Barracca!

Proprio come quando, da bambino, giocavi a nascondino.
Immobile a trattenere il fiato, a mimetizzarti tra le piante, le auto, i muretti che scavalcavi con un balzo.
E poi, di colpo, la fuga. Che il respiro diventava uno sbuffo di treno e le braccia eliche furiose ad abbracciare l’aria davanti per superare chi aveva pronunciato il tuo nome in un urlo di guerra.
Correre, volare e, infine: «Barracca!».
Il tuo canto di vittoria.
«Ma che vuol dire barracca?», ti aveva chiesto Gina la milanese.
Eri arrossito, vergognandoti una volta di più del tuo modo di parlare diverso, lontano dai modi della gente di città.
Ma laggiù, nella provincia lucana, si urlava «Barracca!» e si saltava orgogliosi sulle scarpe consumate dalla sabbia e dalla rizzada.
Ogni volta era come mettere piede sulla Luna, come scindere l’atomo, come beccare la sigla di Colpo Grosso quando i tuoi erano ormai a dormire.
E oggi, in fondo, è ancora così, nonostante i cinquant’anni. Sei ancora lì a mimetizzarti dietro una pianta.
E trattieni il fiato, immobile come quando eri per le strade del tuo paese.
Come ogni altra volta.
Ti hanno visto.
Corri, Peppino, corri!
Ti inseguono, ti implorano di fermarti, ma tu, ancora una volta, vincerai.
Percorri il lungo corridoio mentre speri che le pantofole non ti tradiscano al prossimo passo.
Ti butti sul tuo lettino e scoppi a ridere.
Ti raggiungono un attimo dopo e, con i camici scomposti, ti sorridono pazienti.
Tu raccogli il fiato che ti resta e, infine, lo spendi nel solito urlo: «Barracca!».