Il portiere di riserva

Il quarto uomo si è fermato a filo del centrocampo e ha sollevato la tabella: tre minuti di recupero.
Alzo il culo dalla panchina e faccio un cenno a Salamandra. È lì sulla riga di porta che si morde i guanti. Mi guarda, sputa per terra e scuote la testa.
«Dai papà!» mi volto verso la tribuna. Alice è seduta accanto a un tifoso con la faccia pitturata di giallo e di blu.
Mi risiedo sulla panchina. Faccio un respiro lungo e lancio a terra i miei, di guanti.
Non ce la faremo mai, cazzo.
«Dai che ce la facciamo, cazzo!» Cuccureddu non si è mai seduto per tutta la partita. «Pressate alto che è quasi finita!» ha cinquant’anni ma la tuta acrilica della società gliene toglie almeno dieci. «Tre minuti, ragazzi, e siamo in serie B!» si sta sbracciando come una scimmia verso i miei compagni.
Non capisco perché si agita. La partita è ancora sullo 0-0, ci basta il pareggio per ottenere la promozione. Io e Salamandra invece, se non la perdiamo, finiremo sul lastrico.
Lui è giovane, si rifarà una vita. Ma io, io che cazzo faccio? A settembre compio 41 anni, sarò troppo vecchio anche per una Tedesca con gli amici.
«Attenti!» Cuccureddu alza le braccia verso il cielo limpido di giugno. Il numero 8 loro ha fatto un tunnel a Di Napoli, il nostro terzino sinistro, è si è involato sulla fascia. «Buttalo giù, Marchionni!» il mister si rivolge al nostro stopper, un ragazzone più largo che alto, che infatti corre incontro l’avversario, fa una scivolata e gli prende in pieno la rotula. Il rumore dell’osso si sente fino a qui. Lo stesso rumore di quando strappi il cellophane che avvolge le merendine del Mulino Bianco.
Il numero 8 si accascia a terra. Si forma un capannello di giocatori intorno a lui. L’arbitro seda la rissa e ammonisce il nostro stopper. Arriva la barella e porta fuori il ferito.
«Due minuti, ragazzi!»
Fai qualcosa! dico con il labiale a Salamandra.
Lui sempre con il labiale risponde: Che cazzo vuoi che faccia?
«Ettore Rossi!» la voce di mia figlia. Sta invocando il mio nome come se fossi la stella della Nazionale e non il portiere di riserva corrotto di una squadra della Lega Pro.
Punizione per i nostri avversari. Lancio in avanti, Marchionni stacca e la prende di testa, ma sbaglia a calibrare la traiettoria del pallone che finisce sui piedi del numero 9 loro, proprio all’ingresso dell’area di rigore.
«Ultimo minuto, ragazzi! Non facciamo cazzate!»
Di Napoli e Von Kiappen, il nostro mediano incontrista di origine olandese, raddoppiano l’avversario e lo costringono a rinculare verso la linea laterale del campo.
Guardo Salamandra che guarda me. Annuisco. Lui scatta in avanti e si lancia addosso al numero 9: lo butta giù e l’arbitro fischia. È rigore.
Dagli spalti si levano imprecazioni contro la Madonna.
«Merda!» Cuccureddu dà un calcio a un tabellone pubblicitario.
L’arbitro tira fuori il cartellino rosso ed espelle Salamandra.
Forse ce la facciamo, cazzo.
Il mister si volta. «Rossi, tocca a te!» mi indica. «E vedi di fare qualcosa di buono nella vita.»
Mi alzo, mi infilo i guanti ed entro in campo. I miei scarpini scricchiolano sulla terra battuta del campo.
«Papà!» mi volto verso la tribuna. Gli occhietti liquidi di mia figlia mi implorano.
Salamandra mi viene incontro e sussurra: «Non buttarti nemmeno… Fallo segnare e i 500.000 della combine sono nostri.»
Annuisco e mi avvicino all’area di rigore. I miei compagni mi guardano senza fiatare. Proseguo fino alla porta, mi volto e mi fermo sulla riga.
Il numero 10 loro, un biondino che somiglia a Totti, ha già sistemato il pallone sul dischetto. L’arbitro mette il fischietto in bocca.
Ora i sogni di questa città se ne andranno in pappa. Pazienza.
Io del resto che dovrei dire? Volevo la gloria, e non l’ho mai avuta.
Il sosia di Totti guarda l’arbitro che guarda il pallone. Io guardo la folla che guarda me, dodicimila paia d’occhi aggrappati ai miei guanti. Nello stadio è calato un silenzio irreale.
L’arbitro fischia. Totti prende la rincorsa e si lancia verso il pallone. Io chiudo gli occhi per non vedere.
«Papà, ti prego… Paralo!» dagli spalti la voce di mia figlia è come un’eco che da monte rimbalza a valle. Sento il rumore secco del piede che calcia il pallone. Il vento della sua traiettoria spira a sinistra.
Mi butto.