Il mese più crudele

Hai visto il vetro rotto, un gomito secco e marrone cercare di allargarsi un varco nel bovindo del salotto, poi l’orda. Ti sei chiesta: è così che succede? Eri pronta a morire, nel tuo letto e con la boule dell’acqua calda. Non sbranata.
Da allora sogni, sogni al rallentatore, in equilibrio tra il sonno e la veglia, in un brodo tiepido da cui vedi solo ombre. Ti accorgi che lì in mezzo a quel brulicare c’è anche la tua, di ombra. Vedi il tuo corpo, una sagoma tracciata a carboncino, dolce e lenta come le altre che hai attorno. Provi a farlo tornare da te, ma non sai come chiamarlo. Ma non importa davvero.
Eccola, dottore, ci siamo!
Noti che la luce è sempre lontana dalla portata delle tue braccia e ti fa venire l’acquolina. La luce è vita. Capisci che se non ti stacchi dal gruppo non riuscirai mai a morderla. I tuoi fianchi dondolano e alzano onde nel buio liquido in cui sei immersa. Non puoi ancorarti, tanto vale nuotare e nutrirti. Queste sono le tue uniche preoccupazioni: acchiappare la luce e sentire la pancia piena. La luce trilla e gorgoglia, succosa. Le tue gengive sdentate godono della sua pulsazione. Sei tornata piccola.
Si è aperta un varco, sta uscendo.
Passano anni, pochi, un lungo niente per te. Una mattina arriva la pioggia senza nuvole, in pieno sole. Piccole sfere di freddo sulla tua pelle scura e callosa. Ti ritorna una parola estranea: “nebulizzazione”. Un rombo forte, di nuvole scassate; sopra di te una libellula gigante ferma nell’aria. È lei che fa piovere addosso a te, a tutto lo sciame. Vedi una cosa nera che ti corre dietro: è la tua ombra che vuole rientrarti dentro. Cadi mentre scappi.
Coraggio, è quasi fuori.
Eri un bulbo, nel tepore della terra morta, ma la pioggia di aprile ti farà rifiorire. Mani premurose e guantate ti prendono, ti legano, ti tirano su. Uno di quelli antichi, annerito forte, ti guarda attraverso mentre succhia una testa fresca e rosa al riparo di un gabbiotto dell’autobus. Lo chiamano “non morto” e ti schiacciano addosso unghie calde, mani bollenti. Cerchi la tua ombra invano, ma trovi la parola “elicottero”.
L’antidoto funziona, è iniziata la muta!
Dall’alto vedi anche gli altri scappare, perdere pezzi, calpestarli. Poi vedi una scena brutta della tua vita, l’ultima: senti il sudore, le urla, l’urina dentro le calze elastiche, i morsi senza denti che ti strappano pezzi di carne. Rivedi la scena ancora, con te che sembri una briciola in un formicaio e Gianfranco che lascia cadere il bastone cercando di tenersi dentro l’intestino. Poi un morso, ed eccoti a fare i balli di gruppo in un villaggio turistico di ombre, senza più problemi. Dimentichi chi sia quell’ammasso di budella col bastone accanto.
Che tempra, signora. Mi sente?
Cadi fuori dalla tua buccia secca, sopra un lettino d’ospedale. Le tue rughe come nuove, scartavetrate dall’aria, le pieghe fresche della pelle appiccicate alle lenzuola. Ora sei sveglia: hai di nuovo un corpo, i vocaboli, la sintassi, un marito da piangere. La luce è dappertutto, ma non hai più voglia di morderla. Ritrovi la tua ombra: un involucro mummificato ammucchiato per terra come un abito liso, con i tuoi lineamenti.
Tutti gli altri sono morti. Intendo… definitivamente. È stata fortunata, sa?
Alla tua età, con la tua tempra, potresti addirittura avere ancora una decina d’anni davanti. Questa non si chiama fortuna. Glielo vorresti dire, invece vomiti. Loro, passati dalla morte al sonno eterno in uno schiocco di lingua. Ci pensi, mentre ti asciughi la bava e le lacrime col braccio. Non sai spiegarglielo, che avresti voluto rimanere così, a ballare un lento con quel poco che restava di te. Sono tutti troppo felici.