a qualcuno?».
Frank scosse di nuovo il capo.
Tom gli mise una mano su una spalla. «Mi dispiace per come ti è andata» disse.
Per tutta risposta l’uomo socchiuse gli occhi, tossì, e con uno sforzo oltre ogni limite mormorò qualcosa in modo così flebile che Tom non potè capire. Avvicinò l’orecchio alla bocca dell’uomo e lo invitò a ripetere.
«No lasciarmi qui… così…»
Con un brivido e un groppo in gola Tom si scostò. «Non temere, non lascerò che tu possa diventare cibo per i lupi o per gli orsi» disse.
Pronunciata quella frase, si alzò e arretrò di qualche passo.
L’eco di uno sparo corse rapidamente lungo le piste.
Per qualche istante, Tom rimase a fissare il corpo ormai privo di vita dell’uomo. È triste essere costretti a prendere una decisione del genere riguardo alla vita di un proprio simile, ma Tom non aveva nulla di cui rammaricarsi giacché Frank era stato il principale fautore del proprio destino. Forse per incapacità, forse per inesperienza; poco importava, ormai.
Tom si riscosse. Tornò alla sua slitta, ripose il fucile e prese qualche razione di cibo che distribuì ai propri cani. Li voleva tranquilli e in forze, in grado di lanciarsi ventre a terra verso la loro destinazione non appena avesse finito di seppellire Frank.
Recuperato il piccone prese a scavare una fossa di fianco all’albero dove l’uomo s’era accasciato. L’operazione gli richiese più tempo del previsto, anche a causa delle condizioni del terreno, ghiacciato in profondità. Riuscì comunque a scavare una buca sufficientemente profonda da contenere il corpo dell’uomo e garantirgli, oltre a una degna sepoltura, di non diventare cibo per gli animali selvatici della foresta. Per ulteriore scrupolo, avvolse il corpo dell’uomo nel telo che egli aveva usato per ricoprire la propria slitta, quindi lo adagiò nella buca. Ricoprì la fossa con la terra e uno spesso strato di neve che, una volta ghiacciata, avrebbe fornito un ulteriore riparo al corpo dello sfortunato viaggiatore.
Ma aveva speso molto tempo e non poteva indugiare oltre.
Dalla slitta dell’uomo recuperò per sé, oltre al winchester, una padella e un paio di guanti nuovi. Nient’altro. Non voleva appesantire oltre la sua slitta, già ben carica.
Tirò alla bell’e meglio la slitta di Frank ai margini della pista e lì la abbandonò. Forse qualcosa del carico sarebbe potuta tornare utile a qualche viaggiatore di passaggio.
Delle carcasse dei cani, invece, se ne sarebbe occupato ben presto lo Yukon.
Era ora di ripartire; la notte non avrebbe tardato a scendere e parecchie miglia lo separavano dalla sua destinazione. Si concesse solamente un breve momento coi i sui cani, li accarezzò ad uno ad uno, raccogliendo guaiti di gioia e scodinzolii riconoscenti, poi salì sulla slitta.
«Mush! Avanti!» ordinò. «Portatemi via di qui il più in fretta possibile.»