La Roccia e il Filosofo

La prima notte che passai in turno alla casa di riposo conobbi Alfio, detto la Roccia, un ex colonnello dell’esercito che sfiorava il traguardo del quintale e mezzo. Dormiva beato sul divano della sala comune, russando come un facocero, dopo aver cenato a purè e narcotici.
«Glieli diamo perché a volte la sera diventa rabbioso», aveva detto un collega del turno pomeridiano. «Così invece sta tranquillo.»
«Trova il modo di portarlo a letto», aveva aggiunto un altro. «Noi andiamo che c’è la Champions.»
Mi ritrovai a fissare quei centoquarantotto chili di rabbia narcotizzata insieme al collega in turno con me, tale Corucci detto Voglia, e non perché avesse qualche macchia sulla pelle.
«Dovremmo spostarlo», proposi io.
«Non ne ho voglia», rispose Voglia. E si dileguò, lasciandomi solo a contemplare la Roccia.
Provai ad afferrarlo per una mano, a tirarlo con tutte le mie forze puntando i piedi sul pavimento. La Roccia salutò il mio tentativo con una sonora scorreggia, così mefitica da costringermi a una breve ritirata.
«Non otterrai nulla così.»
Mi voltai, curioso di conoscere il dispensatore di tali ovvietà, e mi ritrovai a tu per tu con un vecchietto secco e curvo dotato di una notevole barba che compensava la testa calva.
«E tu chi sei?»
«Valentino Pancrazi. Ma da queste parti mi chiamano il Filosofo.»
«E che ci fai qui?»
«Soffro d’insonnia.»
Aveva senso, per cui non indagai oltre.
«E sentiamo, come risolveresti questa faccenda?»
«Con la giusta leva anche una grossa Roccia diventa leggera.»
E bravo il nostro Osho di stocazzo. «D’accordo, Filosofo, ma dove la trovo una leva per smuovere questo essere mastodontico?»
«Una leva metaforica, s’intende.»
Il Filosofo mi stava innervosendo, ma forse avevo capito cosa voleva dirmi. «È un ex militare, potrei solleticare il suo subconscio e richiamarlo al dovere.»
Lui sollevò le spalle poco convinto, ma io lo interpretai come un cenno di assenso.
Mi accostai all’orecchio di Alfio e iniziai a sussurrare. «Colonnello! Dobbiamo allontanarci da qui, il nemico potrebbe tenderci un agguato. Si sbrighi, il reggimento è già in marcia.»
Il viso della Roccia, su cui faceva sfoggio un beato sorriso, si deformò in un ghigno brutale. Due braccia grosse come tronchi sferzarono l’aria cercando di ghermirmi. Mi mancarono per un soffio.
«Non ha funzionato.»
«E ci credo bene.» Il Filosofo si avvicinò di un passo. «Pensaci, questo poveretto ha fatto la guerra per tutta la vita. Chissà quante ne ha viste, quante ne ha passate. Cosa ti fa credere che voglia dedicare alla guerra anche la sua serenità senile?»
Il Filosofo sapeva essere convincente. «E quindi? Che leva posso usare?»
Ci pensò su qualche istante. «Forse vorrebbe essere una fata.»
Non aveva nessun senso, ma non mi sembrava di avere molte altre alternative. Mi avvicinai di nuovo all’orecchio della Roccia. «Dolce fatina, la Regina Titania ha bisogno di te.»
Come allo scattare di una molla, la Roccia si issò in piedi. Gli occhi ancora chiusi, ma il sorriso stavolta andava da un orecchio all’altro.
Il Filosofo annuì, invitandomi a continuare.
«La nostra missione è spargere felicità nei sogni dei bambini, ballando e svolazzando fino alla camera.»
La Roccia si mise sulle punte, si esibì in una piroetta, un salto e si avvio in camera a passo di danza.
«Sembra quasi… leggiadro.» Mi voltai verso il Filosofo ma non c’era più. Forse era andato a dormire anche lui. Peccato, avrei voluto ringraziarlo.
Mi affacciai alla stanzina degli operatori, Voglia stava guardando un film al computer.
«Ehi, volevo dirti che ce l’ho fatta. L’ho messo a letto.»
«Bravo. Come hai fatto?»
«Mi ha dato una mano un altro ospite. Valentino Pancrazi.»
Si voltò verso di me. «Ma chi? Il Filosofo?»
«Sì.»
«Non credo proprio. È morto il mese scorso.»
 
La prima notte che passai in turno alla casa di riposo imparai che un fantasma è più utile di un collega stronzo, che con la leva giusta puoi spostare una Roccia e che dentro un vecchio militare di centoquarantotto chili può battere un cuore di fata.
Non male come inizio.