La mia Isa

Un padre premuroso, una figlia amata, un segreto inconfessabile. Semifinalista nella Centesima Edizione di Minuti Contati, un racconto di Eugene Fitzherbert.

 
Fermo la macchina di fronte alla casa fatiscente che mi aveva indicato Tania. Secondo lei, lì è dove tengono nascosta la mia piccola Isa. Dopo sei mesi di ricerche, di domande e di delusioni, forse ho trovato la pista giusta. Scendo dall’auto e mi avvio lungo il vialetto.
Senza pensarci due volte, sfondo la porta con una spallata. Dentro, mi basta poco per capire che l’ambiente è un crogiolo di disordine ed entropia. Al limite del mio campo visivo, un ragazzo cerca di scappare verso la cucina. In due veloci falcate, lo raggiungo e lo immobilizzo.
«Dimmi dov’è!»
Mi risponde con i suoi occhi blu: una botola al centro del pavimento.
Così cliché!
Torcendogli il braccio, lo invito ad aprirla: «Isa, sei laggiù?»
Sento un gemito, ma mi basta. Scaglio Occhiblù giù per la scala ripida tra urla soffocate, tonfi sordi e scricchiolii di ossa che si rompono. Scendo dopo di lui, calandomi nella notte artificiale. Dopo aver acceso una lampadina nuda, la vedo.
Isa! Mia figlia. Dopo sei mesi, la riconosco quasi dall’odore. Ha ancora lo stesso vestitino bianco, o forse è un altro, ma non è importante, perché è lei, È LEI!
Se ne sta rannicchiata in un angolo della cantina, le ginocchia raccolte sul petto e le braccia conserte a creare quel po’ di sicurezza come solo una bambina di quindici anni riesce a fare.
«Isa, bambina mia! Eccomi finalmente!» le sussurro.
La sua voce è ruvida, singhiozzante: «Perché? Perché…?»
Sicuramente sta per dirmi qualcosa di importante, ma sento il ragazzo che sta riprendendo conoscenza. Dopo tutto quello che ha fatto, dopo aver preso la mia Isa, mi avvicino a lui mentre sfodero il coltello da caccia dal retro dei pantaloni. Sento ancora l’odore di Tania sulla lama, il suo cinguettio da usignolo mentre mi prendevo tutte le ‘informazioni’, un pezzo alla volta. Con un movimento netto, taglio la gola di Occhiblù e lo lascio dissanguare.
Mi rivolgo a mia figlia, la mia adorata figliola.
«Isa, hai visto? Sono tornato per te! Ti ho cercato per così tanto tempo…»
La guardo meglio: il volto scavato, una cicatrice quasi impalpabile che le divide il sopracciglio in due, un occhio un po’ calante e niente più.
«Tesoro mio, sei stata lontano da me così a lungo che stai guarendo!» La afferro per i capelli e la faccio mettere in piedi. Le lascio scivolare la lama sporca di sangue sulla guancia. «Che cosa terribile! Ma porremo rimedio subito a tutto questo.»
Sento di nuovo i singhiozzi di Isa e non mi pare vero!
La trascino su per le scale e siamo quasi arrivati all’automobile, quando mi accorgo di un fatto incredibile: «Ma guardati! Guarda la tua pancia! Non mi dire che… Oh, ma dai! Davvero?» Non posso credere ai miei occhi: il suo ventre è gonfio e teso proprio là dove non te lo aspetteresti. «E dimmi, è mio? Eh?» Non attendo una risposta, in realtà, anche perché non può darmela mentre la scaravento nel bagagliaio. «Oh, che gioia! Sai una cosa? Ho sempre sognato di fare il ginecologo! Non vedo l’ora di farti il cesareo!»