Le ali nere della notte

Personaggi che si aggirano nella notte, oscuri misteri che si perdono nel buio. Un racconto di Ambra Stancampiano.

 
Sono cresciuto in luoghi oscuri e umidi, cullato dai miasmi dei cunicoli più profondi e fetidi della grande metropoli. Non ricordo nulla della mia vita in superficie, solo il profumo di mia madre, che mi sfiora le narici quando mi concentro, in solitudine.
E non ci credereste, ma è difficile stare da soli nelle fogne dove vivo io; a parte gli scarafaggi e i ratti, quaggiù vive un sacco di gente: barboni, tossici, bambini sperduti come me, ubriaconi che han perso la bussola.
E poi ci sono quelli che ci vengono a cercare: poliziotti e trafficanti, spacciatori e uomini d’affari che campano dell’altrui elemosina, bande di ladri che cercano carne da cannone per gli incarichi più pericolosi. Io lavoro con loro. Sono piccolo e agile, so entrare da fessure strettissime, cancelli con le sbarre, finestrelle. Mi arrampico su alberi e pali, salto tra i tetti. Qui dicono che ho le ali. In genere entro nelle ville e poi apro la porta ai ladri, stavolta però è diverso.
Il tizio che mi ha assoldato è da solo, e mi dà una strana sensazione. Parla con una voce molle e un po’ viscida, ma non è armato (ho occhio per queste cose) e comunque non è la persona peggiore per cui ho lavorato. E’ solo un po’… strano, con gli occhiali da sole al buio.
Mi ha fatto salire in macchina, e sul sedile posteriore c’era una grossa gabbia piena di bestiacce nere che strillavano con una vocina acutissima:
«Ma sono…»
«Pipistrelli, le ali della notte. Non ti piacciono?»
Ha guidato per un bel po’, mentre io mi godevo il calduccio e la morbidezza del sedile. Devo essermi addormentato.
Mi sono riscosso quando si è fermato, mi sono guardato intorno. Eravamo in una zona di fabbriche abbandonate. Casermoni di mattoni scuri con finestracce grandi come occhi, senza più un vetro integro, mi fissavano da tutte le parti. Davanti a noi, un’antica ciminiera di mattoni, di quelle per cuocere la ceramica. Sono sceso dalla macchina. L’uomo era proprio davanti alla ciminiera, armeggiava intorno ai resti di un falò. Mi sono avvicinato.
«Che aspetti? Arrampicati sulla ciminiera!»
Non aveva più gli occhiali da sole, e mi ha guardato dritto negli occhi. Qualcosa in quello sguardo mi ha smosso un brivido umido tra la pancia e le ginocchia. Mi sono avvicinato alla ciminiera e mi sono attaccato al primo mattone, poi al secondo e così via. Lo sconosciuto, dietro di me, si è messo a cantare; mi è arrivato alle narici un odore pungente di brace. Ho continuato a salire; il mondo è pieno di matti.
Arrivato a metà scalata, ho sentito un’esplosione. Mi sono voltato, una luce accecante mi ha ferito gli occhi e ho perso la presa. Cadendo, ho chiuso gli occhi aspettando l’impatto, poi ho agitato le ali.
Le ali?
Ho provato ad aprire gli occhi, niente. Mi sono messo ad urlare, ma dalla bocca mi è uscito un suono stridulo che è andato a sbattere contro qualcosa un attimo prima che mi catturasse.
«Preso!» ha detto lo sconosciuto mentre mi agitavo nel retino «ora saluta i tuoi nuovi amici.»
E mi ha sbattuto nella gabbia.

I commenti sono chiusi.