Dammi la pioggia

L’animo umano, questo infinito mistero… Direttamente dal Laboratorio, un racconto di Simonetta Papi.

Scendo dal letto. Osservo l’auto nera allontanarsi fino a sparire. Una pioggia decisa ingrigisce la città e il mio riflesso.
Anche quella sera pioveva.

Sei mesi fa sbattevo infreddolito i piedi sul marciapiede; la fila all’ingresso scorreva lenta, diluviava e io non avevo l’ombrello.
A un tratto due fari alti mi accecarono. Li seguii, il SUV si fermò dall’altro lato della strada. L’uomo che ne scese tenne l’ombrello calato sul viso, si diresse al distributore di sigarette e quando si girò, i suoi occhi incrociarono i miei. Ammiccai.
Lui non mi degnò di uno sguardo.
Entrato nel locale andai diretto al bar; l’alcool mi rese leggero e la droga fece da detonatore alla serata. Ballai. Sentii occhi addosso, mani addosso, richieste, voci acute nel frastuono.
Poi il cervello si fermò.
Passarono ore.
Solo quando gli oggetti colorati tornarono ad essere persone, attraversai la folla verso i bagni.
Così distinto, così adulto, così fuori posto, appoggiato alla parete c’era lui. Quello del SUV.
Misi il lucidalabbra alla cieca sulle labbra.
«Scusa?» feci sottintendendo che si spostasse.
Girò su di me due occhi assorti.
«Scusami tu, passa pure.»
Mentre lo superavo per infilarmi in bagno, lui fece di tutto per non sfiorarmi. Era intrigante, così anomalo.
Quando uscii era sparito. Guardai anche in pista, lo avrei riconosciuto. Sbuffai e guardai l’ora. Avevo due isolati da fare a piedi e più del doppio da fare in auto, quindi uscii di lì.
Pioveva ancora a dirotto e faceva maledettamente freddo. Corsi a testa china tra coppiette e ubriachi. All’incrocio una grossa auto mi ostruì il passaggio e il guidatore abbassò il finestrino.
Lui.
«Sali, dai!»
Avevo i vestiti zuppi. Feci il giro dell’auto e salii.
«Scusa, grazie.» mormorai.
Alzò le spalle.
«Non preoccuparti, si asciugherà.»
Ripartì sgommando.
Era in maniche di camicia arrotolate e i capelli erano legati dietro la nuca. Piccole rughe gli incorniciavano gli occhi; non le avevo notate nel locale.
Dove stava andando?
«Ce l’ho la macchina… era due traverse fa.» dissi accennando alla strada già percorsa.
Accostò, ma invece di fare manovra spense il motore.
Si girò e con gli occhi assottigliati fissò le mie labbra. Fissai le sue di rimando.
Si avvicinavano, quindi dischiusi le mie.
Si ritrasse.
«Ti porto alla tua auto.»
Che frase assurda! Mi voleva, ne ero certo. Mi avvicinai di nuovo e stavolta si mosse velocemente. Mi baciò a stampo, una mano dietro la mia nuca per impedirmi di interrompere il contatto. Sorrisi soddisfatto sulle sue labbra e mi aggrappai al suo collo.
Si ritrasse nuovamente.
Si picchiettò le tempie con rabbia, poi unì le mani sul volante, stringendole al punto da rendere bianche le nocche.
La pioggia era calata di intensità.
Un riflesso balenò nell’auto e allora vidi la fede all’anulare.
«Ti porto alla tua auto.» ripeté.
Rimasi stranito, così gli diedi semplicemente le indicazioni per raggiungerla. Mi liquidò con un asettico «Ciao» e io sorrisi come se la cosa non mi sfiorasse nemmeno.
Scesi, mi appoggiai al cofano della mia macchina e accesi una sigaretta. Lo avrei fatto comunque.
Tirai una boccata e aspettai. Un’altra e aspettai.
La macchina si mosse.
Mi passò oltre, pensai di aver frainteso, ma accostò a un muro e si spense nel buio.
Gettai la cicca e mi avvicinai. Mi ritrovai con la pancia spinta contro il portellone.
«Io dovevo andarmene.» disse dentro i miei capelli.
Mi voltai in quello spazio stretto.
Non fui io a baciarlo per primo.
Gli sussurrai di toccarmi, allora.
Strattonò i miei calzoni stretti lungo le cosce.
«Dimmi come ti chiami.»
Non ce l’eravamo già chiesti?
«Leo.»
Prese a sussurrare il mio nome, mentre mi spogliava.
«E tu?»
«Io cosa?»
«Come ti chiami?»
La miglior scopata notturna della mia vita.
«Leonardo.»
Aveva il mio stesso nome anagrafico.
Ricomposti, mi aspettò dentro l’auto.
Salii e l’occhio cadde sul cerchio d’oro.
«Sei sposato?»
«Sì.»
«Sei gay?»
«Sì.»
Aprii la bocca ma non dissi nulla. Guardai l’ora, dovevo andare a casa.
«Se ti va possiamo rifarlo.» sfiatai sinceramente.
Non mi rispose. Mi fissò.
Scesi dall’auto e camminai veloce per andarmene in fretta, ma lui mi corse dietro.
«Mi dispiace, tu non puoi capire.»
Gli risi in faccia.
Continuò a seguirmi e mi girai di scatto, ma il suo sguardo mi disarmò.
«Se dovessi tornare non farti trovare, promettimelo.»
Risi di nuovo.
«Non ti libereresti di me.»
Era molto serio.
Salii nella mia auto e corsi via.

Mi allontano dal vetro, ormai è inutile stare qui. Mi chiedo se ti rimarrà mai qualcosa di me.
Tu mi hai insegnato a vivere.

Lui non tornò. Io tornai lì per mesi.
Quando mi fui stancato anche della rabbia per averlo aspettato, ripresi la mia vita di sempre.
Un giovedì cedetti a un ragazzo sudamericano, con occhi neri e il sorriso scintillante. Gli lasciai dire schifezze alle mie orecchie. Mi lasciai imbrattare di saliva alcolica.
Mi sbatté al muro, letteralmente, quando fuori decidemmo di dare un compimento degno alla serata.
Poi cominciò a mordermi, ma troppo forte.
Protestai e mi trovai le sue dita in bocca. Spalancai gli occhi, mugolai tentando di parlare, ma non ci riuscii.
Sentii la cintura di pelle cedere. Aveva usato un coltellino.
Cominciai a sudare freddo.
Mi dimenai quando tagliò la camicetta lasciandomi la schiena nuda. Cominciai a pregare quando sentii la punta del coltello sulla pelle.
Lui che strattonava a forza i miei pantaloni.
Il tessuto duro mi bruciò la pelle.
Poi ci fu un sacco di luce.
«E questo chi cazzo è?»
Si staccò da me; due fari ben piantati nelle iridi.
L’auto sgasò in avanti, poi sgommò all’indietro e poi di nuovo in avanti.
«Hai anche il protettore, stronzo? Ma VAFFANCULO!»
Restai a guardare il punto lontano in cui sparì.
Poi sbattei la schiena al muro e scivolai fino a trovarmi seduto a terra.
Le luci si spensero.
Non mi stupii quando Leonardo scese dall’auto e mi raggiunse sull’asfalto.
«Cosa ci fai qui?»
«Evito che tu ti faccia rovinare dai poco di buono.»
Si sfilò la giacca e me la fece infilare.
Alzai gli occhi.
«Cosa ci fai qui?» insistetti.
Mi fissò a sua volta e poi abbassò lo sguardo.
«Vieni, su.»
Le gambe mi tremavano. Mi aiutò a salire.
«Vuoi andare al pronto soccorso?»
«No.»
Guidò nel silenzio. Attraversammo piazze, ponti. Entrò in tangenziale.
Io, esausto, mi addormentai.
Quando aprii gli occhi stava albeggiando. Sceso, istintivamente annusai l’aria.
«Dove siamo?»
«Al mare.»
Varcò il cancello di una villa e lo richiuse con un pesante catenaccio. Fui tentato di chiedergli se fosse sua, ma era palese.
«Il bagno è la terza porta a sinistra.»
Gli chiesi di poter fare una doccia e spensi il getto solo quando ebbi la sensazione che il mio corpo fosse tornato pulito. Mio.
Uscii dal bagno a torso nudo e a piedi scalzi. Lui mi dava le spalle seduto su un divanetto.
Si voltò sentendomi tornare e alzò lo sguardo su di me.
Entrambi ricordavamo molto bene cosa aveva detto.
Mi avvicinai, l’asciugamano credo si sfilò e cadde a terra. Non ricordo cosa ci fu in mezzo, tra quella scopata, quella successiva e quella ancora dopo.
Quando cercai il mio orologio a terra di fianco a me, era mezzogiorno inoltrato.
Poi un suono.
Dapprima discreto, poi sempre più invadente e fragoroso. Il cellulare ripeté due volte il richiamo.
«Pronto.»
Rispose a monosillabi e interruppe in fretta. I suoi occhi non si erano staccati dal mio corpo rilassato a terra.
«È meglio tornare?» mi affrettai a chiedere per toglierlo dall’imbarazzo.
«Sì, ho impegni nel pomeriggio.»
Ci rivestimmo in pochi minuti e restò lì, a guardarmi mentre mi ripassavo la matita sotto gli occhi.
«Anche di giorno ti trucchi?»
«Sempre.»
Ci fissammo attraverso lo specchio.
«Voglio rivederti.»
Si incupì e strinse le labbra.
«Va bene.» disse infine.
Il viaggio di ritorno fu fin troppo corto. Mi feci lasciare alla stazione della metro.
«Sabato ci vado alle undici.»
«Sabato va bene.»
Mi resi conto solo quando la macchina sparì, di aver addosso una sua maglietta.
Mi preparai con meticolosità per il sabato. Ero deciso a vestirmi più sobrio per lui.
Quando lo vidi nel parcheggio del locale mi parve una visione: vestito più appariscente per me.
Si fermò a pochi centimetri dal mio viso.
«Ti va se andiamo altrove?»
I suoi occhi sorridevano.
«Certo.» risposi felice.
Ci avevo sperato, che quella serata si rivelasse più di una sicura scopata nella dark-room.
Il SUV nero percorse i viali fino a un pub. Entrammo in un’atmosfera soffusa.
«Qui si fanno tutti gli affari loro.» sussurrò.
Sollevai un lato delle labbra e lo seguii al piano superiore. Intimo.
I drink arrivarono in fretta e mentre io mescolavo a vuoto la cannuccia, fu lui a rompere il silenzio.
«Parlami di te.»
Gli parlai di mia madre, di casa mia, del mio cane e dell’Accademia. Arrivati a “poi vado a ballare la sera”, c’era poco altro. Eppure lui indagò. Mi infervorai, parlando della moda; mi scoprii interessante agli occhi di un profano dell’ambiente.
Ridemmo tanto. Quando ormai i secondi bicchieri di entrambi furono prosciugati decidemmo di uscire.
Fu naturale mettere la mano nella sua.
Naturale cadere sulle sue labbra.
«Vieni da me.»
«Sì.»

Sai qual è la verità? Che più ti penso e meno riesco ad odiarti. Esco dalla stanza tirandomi dietro la porta.
Diluvia e io non ho l’ombrello.

Parcheggiò in un garage e poi mi trascinò con sé. Gli avvolsi il collo con un braccio e mi incollai a lui. Una porta si aprì.
In una qualche stanza, di un qualche palazzo, da qualche parte.
I nostri baci cambiarono cadenza. Amore.
Qui dentro facemmo l’amore.
Poi, mi accucciai contro di lui e lui mi accolse. Strinse la mia spalla e la fede brillò.
Deglutii acido e mi irrigidii.
«Tua moglie dove vive?»
«Stiamo a Padova.» mi rispose, correggendo il tiro.
Incassai.
In quel momento esatto decisi di non affrontare più l’argomento e di chiedergli altro.
Questo posto era della ditta, ci si appoggiava quando stava a Milano, di norma i primi quindici giorni del mese. Non aveva figli.
Mi accompagnò a casa che erano quasi le quattro del mattino.
Ci saremmo rivisti, lo volevamo entrambi.
E così fu.
Ore ed ore a fare sesso, dormire e ridere.
Tutto perfetto, salvo la parte in cui lui ogni volta avrebbe dovuto dirmi che stava lasciando sua moglie per me. Non successe.
Non accadeva mai.
Dopo due mesi gli sussurrai che lo amavo. Mi chiese di ripeterglielo e io lo feci. I miei occhi diventarono enormi.
Non rispose di amarmi anche lui e il mio cuore gridò vendetta. Mi strinse il viso tra le mani e baciò via una lacrima, ma non bastò.
Nei mesi successivi divenni insopportabile.
Trucchi e scenate per impedirgli di tornare a casa quando doveva.
Ho fatto di peggio l’ultima volta.
Ho toccato il fondo.
«SE TU L’AMASSI NON SCOPERESTI CON ME! Dov’è poi, lei, eh? Non gliene frega un cazzo di te!»
Mi tornò dieci volte indietro.
In uno schiaffo dritto in viso.
«Non ti permettere mai più, ragazzino.»
Mi massaggiai la guancia, ma non protestai.
Radunò le sue cose per andarsene e riuscì a fermarlo solo sulla porta, supplicandolo, piangendo e tirando le sue braccia. Si girò verso di me.
Volevo risposte ridicole.
«Perché la ami così? E’ una donna e TU SEI GAY! AMI ME! Perché non ammetti che ami me?!»
Implorare l’amore fu il fondo. Provò compassione, credo.
Batté gli occhi una volta e li puntò nei miei, come se dovesse colpire un bersaglio molto piccolo.
«Non sai di cosa parli. Lei è il mio posto nel mondo.»
Sentii un tonfo sordo.
Strinsi le labbra, incapace di dire altro. Il solo tono che aveva usato cambiava tutto.
Qualsiasi cosa avessimo io e lui, e l’avevamo, non sarebbe mai bastato.
Uscì dalla porta, ma non potei sopportare di perderlo così.
Qualche ora dopo racimolai il coraggio di scrivergli.

Fui spietatamente sincero e ne fui ricompensato.

Ovviamente accettai.
Sapevamo entrambi come sarebbe andata a finire oggi, perché è così che doveva finire.
Ci siamo presi, ci siamo dati, per l’ultima volta.
Allora, ho potuto lasciarlo andare con una carezza.
La carezza al primo uomo che ho amato.
E che mi ha amato.

Corro a testa china verso la pensilina del tram. Prendo una botta violenta. Alzo gli occhi, mi scuso, ma il ragazzo mi dice che è stata colpa sua. Mi fa spazio sotto il suo ombrello e ride.
Si chiama Antonio, sai? Ha un sorriso bellissimo.