Il potere

Era facile starsene lì sdraiato sul letto a guardare le pale del ventilatore a soffitto che lentamente rallentavano.
Era facile davvero.
La parte difficile stava nel cercare di non seguire i pensieri che nascevano nel cervello e che iniziavano ad inondare la mente come una corrente d’acqua sotterranea che si infiltra nel sottosuolo e che lo portava indietro di giorni, settimane, mesi e anni.
Perché la mente a volte è così, è lei che decide dove andare e, se non sei abbastanza forte, ti ritrovi in posti che pensavi di non aver mai frequentato e a vivere ricordi che credevi di non aver mai vissuto e quella sera la mente di Marco aveva deciso di giocare sporco.
Ed ecco che tra le ombre proiettate sul soffitto iniziavano a comparire le immagini delle calze della befana che erano state appese al camino per l’epifania di 5 anni prima.
E con loro iniziava ad affiorare il volto di Giada e la sua voce che si lamentava per quel clima a suo modo di vedere troppo mite: “questo cazzo di inquinamento ci sta rubando via tutto, non solo il mondo ma anche la magia” aveva esordito mentre erano sdraiati sul divano dopo aver fatto l’amore. “In che senso, la magia?” le aveva chiesto lui senza capire cosa c’entrasse il cambiamento climatico in quel momento. “Guarda fuori e dimmi cosa vedi” aveva incalzato lei. “Beh vedo il prato della nostra casa e la bicicletta di tuo figlio che, come al solito, ha lasciato in mezzo al vialetto” aveva risposto Marco sempre più interdetto. “Appunto, dov’è il candore della neve che quando eravamo piccoli copriva tutto, rendendo il mondo un posto magico e fantastico? Che fine hanno fatto i pupazzi di neve a cui venivano donate le sciarpe consumate del nonno? Esserci abituati a vivere in una società comoda, ci ha portati a sottovalutare le conseguenze di ciò che facevamo. Tutto quello smog ci ha tolto la neve e ci ha lasciato sul vialetto una bicicletta che tuo figlio non avrebbe potuto usare per altri due mesi almeno, tutta colpa del cambiamento climatico”.
«E’ vero» pensò Marco mentre fissava le ombre sul soffitto, siamo diventati una società troppo comoda ed era stata colpa della pigrizia se quel pomeriggio di 5 anni prima aveva scoperto che la moglie lo tradiva da almeno 7 mesi. Mentre la moglie era impegnata a spiegargli la connessione tra cambiamenti climatici e magia natalizia, lui aveva infatti potuto leggere l’sms che le era arrivato sul cellulare, non avendo mai voluto perdere tempo impostando un pin. Era del suo collega Franco che la informava di quanto non vedesse l’ora di “stare” di nuovo con lei, dopo che tutti erano andati via dall’ufficio.
Era da quell’sms che era iniziata una litigata che aveva portato alla fine del rapporto nato tra i banchi di scuola delle superiori e che ora sembrava riassunto tutto in un giro di ventilatore.
E bastava un giro di 360 gradi per far sì che quel ricordo venisse spazzato via e lasciasse spazio alla foto che il dott. Bianchi, il capo dello studio di architettura in cui aveva lavorato, teneva sulla sua scrivania. Una foto di famiglia che lo ritraeva insieme alla moglie e alla figlia mentre pagaiavano nel mare polinesiano. Una bella famiglia e una bella foto, solo che stonava con la notizia che gli aveva dato 3 anni prima.
“Mi dispiace moltissimo Marco, so che situazione di merda stai vivendo, ma sei l’ultimo arrivato qui in ufficio e purtroppo con la crisi che c’è non stiamo più lavorando come un tempo. Sono costretto a mandarti via. Però sei bravo e magari appena le cose ricominciano a girare ti riassumiamo, sempre che uno bravo come te voglia tornare a lavorare qui con noi visto che, probabilmente, troverai presto un lavoro in studi più importanti”.
Ma non lo aveva più sentito, così come non aveva più messo piede in uno studio di architettura, fine della carriera.
Per pagarsi l’affitto di casa in cui era andato a vivere subito dopo il divorzio, aveva dovuto accettare prima un lavoro da Ikea e poi uno da Mac Donald’s visto che, dopo il secondo rinnovo di contratto, i gentili “manager svedesi” avevano preferito sostituirlo con un ragazzetto fresco di laurea anziché fargli un contratto a tempo indeterminato.
Ed ecco che nel gioco di ombre cinesi sul soffitto erano comparse la friggitrice, che più di una volta aveva rischiato di ustionarlo, e la faccia brufolosa del suo nuovo capo che, con la sua aria da manager navigato, gli illustrava l’importanza del lavoro di squadra.
Era bastato poco per far crollare tutti i suoi sogni, appena cinque anni e la sua vita era finita.
In cinque anni aveva perso la moglie, il lavoro e la dignità, che almeno aveva mantenuto fino a quella mattina, quando era scoppiato in lacrime di fronte all’impiegato dell’esattoria supplicandolo di trovare una soluzione per dilazionare il debito contratto con lo stato e che ormai aveva raggiunto livelli spropositati.
Ma non c’era nulla da fare gli aveva spiegato, non poteva farci niente, dipendeva dalle leggi e dal regolamento che lui era obbligato a rispettare scrupolosamente, per non correre il rischio di perdere il posto di lavoro.
E mentre era lì, con la sua mente che lasciava filtrare tutte quelle immagini di un passato che ormai lo perseguitava, iniziava a sentire gli occhi che si appesantivano e si chiudevano sempre più a lungo e sempre più di frequente.
E il fiume di pensieri lentamente rallentava e lasciava spazio ad una sensazione strana, come quella che si potrebbe provare stando su una nuvola.
La sensazione di essere sospesi in un luogo senza confini e senza limiti, dove tutto è avvolto da una nebbia che lentamente occupa quello spazio che poco prima era stato colonizzato da quei ricordi di qualche tempo prima.
E mentre le pale del ventilatore rallentavano sempre più, fino a fermarsi, Marco chiuse gli occhi, lasciando cadere dalla mano senza forze la boccetta di antidepressivi che si era scolato per provare finalmente la sensazione di poter essere lui, per una volta, a scrivere la parola fine su qualcosa, per avere l’illusione, almeno per un decimo di secondo, di aver potuto decidere lui qualcosa nella sua vita.