La vera ombra

La prima lampada comparve in sala a fine pomeriggio, mentre il sole spariva.
Era un abat-jour di ceramica azzurra. Lo trovai sul tavolo del soggiorno, acceso di una luce fioca sotto a un paralume di carta opaca. Lo spensi, domandandomi da dove fosse sbucato.
 
La seconda lampada comparve mentre preparavo la cena. Passai dalla sala per lasciare fuori dalla porta un sacchetto di rifiuti da gettare al mattino, e trovai un candelabro elettrico di bronzo, decorato con foglie disordinate e piccole rose taglienti. Stava in un angolo della stanza, per terra, acceso come l’abat-jour sul tavolo. Li spensi entrambi.
 
La terza lampada comparve a sera tarda. Uscii dal bagno e trovai tre luci accese. Quella nuova si alzava su un lungo stelo fino a un fiore di vetro azzurro. Le spensi, ma avvicinandomi mi parve che le ombre che gettavano sui muri guizzassero per un attimo al mio passaggio.
 
Il mistero mi intrigava. E inquietava. Sentivo violato il mio spazio e volevo un responsabile, quindi decisi di non toccare nulla e aspettare. A mezzanotte in punto mi sedetti in poltrona nella stanza incriminata e feci ipotesi, sgranocchiai popcorn per tenermi sveglio, giocai con un rompicapo in legno per tenere le mani impegnate e il cervello attivo, ma sempre con un occhio fisso sulle lampade, perché nulla mi sfuggisse.
Ma la stanchezza mi raggiunse, chiusi gli occhi per riposare un istante e li riaprii alla luce di due nuove presenze: una lampada da parete da cui pendeva una singola lacrima di cristallo e un guscio di tartaruga in vetro colorato e piombo. Le cinque luci proiettavano un’unica ombra sulla parete: una sagoma alta e umana. Scattai in piedi per l’apprensione e sfiorai il muro freddo con i polpastrelli prima di spegnere tutto.
 
Era notte inoltrata e continuavano ad arrivare. Mi bastava dare le spalle alla scena, distrarmi, battere le palpebre troppo lentamente. Socchiudevo gli occhi per avvicinarmi in quel fulgore e combatterlo un interruttore alla volta, ma vedevo sempre più nitida la sagoma, ora chiaramente femminile. A ogni nuova luce era più definita. Prima si alzò fin quasi al soffitto, poi prese a piegarsi di lato, allungando braccia lunghe e flessuose, aperte in un abbraccio.
 
Non smisi di lottare contro il fenomeno ma nel giro di poche ore l’intera stanza fu invasa, riuscivo appena ad arginare le accensioni. Ogni superficie coperta da lampade di ogni sorta: piccole o incombenti; con luci fioche, baluginanti o brillanti; fatte d’argento, piombo, vetro, pietra; con superfici brunite, smaltate, incastonate, intarsiate, scolpite.
 
Sul muro rebbero dita nodose. Si sciolse una chioma di capelli che cadde fino al battiscopa. Comparvero due occhi neri. Più scuri dell’ombra da cui nascevano. Quando sentii quello sguardo su di me lottai con gli interruttori con più energia, perché non ne sopportavo il giudizio.
 
E le lampade continuarono ad arrivare.
 
***
 
Sento il calore violento di una nuovo accensione. Tutte le nuove presenze, più qualcosa di nuovo. Mi muovo rapido verso il bagliore e con gesti automatici mi affanno per rimediare, seguo fili e sagome fino al pulsante.
Ma qualcosa mi precede e la casa diventa silenziosa. Neanche il brusio di un elettrodomestico. È saltata la corrente, doveva succedere prima o poi.
 
Si accende l’abat-jour.
 
Di fianco alla donna ombra, per la prima volta vedo una nuova sagoma confusa.
 
Si accende il candelabro di bronzo.
 
La mia ombra?
 
Si accende la lampada a stelo.
 
Sollevo una spalla per accertarmene.
 
Si accende la lampada che piange.
 
La donna si incurva.
 
Si accendono la lampada tartaruga, una lanterna rossa, un’applique di cristallo.
 
Si affacciano gli occhi neri.
 
Ancora, e ancora e ancora.
 
È sempre più curva sulla mia ombra. Nasce una bocca tonda e nera.
 
Tutte le lampade sono accese, l’ultima — ardente — nasce alle mie spalle.
 
Il sole del mattino alla finestra? Mi domando.
 
Sento un respiro, sulla nuca.