305

Una granata esplose a pochi metri dalla trincea. Giuseppe si abbassò di scatto e si tenne l’elmetto. Fango e detriti piovvero su di lui. Subito dopo un insistente crepitio annunciò l’arrivo delle pallottole.
«Amedeo!» urlò Giuseppe. «Chiama gli altri. Ripieghiamo!»
L’aria si saturò di urla e del lezzo dei morti. I superstiti della brigata si ricompattarono e percorsero la trincea, in cerca di una posizione meno esposta.
Giuseppe si voltò: la luminosità del crepuscolo era insufficiente per contare i compagni dietro di lui. Amedeo gli si affiancò: aveva il volto segnato da pennellate di terra impastata col sangue. Ansimava. «Gli Austriaci avanzano. Sono troppi.»
Giuseppe si guardò intorno. Il cielo era grigio, la valle divorata dalla foschia.
Altre granate caddero non molto lontano. Dalla trincea partirono spari in sequenza per rallentare l’inarrestabile avanzata dei nemici. Anche Amedeo fece tuonare il suo fedele Carcano.
«Ho trovato» disse Giuseppe. Aveva scorto il campanile di una chiesa. «Ci nasconderemo lì per riprendere fiato e pensare a una soluzione. Dillo agli altri. Ci muoviamo subito.»
Amedeo parve dubbioso. «Ci sono i 305! Arriveranno prima o poi.»
Anche lui aveva paura. Dalle altre brigate erano giunte voci di decine di uomini sollevati in aria e smembrati dalla potenza di quelle armi. «Ecco perché dobbiamo sbrigarci!» spiegò Giuseppe.
La brigata lasciò in fretta e furia la trincea in direzione della chiesa. Giuseppe si avvicinò all’ingresso a schiena bassa, seguito dai compagni ben distanziati l’uno dall’altro. Fece segno col dito di mantenere il silenzio. L’edificio era abbandonato e martoriato dalle bombe. Da quella posizione, il frastuono della guerra sembrava più sopportabile.
Entrò. Prese la lampada dalla borsa a tracolla e l’accese. La navata era una distesa di detriti e calcinacci. I banchi erano sparsi dappertutto, spezzati in più parti. Giuseppe s’inoltrò nella chiesa, pronto a ogni evenienza. Richiamò gli altri e perlustrò la zona dell’altare, anch’esso pesantemente danneggiato, e sul retro scoprì bende insanguinate e una scarpa che conteneva un piede amputato.
Alcuni compagni della brigata lo raggiunsero. Amedeo comparve nel bagliore danzante e anemico della lampada. Giuseppe si sedette su una panca intatta e si accese una sigaretta. Nell’aria si diffuse un mesto piagnucolio; qualcuno pregava a bassa voce.
Giuseppe soffiò il fumo in alto e schiacciò il mozzicone sotto lo stivale incrostato di fango. Si appoggiò contro il muro e si sentì stringere il petto. Pensò a sua madre e sua sorella. Pensò all’orrore senza fine in cui vagava da mesi. Forse non sarebbe mai più tornato a casa.
Amedeo aveva tra le mani una tavoletta di cioccolato. «Ce la faremo?» chiese senza rivolgersi a qualcuno in particolare. Giuseppe gli rivolse un timido sorriso.
«Si avvicinano!» avvisò qualcuno di vedetta all’esterno. Giuseppe e gli altri tornarono alla navata. Gli scoppi aumentarono all’improvviso, poi un fischio spettrale annunciò il peggio.
«305!» gridò Amedeo. E fuggì.
Una terribile esplosione squarciò le pareti e scaraventò Giuseppe lontano, tra le braccia del dolore.
Si riebbe dopo un tempo indefinito. Gli doleva la testa e le orecchie gli rimbombavano, ma provava una strana sensazione di leggerezza. Si rizzò in piedi. A terra, intorno a lui, i cadaveri dei compagni. Barcollò fino all’uscita. Fuori c’erano il sole e Amedeo che lo attendeva sorridente, il volto sgombro da ogni sporcizia.
«Ascolta…» gli disse. «Che bel silenzio.»
«Che è successo?» Giuseppe non poteva credere che i rumori della guerra fossero scomparsi di colpo.
«Sono arrivati i rinforzi. Gli Austriaci sono in fuga. La battaglia è finita. Come ti senti?»
Giuseppe trasse un lungo respiro. L’aria odorava di… primavera. Tutto il peso della paura si era sciolto. La sua anima era in pace. «Siamo vivi?»
Amedeo si strinse nelle spalle. «Non lo so. Ma possiamo fare una prova.» Gli si avvicinò e gli porse la tavoletta di cioccolato, mezzo scartata.
Giuseppe la prese e diede un morso.