Dimenticanza freudiana

Il taxi che mi portava in tribunale si chiamava Milano Tre. Era una Opel bianca guidata dal sosia dell’ispettore Callaghan. I suoi occhi, stretti a fessura, ogni tanto mi interrogavano dal retrovisore.
Mentre andavamo mi squillò il telefono. Guardai lo schermo, era mia moglie.
Risposi.
“Mi si è rotta la macchina” la sua voce era più gentile del solito. “Puoi passare a prendermi?”
“Certo.” Feci un segno all’autista. “Può fare una deviazione per Via Efeso?”
Callaghan annuì e sterzò verso sinistra. Tornammo indietro fino a casa di Maia. La trovammo giù al portone: indossava un vestito lungo a fiori e si era anche truccata.
Entrò in macchina e mi sedette accanto. “Ciao.” Aveva tra le mani una ventiquattrore di pelle.
“Che c’è lì dentro?”.
“Le carte del divorzio. Sei pronto a firmarle?”
“Più o meno.”
“Bene, andiamo.”
Callaghan diede gas e il taxi ripartì in direzione centro. C’era traffico e procedevamo a passo d’uomo. Io guardavo fuori dal mio finestrino, Maia dal suo.
“Ecco. Lì ti ho portata a cena la prima volta,” indicai l’insegna di un posto che si chiamava La Mansarda. All’interno si intravedevano tante fotografie in bianco e nero appese alle pareti. “Te lo ricordi, Maia?”
Lei lo guardò con aria distratta. “Vagamente.”
“Mangiammo arrosticini e trippa alla romana. E facemmo un gioco bellissimo. Tu praticamente copiavi tutto quello che facevo io. Se spostavo il bicchiere, tu spostavi il tuo; se mangiavo con le mani, tu mi imitavi; se mettevo la forchetta nel…”
Lei scosse la testa. “Che cazzo di memoria, Claudio.”
Mi strinsi nelle spalle. “Eri così bella quella sera.”
Maia abbassò lo sguardo sulla valigia che teneva in grembo. “Beh, ormai è acqua passata.”
“Potremmo riprovare.”
“Non essere ridicolo.”
Spostò la ventiquattrore sul sedile. Con le mani si tirò giù il vestito che le era risalito verso l’imbocco delle cosce. “Accidenti, perché non camminiamo?”
Guardai Callaghan dal retrovisore. “Può prendere un’altra strada?”
Lui annuì, sterzò e imbocco una strada che costeggiava il fiume.
“Lì ti ho baciato la prima volta” le indicai un edificio a forma di piramide.
“Davvero?”
“Eravamo andati a vedere la mostra su Faber. E io ti mostrai una teca che conteneva uno dei suoi spartiti.”
Maia si rimise la valigia sulle gambe.
“Si chiamava Dolcenera.” Mulinai l’indice nell’aria. “Come fa questo amore che dall’ansia di perdersi ha avuto in un giorno la certezza di aversi.”
Lei alzò il mento. “Embè?”
“È una delle strofe della canzone.”
Lei scosse di nuovo la testa.
Il taxi superò una serie di ponti fluviali. Passammo di fronte a un hotel con i balconi rococò.
“Lì è stata la nostra prima volta.”
Maia aggrottò la fronte. “Facevamo anche sesso io e te?”
“Prenotai una suite con l’idromassaggio. Fu la notte più bella della mia vita.”
Lei rimise la valigia sul sedile. “Penso che l’amore finisce perché ne dimentichiamo le origini.”
Annuii. “Io ricordo molte cose.”
“Lo vedo.”
“Ricordo che ti amavo e che tu mi amavi e che il nostro amore era…”
Lei alzò gli occhi al tettuccio. “Oddio che palle, Claudio!”
Mi voltai verso Callaghan . I suoi occhi a fessura, riflessi nello specchietto, mi incitarono a non pensare.
“Ricordo anche un’altra cosa, Maia.”
“Cosa?”
Le feci l’occhietto. “I tuoi pompini.”
Lei soffocò una risata e si voltò verso il finestrino. Rimasi in attesa di un’altra reazione. Lei si girò di nuovo verso di me. “Ero brava?”.
Annuii. “Eri meglio di Nikita Denise.”
“E chi è?”
“Una grande attrice.”
Scoppiamo a ridere. Fu un bel momento perché lei mi poggiò la testa sulla spalla.
Il taxi si fermò davanti al tribunale. Pagai Callaghan e scendemmo. L’Opel bianca ripartì lasciandosi dietro una nuvola di gas.
Salimmo le scale che conducevano alle aule di udienza. Lei era bella, il suo vestito a fiori la slanciava come una giraffa. A metà ascesa le toccai una spalla.
“Sei sicura di volere il divorzio?”.
Maia si bloccò e si mise una mano davanti alla bocca: “Oddio!”.
“Che c’è?”
“La valigia!”
“Cosa?”
“Ho dimenticato la valigia in taxi.”
Ci guardammo per un lungo istante, poi scoppiammo di nuovo a ridere.