Utopia di verdure in salsa astratta

Sogni rivelatori capaci di cambiare la percezione che si ha delle cose. Vincitore della Terza Edizione della Quinta Era con Francesco Troccoli nelle vesti di guest star, un racconto di Fernando Nappo.

 
Rimiro con golosità il display di verdure che il cameriere mi ha appena infilato sotto il naso: lattuga, pomodori, cipolline mignon, qualche falda di peperone, mais a volontà, il tutto in una riproduzione 3D così realistica per profondità e corrispondenza cromatica che l’acquolina mi fa dolere le ganasce. Prendo l’inalatore e lo infilo: non vedo l’ora di assaporare quelle delizie. Dal piattino di servizio posto di fianco al display, recupero un boccone di sinto-chicle e comincio a masticare. Premo il pulsante start e sul display appare il collo d’una bottiglia di extravergine ligure, cento per cento taggiasche spremute a freddo, recita la didascalia: dall’inalatore mi arriva il profumo delicato, con quel vago sentore di mandorla che mi manda in solluchero. Crepi l’avarizia, premo il pulsante + sul display, ne verso qualche altra goccia e ne assaporo di nuovo la fragranza. Premo next e passo all’aceto, balsamico e DOP, s’intende, dalla meravigliosa punta acidula. Un niente di sale, per non rovinare l’alchimia, e finalmente entra in scena la forchetta che preleva due foglie di lattuga, destinazione presunta la mia bocca. Soccombo al profumo fresco e delicato della trocadero, mentre il bolo di sinto-chicle cattura e trattiene particelle di aroma che traghetta alle mie papille gustative. La falda di un peperone, giallo come un quadro di Van Gogh, mi lascia un lieve pizzicore tra naso e gola, che sciolgo subito nella dolcezza d’un paio di cipolline mignon.
L’estasi viene interrotta: nell’insalata c’è una mosca. Trattengo a stento un’imprecazione, chiamo il cameriere e, senza mascherare l’irritazione, indico l’insetto.
«Di che si preoccupa?» dice. «Tanto è finta anche quella.»
«Mi rovina comunque il pasto» replico.
Il cameriere scoppia a ridere. Guardo gli altri avventori: mi additano e ridono di me fino alle lacrime. Loro stessi sono seduti davanti a immensi display, surrogati di marmitte e insalatiere, traboccanti tridimensionali verdure digitali, pinzimoni sintetici, ortofrutti mai coltivati.
Come invitata a una festa, la verzura sintetica si anima, prende vita, trabocca dai display e si spande nel locale. Il cameriere ride più forte, gli altri continuano a guardarmi e a ridere, mentre un orto digitale s’impossessa del ristorante inglobando tavoli, suppellettili, e i clienti stessi, felici di quel congiungimento. Urlo.

 
Mi sveglio di soprassalto. La sveglia segna le sei. Di sicuro non dormirò più. Ma non importa: ho altro da fare. Salto doccia e colazione e scendo in garage; recupero la vanga che era di mia madre e vado nel vecchio orto, incolto da quando lei se ne è andata e io ho deciso che buste e surgelati potevano ben sostituire quella fatica, senza sapere che la fatica ha un sapore.
Ma è ora di ricominciare, di ripartire dalle basi. Vera lattuga, carote reali, ortofrutti tangibili e ben cresciuti.
E se una mosca dovesse tuffarsi nella mia marmitta, be’, che faccia pure una scorpacciata: sarà la benvenuta.