La regola di tutte le regole

Francesco e Roberto.
Roberto e Francesco.
Si può dire si conoscessero dalla nascita: le madri, quando partorirono, erano vicine di letto.
«Come avete deciso di chiamarlo?» aveva chiesto la madre di Roberto.
«Roberto» aveva risposto la madre di Francesco.
Quando i due bambini erano nati, i genitori erano tanto felici che avevano deciso di invertire i nomi dei neonati: Roberto si sarebbe chiamato Francesco e viceversa.
Forse quel curioso episodio aveva segnato il loro rapporto di amicizia e creato la loro regola.
Come quella volta, quando avevano da poco compiuto i dodici anni e andavano ancora alle medie. C’erano le interrogazioni programmate: la professoressa permetteva di decidere chi di volta in volta dovesse essere interrogato. Erano rimasti solo Roberto e Francesco, e loro se la giocarono a pari e dispari. Uscì sette e vinse Francesco che aveva scelto pari.
Era questa la loro regola: ribaltare le regole esistenti.
Un’altra volta, alle superiori, si erano entrambi invaghiti di una certa Elena, la biondina della III C, e dovevano decidere chi ci avrebbe provato.
«Forbici, sasso, carta?» fece Roberto.
Francesco si limitò ad annuire.
Roberto gettò il cinque: carta; Francesco il due: forbici. Le forbici tagliano la carta e vincono, ma non per i due amici. Aveva vinto Roberto e con la biondina fu lui a provarci. Per la cronaca, lei lo mandò in bianco.
 
Solo quando correvano non valeva la loro regola. In quel caso vinceva semplicemente il più veloce.
Era Roberto ad andare nella corsia di Francesco. Gli dava la mano e diceva:
«France’, in bocca al lupo».
Francesco annuiva.
È sempre stato così il loro rapporto: poche parole, ma ognuno di loro sapeva bene di poter contare sull’altro.
Lo sparo dello starter li faceva scattare e dopo pochi metri si trovavano spalla contro spalla: Francesco cercava di rimanere concentrato e di guardare davanti. Con la coda dell’occhio vedeva Roberto e il suo stile di corsa perfetto: le sue gambe slanciate, i muscoli che si flettevano elastici e potenti. Per quanto Francesco si allenasse, non riusciva mai a superarlo.
 
Poi venne la guerra.
Era nell’aria, sebbene nessuno ci volesse credere. Reclutarono tutti e anche Francesco e Roberto furono costretti ad arruolarsi.
Furono assegnati alla Squadra A e mandati a combattere in prima linea.
Durante l’addestramento, il Comandante li aveva notati.
«Correte forte voi due» disse dopo averli fatti chiamare nella sua tenda. Mentre parlava mangiava una bistecca. Indossava occhiali da sole dalle lenti molto scure e non li guardava neppure.
«Centometristi?» domandò.
«Sissignore!» risposero in coro.
«Bene» disse. «Non dovrete sparare, contenti?» I due ragazzi lo guardarono senza capire.
«Farete la staffetta» aggiunse. «Ci serve gente in gamba che consegni dei tubi di plastica da una postazione all’altra. Contengono ordini che non possono essere intercettati in alcun modo. Ordini che devono essere letti solamente dal destinatario».
In fondo si trattava di correre, ed era quello che sapevano fare meglio di ogni altra cosa.
 
Quella volta, però, si trattava di portare uno di quei tubi al Comandante della Squadra D, che si trovava al di là di un appezzamento di terreno. Erano solo poche decine di metri, ma a campo scoperto, sotto il tiro dei nemici.
Il Comandante se ne lavò le mani: disse che spettava a loro due decidere chi dovesse andare.
Francesco e Roberto si guardarono negli occhi: anche in quell’occasione dovevano valere le loro regole. Se la giocarono ancora a forbici, sasso e carta.
«Sei pronto?» chiese Roberto.
Francesco annuì.
Roberto fece: «Uno, due e tre» e i due ragazzi fecero la loro giocata. Francesco avevo la mano aperta, con le cinque dita distese: la carta. Roberto il pugno chiuso a zero: il sasso.
La carta, si sa, cattura il sasso, ma non in quella occasione, non tra Francesco e Roberto. Erano le loro regole e sapevano che era il sasso a prevalere: il cinque doveva sottostare allo zero.
Così, almeno, avrebbe dovuto essere. Francesco aveva perso. Toccava a lui.
Roberto lo abbracciò come non aveva fatto mai.
«Mi dispiace», disse e a stento tratteneva le lacrime. Francesco non lo aveva mai visto così.
«Non preoccuparti», disse l’amico sorridendo. «Non sono ancora veloce come te, ma di certo non mi faccio prendere».
Roberto lo guardò e sorrise anche lui.
«Dovrei andare io» disse.
«E perché?»
«L’hai detto tu: sono più veloce.»
«Ormai è fatta» rispose Francesco. «Ho vinto, quindi ho perso: è la nostra regola, lo sai».
Francesco si chinò per allacciarsi bene le scarpe. Si sistemò il giubbotto e impugnò saldamente il tubo con il messaggio del Comandante.
«Sembra un testimone» disse.
«Già» fece Roberto. Poi aggiunse: «Non quando corriamo.»
«Cosa?», riusci a dire Francesco prima che Roberto lo colpisse in testa.
«Quando corriamo la nostra regola non vale, ricordi?» disse Roberto. «Vale chi corre più veloce».
 
Quando Francesco si svegliò Roberto non c’era più.
«Hai barato» sussurrò prima di scoppiare in un pianto a singhiozzi.

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