Il piede

Quando me lo disse la prima volta, non gli credetti.
Ero appena entrato nel carcere di Sollicciano e Claudio, uno dei miei tre compagni di cella che stavo per conoscere, si fece incontro per darmi il suo benvenuto. Avevo temuto questo momento fin da quando il giudice aveva emesso il verdetto di colpevolezza, condannandomi a otto mesi di prigione. Pregavo nell’aiuto della fortuna, io che non avevo mai pregato nemmeno Dio in vita mia.
Non puoi mostrarti debole o remissivo, mi dicevo, ma certo non puoi permetterti di fare lo spaccone o il finto duro con gente che conosce la violenza come unico linguaggio.
Non ero un criminale, io. Ero finito dentro per aver investito e ucciso un vecchio in bicicletta, mentre ero al volante della mia auto. Non lo avevo certo fatto apposta, ma al giudice questo non era interessato. Si era impuntato sul tasso alcolico e sulla presenza di tetraidrocannabinolo nel sangue e non aveva voluto sentire ragioni. Il mio avvocato aveva salutato come un successo incredibile la sentenza, dal momento che la richiesta dell’accusa era stata di tre anni.
E sì cazzo, otto mesi sono davvero una vittoria rispetto a tre interminabili anni, ma sono io che marcisco, lotto e mi spacco letteralmente il culo qui dentro da cinque settimane.
Sembra un secolo, soprattutto se ripenso a come ero allora e come sono adesso.
Rimasi fermo nella mia divisa fresca di bucato e con la biancheria da letto in mano, senza il coraggio di avanzare per prendere posto sulla mia branda.
«Entra dai, nun è che potemo stà a giocà a tira e molla tutta ‘a giornata» mi spronò subito Claudio nel suo accento romanesco e con la voce rauca, consumata dal fumo. Gli altri due mi osservavano in silenzio, seduti sui loro letti.
«Mò te rifai er letto, te sistemi ‘e tu cose e poi se famo ‘na chiacchierata da amici.»
Cercai di non tremare, ma era evidente il mio stato confusionale indotto dalla paura.
«Ma che te stai a mette’ paura? Tranquillo. Te ‘o ponno dì loro due che non so’ cattivo.»
Provai a prendermi tutto il tempo, facendo con estrema calma mentre immaginavo gli scenari possibili.
«Qui nun je ne frega un cazzo a nessuno de chi sei, de che hai fatto o de chi hai ammazzato. Qui ce stanno regole diverse.»
Diceva questo guardandomi con aria paterna.
«Te senti un duro?»
Esitai un attimo. Pensai al tono da usare.
«No. Però…» Claudio mi interruppe.
«Nun ce sta nessun però. Se vede che sei un bravo ragazzo. Te conviene abbandonà subito er difetto più grave. E ‘o sai qual è?»
Fece una pausa a effetto, da attore consumato.
«L’orgojo, ‘a dignità. Te fa fà ‘e peggio cazzate. Te fa ragionà su ciò che è giusto e sbagliato. Se superi quel limite farai solo quello che te conviene. E qui dentro te po’ sarvà ‘a vita.»
Mi costrinse a leccargli il piede calloso, sudato e lercio per dimostrare a lui, ma soprattutto a me stesso, che ero capace fin da allora di calpestare la mia dignità.
«Ma non lo devi fà sempre e con tutti. Devi imparà dove sta er tu’ limite» mi disse alla fine.
Mi sentii umiliato e mi vergognai di me stesso.
Oggi lo ringrazio, per avermi impartito quella lezione ed avermi aiutato a capire.
Il limite invalicabile è quello fisico, non mentale.
Forse lo capirà anche Ahmad, ora che gli sto stritolando la palle dopo averlo legato al letto e imbavagliato per aver tentato di incularmi ieri nelle docce.