Tarli

Mio padre faceva il restauratore. Ed era un asso, davvero; da un mobile cadente ti tirava fuori dei capolavori che non avrebbero sfigurato nella villa di un vecchio riccone.

Gli affari giravano, guadagnava; mia madre si occupava della casa, io frequentavo la terza media e, dopo scuola, aiutavo mio padre. Stavamo bene. Finchè non arrivò l’armadio.

 

«Allora, che ne pensi Leo?» chiese mio padre, posando una mano screpolata sull’enorme catafalco che incombeva nel laboratorio.

«È… strano» risposi. Ero abituato a veder girare per casa mobili di tutte le fogge, ma uno così non l’avevo mai visto. Era un armadio mastodontico; le ante erano intarsiate con strani motivi floreali, mentre dai piantoni laterali del mobile sporgevano facce sardoniche mirabilmente scolpite.

«Secondo te che legno è?» chiese.

Mi avvicinai e picchiettai con le dita sull’armadio.

«Noce?» azzardai.

«Bravo,» rispose mio padre «non riesco a identificare lo stile però, e sai qual è la cosa più strana? L’armadio è vecchio, lo si vede dalla secchezza del legno, ma non c’è traccia di tarli. Nemmeno un buco.»

«E… dove l’hai preso?»

«Se te lo dico non ci credi.»

«Dai, dimmelo.» Sapevo che papà, di tanto in tanto, visitava strutture in disuso alla ricerca di qualche mobile.

«L’ho pescato al Sanatorio Pracatinat. Negli scantinati.»

Rabbrividii. Avevo sentito parlare tante volte di quel posto, un’enorme struttura di montagna – la prima in Piemonte – dove venivano mandati i malati di tisi “per respirare aria buona”. Per un po’ la struttura aveva funzionato, i polmoni dei malati traevano giovamento. Poi, nell’inverno del ’62, una nevicata abnorme isolò il sanatorio. Quando i soccorsi riuscirono a entrare, la prima cosa che sentirono fu puzza di bruciato. Nell’ospedale era scoppiato un incendio; pazienti e medici, bloccati all’interno dalla neve, si erano rifugiati nello scantinato. Erano morti soffocati per il fumo. Tutti.

«Dai, apriamo» disse papà.

Associo quell’istante, le parole di mio padre, al terrore, quella paura che ti fa ritirare i testicoli e drizzare i peli. Avrei voluto tirarlo via da lì, dirgli di riportare l’armadio dove l’aveva trovato. Non lo feci.

Le ante si aprirono; vidi una nuvola di polvere uscire dal mobile roteando nel laboratorio. Mio padre cominciò a tossire fino a diventare paonazzo.

«Tutto a posto, papà?» chiesi.

«Sì, sì, tranquillo» rispose affannato.

Guardammo nell’armadio. Seduto in un angolo, le ginocchia sotto il mento, c’era uno scheletro. Una creatura pelle e ossa, nuda, le costole in bella vista come una macabra gabbia per canarini.

«Oh Madonna» urlò mio padre. «C’è un morto qui dentro. Gesù!»

Mi sembrava di sognare. Eppure quella cosa era lì; solo quando le nocche di mio padre mi colpirono sul mento, mi accorsi che stavo gidando e che me l’ero fatta sotto.

Poi lo scheletro spalancò gli occhi. Due fosse nere. Ceche e impossibili. Anche papà cominciò a strillare.

Se vi dico che quella cosa si mise a parlare direte che sono pazzo, vero? Be’, parlò. Una voce che mi ricordò il rumore che fanno i tarli quando rodono il legno. Se state in una casa piena di mobili vecchi, la notte, quando cala il silenzio, si possono sentire quegli animaletti golosi che masticano e masticano.

«L’incendio è finito?» chiese, allungando un braccio simile a un’ala di pollo. Mise un piede fuori, un ventaglio di pelle e cartilagini. Non poteva essere vero. «I tarli, i tarli mi sono entrati nelle orecchie e mi hanno detto di starmene buono, che si sarebbero occupati loro di me. Li sento qui,» si toccò la pancia «che masticano e cagano e mi mangiano e mi nutrono…» Vidi rivoletti giallastri e polverosi, simili a segatura, scendegli dall’ombelico.

Fu allora che arrivò mia madre. Svenne.

Dopo fu tutto un vorticare di immagini. Mio padre che sbatteva l’anta e cospargeva l’armadio di benzina. Le fiamme. Le grida della cosa. La casa che bruciava e noi che trascinavamo la mamma in cortile.

Papà morì un mese dopo, tossendo e sputando sangue. Tisi, dissero i medici.

Tarli, dico io.

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