Inverno

Ai piedi della montagna, una profonda crepa segna una linea irregolare sul terreno. Subito dietro si ergono scheletri di alberi inceneriti dalla furia dei fulmini. Solo più in alto inizia una foresta tinta dei colori dell’autunno, anche se gli alberi si fanno ogni giorno più spogli. Presto arriverà un nuovo inverno, il decimo nella vita di Euthymos. E, come gli inverni che l’hanno preceduto, anche questo sarà un inverno senza fuoco.
Alla caverna, solo Varsos è abbastanza vecchio da ricordare il fuoco. Abbastanza vecchio da aver conosciuto un tempo felice, in cui ai mortali era concesso banchettare insieme agli dei sulla cima dell’Olimpo. Al crepuscolo, quando i membri della comunità si stringono gli uni agli altri sotto le pelli di animale per combattere il freddo della notte, Varsos racconta di quei giorni. Del banchetto durante cui gli uomini offesero Zeus e di come il padre degli dei tolse loro il fuoco.
Euthymos cammina poggiando i piedi scalzi sul terreno accanto alla crepa. Sa che quello è il confine che gli dei hanno posto al reame degli uomini. Guarda in alto, verso le nuvole scure, verso i lampi che squarciano il cielo. È mattina presto, ma il padre degli dei è già arrabbiato. Euthymos si chiede cosa possa scuotere la felicità di una vita divina.
Il vento gli scompiglia i capelli, l’aria rimbomba di tuoni e odora di fulmini. Gli altri ragazzi della caverna hanno paura a venire lì, così vicino al confine. Euthymos non riesce a farne a meno. Da che a memoria, è sempre stato attratto da quella montagna proibita.
C’è una sagoma che scende lungo le pendici del monte.
Euthymos la vede e fa un passo indietro. Nella sua breve vita, ha imparato a temere tutto ciò che viene dalla montagna. Le gambe vorrebbero fuggire verso la caverna, ma qualcos’altro lo frena. Non riesce a sopportare l’idea di scappare senza aver visto da vicino quell’essere immortale.
La sagoma somiglia a quella di un uomo. Ma è molto più alto, più massiccio, più imponente di qualsiasi uomo mortale. Porta qualcosa in mano, forse un bastone. Euthymos vuole fuggire e vuole rimanere.
Ma ormai l’altro è vicino. I loro sguardi si incrociano, gli occhi grigi del bambino in quelli azzurri della divinità. Euthymos pensa che dovrebbe almeno abbassare il capo, rendere omaggio a quell’essere. Invece rimane immobile.
L’altro è pochi metri oltre il confine. Gli sorride e con un cenno della mano lo invita ad avvicinarsi.
Euthymos ha paura. Guarda la crepa sul terreno, guarda la divinità che continua a sorridergli. Le gambe gli tremano.
Euthymos fa un passo avanti.
L’altro gli porge ciò che ha in mano. Non è un bastone, ma una canna. Appena la prende in mano, Euthymos sente un calore improvviso. Guarda dentro e vi vede qualcosa di rosso e lucente.
«Va’» gli dice l’altro. «Torna a casa. Di’ agli uomini che Prometeo non li ha dimenticati.»
Euthymos sgrana gli occhi. Guarda il titano di cui tante volte ha sentito raccontare. È così simile e così diverso da come l’ha sempre più immaginato. Molto più divino. Molto più umano.
«Va’!»
Euthymos si gira e comincia a correre. Dietro di lui, i tuoni rimbombano più forti che mai. Ma invece che aver paura, Euthymos si mette a ridere. Ride perché è felice come non ha mai immaginato si potesse essere felici. Ride perché quest’inverno gli uomini avranno il fuoco.