Infinite melodie

Un’eternità.
Da un’eternità sono legato allo sgabello di fronte al pianoforte.
La stanza in cui sono intrappolato è grigia, senza finestre, senza porte, soffocante. Vivo seduto di fronte alla tastiera, le gambe e i piedi non rispondono se non per pigiare i pedali.
I primi giorni ero spaventato, urlavo, piangevo, imploravo. Nessuno rispondeva.
Mi addormentavo singhiozzando con la testa appoggiata ai tasti, mi svegliavo col naso chiuso dal muco e la schiena a pezzi.
 
Iniziai a suonare per disperazione. Seduto nei miei stessi escrementi che mi bruciavano la pelle, l’urina che si rapprendeva sotto allo sgabello in una pozza densa. La nausea che cresceva di concerto con la fame. La musica mi avrebbe distratto, pensavo. Poche note, un jingle di una pubblicità che ascoltavo da bambino. Un’aranciata esagerata che mi riportava alla giovinezza per un istante.
Comparve una barretta di cioccolato di fronte a me. Chiusi di scatto il coperchio del pianoforte e la divorai in due morsi. Non vidi da dove era arrivata, ma ero affamato, non mi posi domande.
Lo stomaco non era soddisfatto e la cioccolata bruciava sulle mucose piagate della bocca. Ripresi a suonare con più vigore, sperando che il miracolo si ripetesse. Fui premiato con un bicchiere di acqua gelata che mi rinfrescò e schiarì la gola.
Piansi ancora, ma di sollievo questa volta.
Ora sapevo cosa volevano da me, ma forse nell’inconscio lo sapevo anche prima, visto dove mi avevano bloccato. Era un gioco crudele, assurdo e che non capivo, ma almeno era una direzione da prendere.
Suonai ancora lo stesso jingle, ma non comparve nulla. Provai qualcosa di diverso e arrivò un piatto di minestra calda. Non mi fermai.
I miei escrementi scomparvero, l’odore migliorò istantaneamente.
Fintanto che suonavo musica nuova, diversa, le mie necessità venivano soddisfatte.
Comparvero biancheria, vestiti morbidi, scarpe, la barba si radeva quando iniziava a prudere, le unghie si tagliavano, i muscoli contratti si rilassavano. Se suonavo a lungo mi veniva permesso di alzarmi per preziosi minuti, stirare schiena e arti. Un piacere nuovo che non avevo mai considerato come tale.
Avevo suonato per anni, ma non professionalmente. Conoscevo molta musica a memoria. Ci misi un mese a finirla, anche ripescando dai ricordi, anche suonando a braccio melodie e canzoni ascoltate e mai suonate prima.
Per un altro mese rispolverai il solfeggio, le scale, le armonie. Non venivo ricompensato spesso per i miei primi tentativi, ma migliorai rapidamente con la forza della disperazione.
Le scale erano molte e improvvisai a lungo. A volte piazzavo le dita sulle note di una scala pentatonica, chiudevo gli occhi e lasciavo che l’inconscio vagasse e le dita scrivessero la loro musica, ma il gioco venne scoperto e il ritorno di queste sessioni divenne sempre più misero.
Iniziai a razionare le melodie, a pensarle nella testa tenendole da parte, mascherandole con nuovi modi, arpeggi e trasposizioni.
 
Un’eternità.
Sei mesi sono un’eternità, quando si è bloccati di fronte a un pianoforte.
Mi sento osservato. La mano che si è presa cura di me aspetta che ceda, che la mia creatività si esaurisca, che la musica finisca.
Ma non vincerà su di me.
Non sa che noi umani abbiamo una forza speciale, la caparbietà di non arrenderci, di non accettare la sconfitta.
O forse è proprio questa capacità di adattamento che vuole capire, spingere al limite.
Poso le dita sulla tastiera e inizio a suonare.
Finché respiro, le variazioni respireranno con me.