Fantasma

Quinto classificato nella Sara Bilotti Edition, 145° All Time, un racconto di Giacomo Puca.

 
– Driiin
Se sono i testimoni di Geova, giuro che li uccido. «Amo’ vado io, eh.» Beata lei che non sente mai un cazzo.
Mi alzo, scalcio via una lattina vuota di Beck’s, chiudo la porta della camera, metti che è qualche arrapato.
– Driiin
«Arrivo, arrivo.» Faccio due gocce nel water, mi asciugo il coso con la mano. Vado in cucina, che poi è anche salotto e pure ingresso, apro la porta.
«Mi dispiace svegliarla a quest’ora,» l’anziana porta il cappotto sul pigiama, i capelli ancora sfatti dal cuscino, «le devo parlare.» Sembra abbia visto un fantasma.
La signora Verin, mia vicina in questa topaia per single e vedove.
Le porgo la mano sporca, lei la stringe. Ben ti sta per rompere di domenica.
La faccio accomodare, metto su il caffè.
 
«Allora?» Sprofondo nella poltrona, poggio la tazza fumante al posto accanto.
La donna, seduta su una sedia di fronte a me, assaggia il caffè, fa una faccia disgustata.
«Eh, fa schifo.» Le porgo una fiaschetta nera, «Lo aggiusti con la grappa.»
La donna fa cenno di no, io verso nel mio. Cinquanta e cinquanta è la dose giusta, come diceva papà.
«Ho bisogno di un favore.»
Mando giù un sorso. Niente da fare, è merda pure con la grappa. «Veloce, che io avrei da fare,» accenno alla porta della stanza da letto.
«Il fatto è che, ecco,» l’anziana poggia la tazzina tremolante sul tavolo, «in casa mia c’è un fantasma. Il fantasma di mia figlia.»
«Che?!»
L’anziana sospira, «Non sto dicendo che sia vero. Lo psichiatra dice che è per lo stress.»
Finisco di scolare l’intruglio. «Ma perché, l’avevate ritrovata?»
La Verin guarda a terra. «No, non l’hanno ancora ritrovata, sono due mesi ormai,» si mordicchia un’unghia, «il dottore dice che qualcosa di me la dà per morta, per quello la notte vedo il fantasma di Valeria.»
«Io sedute spiritiche non ne faccio.»
«Vorrei scambiare appartamenti,» fa stridere il cucchiaino nella tazzina vuota, «ho troppi ricordi a casa, ma non posso permettermi nient’altro che questo posto.»
«Mi piacerebbe eh, ma non ho tempo.»
La Verin si guarda attorno, perplessa. «Le faccio recuperare il tempo cucinandole, oppure faccio il bucato.»
Ah! «Sei mesi.»
«Come?»
«Bucato, pranzo e cena per sei mesi, e io faccio cambio casa. E mi serve una mano per le cose pesanti da spostare.»
La donna si alza, arriccia le labbra.
Le faccio più schifo del caffè.
«Va bene. Quando?»
Mi alzo, porgo la mano sporca, «Domani, tempo di impacchettare tutto.»
Esce, senza salutare.
Certo che i vicini strani me li becco tutti io.
 
«E uno, e due, e …»
Io e il nipote della Verin solleviamo la cassa.
«Issa!»
La cassa che pende tutta dal mio lato, passiamo sul ballatoio assolato ed entriamo nella mia nuova casa.
L’ex casa della Verin.
È identico al mio, solo che è tipo tutta girato, come che il muro che ci divide è uno specchio. Invece di odorare di grappa e Beck’s, puzza di vecchi e brodino.
«Abbiamo finito?» Roberto è sulla porta, braccia incrociate.
«Tutto fatto, vado a salutare la signora.»
 
La signora Verin, di spalle, strofina il mio vecchio gas. La mia vecchia casa odora solo di candeggina.
«Dai che stasera dorme, signo’.»
La donna si gira, fa un mezzo sorriso, torna a lavoro.
«Stasera verso le otto va bene se passo a prendere la cena?»
La donna annuisce, senza girarsi.
«E lascio i panni sporchi.»
Annuisce ancora.
 
Le pareti di casa mia sono zeppe di foto di Valeria. Labbra sottili, capelli biondo cenere. Gran gnocca.
La vecchia mi ha chiesto se poteva lasciare la roba della figlia in casa, che era più facile per non pensarci troppo. Non potevo chiedere di meglio.
Stacco una foto dal muro: Valeria davanti ad una torta con scritto “ventisei”.
Scavalco i pezzi della cassa, coi chiodi che spuntano, e vado a sedermi sul divano, vicino a Vale.
«Scusa amò per la cassa,» le sfioro i capelli biondi, «però non sapevo come fare.»
Le mostro la foto.
«Vedi che bel lavoretto ha fatto l’amico mio. S’è preso mezzo chilo di hashish, ma t’ha imbalsamato una bellezza e non ha fiatato.» A tastoni tra i capelli seguo la linea di una cicatrice invisibile.
Solo io so dove sta.
Solo io so come te la sei fatta due mesi fa.
La sveglia trilla. Mi alzo.
«Sono le otto amò, devo andare a pranzo da tua mamma. E per favore,» bacio le labbra sottili, «stanotte non andare a spaventarla, che sennò mi tocca fare di nuovo cambio.»