
Quarto classificato nella Scilla Bonfiglioli Edition, 147° All Time, un racconto di Andrea Spinelli.
Ho un cane nero, si chiama Blues. Mi bussò alla porta un pomeriggio di molte estati fa, e anche se era brutto e sporco e peloso lo feci entrare. Mi convinsi da subito che si trattasse di uno degli ultimi esemplari di mostri a quattro zampe, e che averlo sarebbe stato un motivo di vanto, qualcosa da esibire, una scusa in più per invitare le ragazze a casa e convincerle a venire a letto con me.
Ma il cane nero, Blues, aveva altri progetti. La sua presenza significò un cambiamento repentino nel mio modo di vedere le cose: con lui accanto mi accorsi che il fluire naturale della vita si era di colpo rallentato. Uscendo a passeggio con Blues iniziai a vedere il mondo come attraverso una lastra di vetro: lì fuori tutti sembravano spassarsela, a parte me; le gite in camper con gli amici, il basket, il fantacalcio, la musica e tutte le altre cose che amavo fare, improvvisamente non destavano in me più alcun interesse; Blues usò il tavolo da pranzo come cuccia e mi derubò dell’appetito; persi la capacità di concentrarmi e con essa la memoria a breve termine; mi scordai perfino di presentarmi agli appuntamenti con le poche ragazze che riuscivo a conoscere.
Blues era un uragano, un uragano violento con nomi di donne lasciate da sole. E col tempo crebbe, divenne sempre più grande, e andare da qualche parte con lui richiese sforzi sempre più enormi. Perché in ogni rara occasione mondana alla quale trovavo ancora la forza di partecipare, Blues fiutava i residui della mia autostima e la faceva scomparire. Più Blues cresceva, più avevo il timore che gli altri mi riconoscessero per quello che ero. Più Blues occupava spazio nella mia vita, più avevo paura di essere scoperto.
Passarono i giorni, i mesi e gli anni, e io divenni sempre più irritabile: l’influenza di Blues mi faceva pensare e dire cose orribili su me stesso e sugli altri; lui dal tavolo da pranzo passò a dormire nel mio letto, e mi rubò l’intimità, l’amore, il sonno; mi svegliava nel cuore della notte e mi abbaiava, e io non avevo la forza di reagire al pensiero di quanto sarebbe stato inutile ed estenuante il giorno successivo.
Avere un cane nero come Blues significa essere travolti da un’unica, immodificabile sensazione: una rabbia senza entusiasmo.
Un giorno tentai di scappare da lui senza essere visto: salii sul cornicione del palazzo e da lì provai a saltare. Ricordo il buio nero dopo quel tentativo, e poi di essermi risvegliato in un letto di ospedale, con un medico coi baffi al capezzale e Blues, sempre lui, acciambellato sulla mia pancia. Il medico mi consigliò di andare a parlare con una certa Susanna, una dottoressa che si occupava dei casi come i miei. Andai nel suo studio seguito da Blues. Lei era una donna con degli occhiali da vista quadrati e uno splendido sorriso. Mi fece sedere e mi chiese di parlarle del cane. Lui si era accucciato sotto i miei piedi e dormiva. Le raccontai tutto allora, e da quel giorno le cose cominciarono a cambiare.
Blues era sempre con me, ma stavolta il tempo giocò a mio vantaggio: col passare dei mesi lui rimpiccioliva e io ritrovavo le forze che non pensavo più di avere: iniziai a fare jogging, prima mezz’ora di corsa, poi 50 minuti, poi un’ora e mezzo senza stancarmi. E più correvo, più il cane nero faceva fatica a inseguirmi. Lo ritrovavo alla fine che mi aspettava davanti casa con la lingua a penzoloni e il fiato corto.
Iniziai a tenere un diario, il che migliorò e di molto il mio umore. Ogni volta che scrivevo, mi scordavo della presenza del cane.
Oggi Blues è grande come un chihuahua. Quando esco con lui mi sento più leggero. Ho incontrato una persona di recente e abbiamo cominciato a vederci. In uno dei nostri ultimi appuntamenti le ho detto una cosa che non avrei mai detto a nessuno prima di Blues: «Io insieme a te ho voglia di essere un uomo migliore».
Ecco perché di notte, quando voglio, dormo ancora con Blues. Perché ho capito che invece di fuggire è meglio accoglierli i problemi. Così spengo la luce e mi viene da stringerlo tra le braccia come farei con un morbido peluche.
Perché lui è e sarà sempre una parte di me. Ma non la più importante.