Io e Bobo

Finalista nella Scilla Bonfiglioli Edition, 147° All Time, un racconto di Isabella Valerio.

 
Venticinquesimo giorno
Sole, mi manchi. La cenere ha preso il posto della pioggia e cade da giorni. Respiro grigiore da non so quanto tempo. Bobo mi guarda, sempre più insistente, vorrei dirgli: «Cosa vuoi da me?»
So cosa vuole: qualcosa da mangiare.
Anche io lo voglio, il mio stomaco è una voragine angosciosa che riesco sempre meno a ignorare. Vorrei che Bobo non mi guardasse così. Vorrei che fuggisse via, che fosse così tanto lontano da non poterlo raggiungere.
Invece sta qui, davanti a me, non mi molla gli occhi, scodinzola, ha la lingua fuori, dove ogni tanto si appoggiano i coriandoli grigi, che cadono lenti, pazienti.
«Vattene via!» grido.
Niente, lui sta lì e mi guarda. Fiducioso.
Senza sole non riesco a orientarmi. Hanno giurato che la navicella ci avrebbe aspettato, che saremmo potuti andare sul nuovo satellite. Penso che siano già andati via, non voglio smettere di cercare, di sperare.
Non so dove andare.
 
Ventiseiesimo giorno
Mi ha svegliato Bobo con il suo latrare. Vedo denti cariati di un uomo affondare nella sua carne. Per fortuna dormo con il coltello in mano, mi sono precipitato su di lui e l’ho colpito, non se l’era aspettata così tanta energia, ma l’idea di stare da solo, senza Bobo, è peggio della compagnia della fame, e mi ha dato la forza per reagire.
Chissà se ha fatto in tempo a riavvolgere la sua vita, prima di schiantarsi a terra; spero di no, per lui. Io non vorrei rivivere il momento dell’incidente nucleare che ci ha ridotti così.
Stupido di un cane, non lo ha guardato come se fosse un nemico, anzi.
 
Ventisettesimo giorno
Io e Bobo non avremo più fame, almeno per un po’.
 
Trentacinquesimo giorno
Gli occhi di Bobo sono cambiati, la fame fa brutti scherzi, e ogni tanto lo vedo che mi guarda come se fossi una bistecca succosa, dalla bocca comincia a colargli una bava biancastra, e mi abbaia, come dire: vattene prima che sia troppo tardi, non so quanto ancora riuscirò a resistere, ma io non me ne vado. Io resto.
 
Quarantesimo giorno
Siamo solo ombre di noi stessi, Bobo si avvicina, lo sento muoversi, mi giro di scatto, i nostri sguardi si incrociano, chiudo gli occhi perché mi sento un codardo, perché alla fine è l’istinto che ha preso il sopravvento, mi sento una belva schifosa, ma la fame è un subdolo compagno che non perde occasione per convincerti delle sue buone ragioni.
Riapro gli occhi, vedo i suoi denti, il suo è il ghigno di chi ha vinto, di chi è rimasto integro, di chi non ha cambiato idea, tra me e lui sceglie me, non lotta neanche, tifa per me. La mia mano affonda il coltello nella sua carne, ma prima la sua zampa mi tocca, scivola su di me come una carezza, solo lui poteva ancora amare un mostro come me.
 
Quarantunesimo giorno
Non avrò fame, ancora per un po’.