San Ventuno a Monte

Quando le forze gravitazionali decidono di fare per conto loro… Terzo classificato nella Pisa Live Edition con Federico Guerri come guest star, un racconto di Zebratigrata.

 
I primi ad accorgersene furono i bambini, giocando. I più furbi ne approfittavano per vincere alle biglie, e in generale la cosa non li turbava più di tanto. Non ne sapevano ancora abbastanza del mondo da distinguere il possibile dell’impossibile. Manuzio Gettoni, 14 anni, riuscì persino, con magistrale faccia tosta, a convincere la ragazzina più bella della scuola, Benedetta Pignattelli (i bigliettini spiegazzati raccolti dalle maestre nel corso dell’anno testimoniavano l’unanime plebiscito), di essere in lizza per i mondiali di pattini a rotelle: era, in effetti, indubbia la naturalezza con cui pattinava in salita.
 
Gli adulti, invece, erano restii ad accettare la verità. Non è mai facile dover ammettere che la tua maestra delle elementari, dea della grammatica e icona di sapienza infinita, si è sbagliata. È dura accorgersi che la virgola tra soggetto e verbo, qualche volta si può quasi mettere, o che la forza di gravità può decidere di scioperare. L’elasticità mentale, tuttavia, sembra essere legata a doppio filo alle potenzialità economiche del fenomeno in questione. I primi a dar corda alle rivelazioni dei ragazzi furono Gene e Irene, gli anziani proprietari della locanda Al Tasso Impagliato. Alla veneranda età di 98 e 103 anni non si stupivano più di nulla. E in fondo se ad Ariccia riempivano interi bed & breakfast di turisti accorsi a vedere l’illusione dell’acqua che va in salita, potevano ben riempire le cinque stanze del Tasso Impagliato e vendere qualche scodella di brodo con l’uovo in più, no?
 
Solo che a San Ventuno a Monte non era un’illusione ottica, come ad Ariccia, non era una bizzarra combinazione di paesaggio e salite in prospettiva a incantare i viaggiatori che si spingevano fin là per buttare a terra una pallina rossa e vederla salire. A San Ventuno a Monte l’acqua in salita ci andava davvero. E anche le biglie, i pattini a rotelle, le arance sfuggite alle borse della spesa, le lattine di birra vuote a lato della strada, le M&Ms blu cadute a terra in quell’attimo di titubanza in cui la mano di Manuzio toccava la mano di Benedetta che per la prima volta gli aveva parlato, per chiedergliene una. Tutto rotolava, inesorabilmente, verso la cima del monte Verto.
 
A Gianni Piantoni, detto il Gianni, editore, fondatore, redattore capo nonché unico giornalista dell’Eco del Verto, non pareva vero. O per lo meno gli pareva ancor meno vero di quanto non paresse agli altri. Era una gioia andare al bar della Civetta e vedere finalmente la copia dell’Eco con le pagine ispessite dall’umidità e dall’uso, un po’ stropicciate, con gli angoli che iniziavano ad arrotolarsi e l’inserto centrale pieno di briciole e appiccicaticcio per i residui di marmellata. La verità è che, prima che a San Ventuno le cose iniziassero a salire, il Gianni non era mai stato sicuro di aver mai avuto nemmeno un lettore.
 
Sentendosi investito dai suoi primi venticinque lettori della solenne responsabilità di scoprire le ragioni profonde del fenomeno, fu proprio il Gianni che decise di andare a vedere dove finisse tutta quella roba che scivolava su per la montagna. Gambe in spalla, raggiunse il picco in meno di mezza giornata (d’altra parte, si sa, a salire ci vuole poco, è il ritorno in discesa quello che sfianca). Il Gianni si ritrovò così a contemplare un enorme cumulo di rifiuti che rivestiva la cima del monte. O forse quel cumulo di rifiuti era la cima del monte vera e propria. Non si capiva più bene. Nel punto più alto, sacchi della spazzatura, cartacce e bottigliette di plastica formavano una pila dall’apparenza precaria, che rischiava di volare da un momento all’altro.
 
L’articolo del Gianni venne pubblicato e ripubblicato sul fior fiore della stampa nazionale e fu letto e riletto sul peggio del peggio della TV spazzatura. Chi ci vedeva lo zampino zoccoluto del demonio, chi le conseguenze disastrose del riscaldamento globale, chi pensava che fosse un rapimento alieno (solo che s’era guastato il raggio traente). La signora Cesira Enrico, perpetua di Don Vasinto, era convinta che fosse l’inizio della fine, ed era in buona compagnia. Al bar della Civetta ci avevano pure fatto un aperitivo a tema, l’Apecalisse. Fatto sta che col trascorrere del tempo il Risucchio si faceva più intenso, e a San Ventuno accorsero scienziati di ogni genere, dai geologi intenti a cercare anomalie nella densità terrestre ai cartografi, entusiasti all’idea di poter mappare un picco nuovo, e in crescita per giunta.
 
Quando il Risucchio diventò tale da attirare perfino qualche aspirante suicida che voleva farla finita in modo più originale dei colleghi, Don Vasinto, sindaco e parroco della città, tenne una riunione durante la quale la cittadinanza deliberò compatta in favore dell’isolamento. Al massimo si poteva far entrare qualche turista di tanto in tanto, con biglietto bello salato. Se i sanventini vivevano in cima a una montagna, era anche perché in fondo in fondo volevano esser lasciati in pace.
 
Con i turisti, i giornali, la tivù e tutto il putiferio che ne era derivato, soldi ne avevan fatti un bel po’ ormai, sicché chiusero la città intera dentro a un alto muro completamente privo di porte, portoni, feritoie, bovindi e pertugi di qualunque genere, per godersi finalmente il Risucchio in santa pace. Potevano permettersi impianti di sicurezza satellitari, droni, e quanto di meglio la tecnologia militare avesse da offrire. Ben presto anche i più tenaci smisero di provare a entrare in città; la moda passò com’era venuta e il mondo si dimenticò completamente dell’esistenza di San Ventuno, così come si era ormai dimenticato dell’esistenza del punto e virgola.
 
Adesso i sanventini escono ogni mattina dalle finestre per fare colazione al bar della Civetta. La cosa bella è che agli anziani non servono nemmeno le stampelle, gli basta spingersi con le mani contro i muri delle case e fluttuare fino alla piazza. I mobili hanno rinunciato a legarli a terra, troppo faticoso: li tengono sul soffitto. I giovani hanno le spalle larghe e sembrano più scimmie che persone, d’altra parte i sanventini sono sempre stati famosi per le coltivazioni di finocchietto selvatico e lavorando i campi c’è da tenersi attaccati all’aratro tutto il giorno per non volar via. Inseguendo l’obiettivo dell’autosufficienza energetica hanno provato a sfruttare il Risucchio per produrre energia con delle turbine a spazzatura, montate sulla cima della montagna e alimentate dal fiume costante di roba che ogni giorno lascia la città per essere risucchiata in alto nel cielo a velocità sempre più vertiginosa. Quando la spazzatura è finita i sanventini hanno iniziato a scavare ai piedi del muro, dal lato interno, per portare mucchi di terra al Risucchio e continuare ad alimentare le turbine. Senonché a un certo punto, a forza di scavare e scavare, da destra, da sinistra e da tutti i lati, San Ventuno è rimasta attaccata al mondo soltanto per una radice.
 
Stamattina presto sono sceso sotto alla città con il coltellaccio che mi ha dato Don Vasinto. Dice che andranno in paradiso, e sennò comunque staranno bene, per conto loro. Così ho tagliato la radice e ho guardato San Ventuno affondare nel blu, come un’Atlantide al contrario. Quando nonna Benedetta e nonno Manuzio mi dicevano che prima o poi sarebbero volati in cielo, non me lo immaginavo così.