La Triàca Veneziana

Una ricetta per zombie in questo racconto di Valter Carignano, sesto classificato nella Romero Tribute Edition, la 103° Edizione di Minuti Contati.

 
«E una goccia di estratto di bile di salamandra nera.»
Plop! Subito, vampe arancioni screziarono il liquido latteo che riempiva la cucurbita. Luciano di Treviso si affrettò a sigillarla con la cupola in rame istoriata di formule cabalistiche, ravvivò il fornelletto sottostante con un poco di artemisia disseccata e attese.
Dalla serpentina prese a uscire un vapore, via via sempre più denso, quasi liquido, e infine…
«Niente!» esclamò, guardando la sostanza giallognola e fumante che fluiva dall’alambicco. «Ma possibile che questa benedetta rubedo non voglia riuscire! Eppure sono sicuro di aver seguito la formula per filo e per segno. Vabbè, per stassera lasciamo stare che è già tardi e fa un caldo dell’ostia.»
«Ciano, vien su che la polenta l’è pronta!»
«Arrivo, Gisa. Due minuti.»
Lasciò l’alambicco così com’era, si spostò sull’altro tavolo e controllò nell’athanor a che punto fosse la Triàca. Poi salì le scale.
In cucina, vide la moglie tutta rossa e accaldata versare la polenta dal paiolo sul grande tagliere.
«Ma Gisa, possibile che devi fare ‘sti lavori da sola e con ‘sto caldo? Quante volte t’ho detto di prendere qualche cameriera? I soldi li abbiamo.»
«Ma a mì non me piase far la signora, sghei o non sghei. Mi annoio a non far niente.» Riempì una ciotola di polenta di farro e formaggio e la diede al marito. «E tì? Anca tì non ti fermi mai, no?»
«Mah, guarda, ci son dei giorni che mi vien voglia di prendermi una bella vacanza.» Si scolò un boccale di birra. «Ah, bella fresca. Ci voleva. Quasi quasi finisco l’ordine per il vescovo e poi ce ne andiamo in villeggiatura, cosa dici?»
«Eh, sarei ben contenta, Ciano. A me ’sto tanfo di fogna dei canal di Venessia non m’è mai piaciuto. Rimane come un gustaccio in bocca.» E, per dimenticarlo, anche lei si fece fuori un boccale intero.
«Allora è deciso. Domani pomeriggio si parte. E stassera apriamo quella grappa che ha fatto tuo nonno buon’anima.»
Mangiarono e bevvero in allegria. Luciano era il miglior alchimista della Serenissima, e se non fosse stato per la passione che ci metteva e per il piacere che gli dava il suo lavoro, già da un bel po’ avrebbe potuto ritirarsi. Ma quella sera, vuoi perché di nuovo non gli era riuscita la rubedo, vuoi perché preparare la Triàca coi suoi cinquantasette ingredienti l’aveva sempre stufato; quella sera sentiva un gran bisogno della sua villetta vicino a Treviso. Si fece anche un po’ malinconico, e la paturnia forse gli fece alzare appena appena il gomito. Fatto sta che quasi si finirono un barilotto di birra e un litro e mezzo di grappa in due.
«Gisa, scendo un attimo a mettere l’ultimo ingrediente.» La moglie aprì appena un occhio, sprofondata com’era in un piacevole sonno etilico.
Luciano scese con qualche difficoltà la scala, aprì l’athanor e controllò la pozione. Colore, densità, aroma, tutto era perfetto. Stava per aggiungere il quadrifoglio albino triturato quando un brontolio gli si manifestò nella zona ventrale. Crebbe rapidissimo, si fece strada attraverso lo stomaco, galoppò nell’esofago e finalmente si sfogò in un lungo e tonante boato attraverso la bocca. Lui rimase per qualche istante inebetito, quasi compiaciuto, e non si accorse che quel miasma di alcol, polenta e formaggio stagionato aveva messo in movimento la Triàca. Il liquido ribolliva, reagiva, si gonfiava. Infine, si sublimò in una evaporazione rapidissima. Luciano ne inalò una bella boccata, di quei vapori, e perse i sensi.
Quando si risvegliò, era giorno fatto. I vapori ormai erano usciti attraverso i fori d’aerazione, la luce inondava il laboratorio. Ricordava vagamente quanto accaduto la sera prima, ma la vista dell’athanor vuoto gli riportò tutto alla mente.
‘Pazienza. Vorrà dire che il vescovo rimarrà senza Triàca, questa settimana.’ pensò. E si tirò su in piedi. O meglio, cercò di farlo. Il suo corpo non rispondeva come al solito, era lento, sgraziato, una volta in piedi cominciò a caracollare di qua e di là.
‘Mona, che sbornia! Non devo più esagerare così.’
Salì con parecchia difficoltà le scale. Gisa era ancora seduta al tavolo, ma con gli occhi aperti e un colorito bianchiccio. «Blarr-guargh-sskt» gli disse.
«Anche te sei messa bene. Ci siamo proprio divertiti, ieri sera» rispose Luciano. Qualcuno coprì le sue parole con dei versi: «Ffghnn-shom-rrik.»
Si girò lentamente per veder chi ci fosse lì insieme a loro, e si vide riflesso in uno dei piatti da portata di metallo della sera prima. Anche lui sembrava pallido.
«Gisa, magari chiamo lo speziale, va bene?»
Di nuovo sentì: «Zarss-pluerch-blaa.»
Era la sua voce. Gisa adesso gli si era trascinata accanto. Si guardarono, barcollarono fuori. Le calli erano piene di persone come loro: storte, bavose, che grugnivano e vomitavano suoni indistinti. I vapori si erano mescolati all’umidità, avevano raggunto tutti, non c’era stato scampo.
Le teste di tutti si volsero verso il porto. Era l’ora del traghetto da Mestre, che portava gli operai che abitavano fuori. Luciano e Gisa si leccarono le labbra: avevano fame.