Il candidato

Regole o non regole? Questo è il problema… Terzo classificato nella 106° Edizione di Minuti Contati con Piero Schiavo Campo come guest star, un racconto di Mario Pacchiarotti.

 
«Prego dottor Bruni, si accomodi, appena possibile il dottor Galvi la riceverà.»
Antonio sorrise alla giovane segretaria e si sedette sul basso divano di pelle. Era molto teso ma cercava di non darlo a vedere. Un’occasione unica, un’occasione più unica che rara. Continuava a ripeterselo, come un mantra.
Guardò la parete dietro alla segretaria, dove campeggiava quel logo tanto ambito. Non posso farmela sfuggire, calma Antonio, calma. Richiamò alla memoria tutte le sue esperienze: colloqui, corsi di formazione, libri. Aveva bisogno di ogni sua risorsa.
Aveva sentito parlare di interviste assurde, trappole verbali, trucchi, ogni sorta di sfida per mettere alla prova la tenacia dei selezionati. Alcune storie erano di certo solo leggende. Difficile discernere la verità dalle invenzioni di un candidato trombato.
«Dottor Bruni?»
Sobbalzò. Preso dai suoi pensieri non l’aveva vista arrivare e ora si trovava davanti quelle lunghe gambe che torreggiavano su di lui. Alzò gli occhi e incontrò uno sguardo gelido.
«Tocca a lei. Il dottor Galvi la attende. Mi segua.»
La ragazza roteò come un soldatino e la gonna svolazzò leggera e morbida. Lui si alzò senza grazia, preoccupato dal pensiero di poter essere arrossito. Cercò di riprendere il controllo mentre seguiva a fatica la ragazza, che marciava spedita.
Attraversarono un paio di open space, infine la segretaria si fermò di fronte a un corridoio.
«La lascio qui. Prosegua da quella parte» disse, indicando una porta bianca, proprio in fondo. L’unica, in quel tunnel incolore.
«Grazie» le rispose lui. Fece per porgerle la mano, ma lei aveva già fatto dietro front e volava via. Si riscosse e si avviò a passo lento verso la porta. Si guardò intorno. Il lungo corridoio era spoglio; la luce veniva dai bordi del soffitto, forte e fredda. Gli dava un senso di disagio. Infine arrivò dinanzi la porta. Prese fiato, si aggiustò il vestito, poi bussò con delicatezza.
Nessuna risposta.
Contò i secondi. Ne contò venti prima di riprovare, con appena più vigore.
Era un ‘avanti’ quello? Scosse la testa, non ne era sicuro. Aspettò ancora. Un minuto, forse due.
Che fare? Bussare ancora? Magari Galvi stava rispondendo a una chiamata. Avrebbe fatto una figura di merda entrando senza il suo benestare. Non poteva iniziare con una gaffe. Aspettò ancora. Lunghi minuti.
Un tarlo lo riscosse. E se Galvi fosse stato duro d’orecchi? Poteva essere. Lui stesso quando era concentrato non percepiva i richiami. Magari Galvi si stava chiedendo come mai lui non era ancora arrivato. Lo immaginò che chiamava la segretaria: «Ma il dottor Bruni?» «Non è lì da lei dottore?» «Qui non si è visto.» «Strano, l’ho accompagnato lì 10 minuti fa…» Inorridì al pensiero e preso dal panico bussò violentemente alla porta.
Nessuna. Risposta.
Non poteva essere. Stavolta doveva per forza averlo sentito. Se fosse stato occupato avrebbe pur potuto dare una voce, no? Non gli restava che una cosa da fare. Bussò di nuovo, in maniera più discreta e, presa la maniglia, aprì ed entrò.
«Mi scusi dottor Galvi, non sono sicuro di aver…»
Un corridoio. Lungo, bianco, identico al precedente.
«Merda!»
Perché non ci aveva pensato? La porta non si apriva sulla stanza di Galvi, ma su un corridoio che lo avrebbe portato a quella. Lo percorse quasi correndo, fino alla porta, e di nuovo bussò, deciso. Poi trattenne il fiato in attesa di un segnale di assenso.
Niente.
Sentì la palpebra sinistra cominciare a vibrare. Gli salì acido alla bocca, quel maledetto tic, non lo tormentava da mesi, perché proprio ora? Esitò nella speranza che smettesse, senza risultato. Bussò ancora ed entrò.
Una stanza quadrata. Tre porte. Bianche.
Era un cazzo di test. Maledetti bastardi, un tranello. Cercò nella memoria tutti i dannati scherzi che quei coglioni facevano durante le selezioni. C’era qualcosa con le porte? Gli pareva di sì, ma non riusciva a concentrarsi, a ricordare che doveva fare. Forse era una sfida nuova di zecca, solo per lui. Pezzi di merda, non gli bastava un curriculum che spaccava il culo ai passeri, no, volevano metterlo alla prova con un giochetto creato da uno psicologo impotente.
Tremando per i nervi ripercorse i principi aziendali, le policy, i motti. Li aveva tutti imparati a memoria. Ecco, aveva trovato: ‘In cauda venenum’ era uno dei motti. Scartò la terza porta. La terza? O forse la prima? ‘Bilanciare gli impegni’ diceva un altro slogan. Quella di mezzo, deve essere quella di mezzo.
Con passo incerto si avvicinò alla porta, diede un paio di deboli colpetti; la aprì; entrò.
Era in una stanza grande come la precedente, alla sua sinistra una porta bianca, chiusa; sulla parte di fondo una scrivania sulla sinistra e una porta di legno scuro sulla destra, con su scritto ‘Galvi’. Dietro la scrivania c’era la segretaria che lo squadrava. La ragazza scosse la testa e batté il dito sull’orologio.
«Ventotto minuti, dottor Bruni.»
Antonio si sentì morire.
«Quella è la sua porta» aggiunse lei, indicando la porta bianca.
«Bastardi» mormorò Antonio, poi aprì la porta, e uscì in strada.