Abitudini

Quinto classificato nella Livio Gambarini Edition, 146° All Time, un racconto di Gabriele Dolzadelli.

 
Cesare arrivò al portone della sua palazzina. Fece fischiare i freni della sua bicicletta arrugginita e scese. Non si era potuto permettere un lucchetto, così, come ogni giorno, la sollevò e la trascinò su per le scale, per cinque piani, fino al tetto a terrazza. Si fidava abbastanza dei suoi vicini, anche perché nessuno di loro si sarebbe preso la briga di portarla di nuovo giù, per quel che valeva.
«Va’ all’Inferno, Cesare» disse a bassa voce.
Tutto sudato, aprì la porta del suo appartamento, su cui il precedente inquilino, o qualcuno prima di lui, aveva appiccicato la figurina di van Basten. C’erano anche delle firme intagliate nel legno, ma Cesare non era mai riuscito a decifrarle.
Una volta dentro, l’odore di muffa lo fece sentire a casa. Sfilò dalla tasca della giacca scolorita, due candele di cera, regalo di un amico apicoltore. Le mise sul tavolo, accanto alla scatola di fiammiferi, perché a breve avrebbe fatto buio e da quando gli avevano tagliato la corrente, era diventato difficile cucinare. Cucinare. Per modo di dire. Alla debole luce della fiammella, Cesare aprì una scatoletta di Simmenthal e vi appoggiò accanto una carota. Una forchettata alla gelatina e un morso all’ortaggio. Tra una sbocconcellata e l’altra gli sfuggiva a denti stretti un: «Va’ all’Inferno, Cesare.»
Una volta finito, l’uomo andò in bagno. Sollevò il coperchio della tazza e trattenne il respiro, perché dentro c’erano i suoi escrementi degli ultimi quattro giorni. Ve ne aggiunse di nuovi e richiuse, senza tirare l’acqua. Anche quello era risparmio.
«Va’ all’Inferno, Cesare.» Questa volta era stata la sua immagine riflessa allo specchio a dirglielo. Cesare fu tentato di aprire il rubinetto del lavandino e sciacquarsi il viso sporco, ma riuscì a trattenersi. «No, no, no» disse scuotendo il capo, mentre camminava verso la camera. Soffiò sulle candele, le spense, e si coprì con la coperta del cane del vicino, recuperata dagli ingombranti. Si chiese perché buttarla via, quando era così soffice e calda. L’odore di pelo bagnato neanche lo sentiva, mentre dormiva. Difatti, per tutta la notte, nemmeno se ne accorse.
Quando si svegliò la mattina, fu convinto di aver sentito una voce dire proprio quelle parole: «Va’ all’Inferno, Cesare.» Forse l’aveva sognato o forse no. Ormai era diventato un mantra.
Non si cambiò neppure, anche perché non aveva nulla con cui cambiarsi. Si sfilò giusto la felpa e l’appoggiò al parapetto della finestra cinque minuti, il tempo di arieggiarla. Poi la rimise e si avvicinò alla cassettiera. Quando aprì il secondo cassetto, c’era soltanto una busta aperta, con un paio di banconote sporgenti. Le sfilò tutte e le contò. Millecinquecentoquarantatré euro. Li rimise nella busta e iniziò a ridere convulsamente.
«Vai all’Inferno, Cesare! Vai all’Inferno!» urlò alzando le braccia al cielo e iniziando a sentire le ossa vibrare. La busta finì nella tasca interna della giacca, salì sul tetto a terrazza a recuperare la bicicletta sgangherata e l’accompagnò fino al piano terra. Una volta fuori, pedalò con tutta l’energia che aveva in corpo, rischiando quasi di staccare i pedali. L’aria fresca sapeva di opportunità, di nuove occasioni. Quel giorno sarebbe stato l’inizio di un nuovo capitolo, ne era certo.
Era talmente euforico che quasi non si accorse di stare per investire un ragazzo.
«Ehi! Dove vai così di corsa?» La voce gli era familiare, doveva essere Marco, il meccanico all’altro lato della strada. Non gli rispose, ormai era lontano, alle sue spalle. Ma lo fece dentro di sé.
«Vado all’Inferno!» pensò col sorriso.
Rallentò dopo un paio di isolati, svoltò a un incrocio e si fermò davanti a una parete con un’insegna che lampeggiava anche di giorno. “Inferno”.
Cesare appoggiò la bicicletta al muro. Si rese conto in quel momento che sarebbe stato meglio andarci a piedi, perché non aveva nulla con cui legarla. Alzò, però, le spalle. Se ne sarebbe comprato una nuova e molto più bella, una volta uscito da lì.
Accanto alla porta d’ingresso, un uomo vestito elegante gli sorrise.
«Buongiorno, signor Paoletti. Prego. Solita slot machine?»
Cesare sfilò dalla tasca la busta contenente il suo ultimo stipendio.
«Certo» rispose. «Lo sa che non la cambio mai.»