Le città intangibili

Sulle orme de “Le città invisibili” di Italo Calvino, Marco Polo e il Kublai Kan in un racconto di Fernando Nappo.

 
Marco Polo raggiunse Kublai Kan nel giardino di magnolie alla cui ombra l’imperatore dei tartari era solito passeggiare.
Il Kan sembrava assorto in intimi pensieri, come spesso gli succedeva nelle giornate in cui era d’umor nero.
«L’ultima volta che ci siamo parlati, hai detto di avermi raccontato di ogni città che hai visitato.»
Marco Polo, aduso ai cambi d’umore dell’imperatore, accennò appena un inchino.
«Non c’è città di cui non ti abbia fornito la mia più dettagliata descrizione.»
Kublai Kan incrociò le mani incrociate dietro la schiena e riprese a camminare.
«Sono stanco di passare il tempo giocando a scacchi. Se non hai altro da raccontarmi» disse l’imperatore «forse è tempo che tu riparta. L’impero è grande, ci sono zone dove non hai ancora viaggiato.»
E Polo: «Per quanto tempo io possa viaggiare, sire, ci sono città che non potrò mai visitare,
città che alcuni definiscono irraggiungibili.»
Kan si fermò e fissò Marco Polo. «Sono molte, queste città di cui solo ora mi parli?»
«Mi hanno raccontato di un paio di queste. E benché esse non potranno mai essere terreno di conquista, se credi, te ne parlerò.»
L’imperatore indicò una panchetta ai lati del sentiero: «Raccontami di queste città, viaggiatore.»

 
Nidata è nata col primo uomo e con l’ultimo di essi cesserà di esistere. Nidata non si trova in nessun luogo ed è al tempo stesso in ogni luogo, composta da infiniti frammenti, ognuno dei quali alberga in un singolo uomo. Quel frammento è, per chi lo custodisce, la rappresentazione perfetta che egli s’è fatta del solo posto dove possa sentirsi felice nel più profondo del proprio animo, è il luogo dove ognuno può essere ciò che più desidera, senza alcuna regola, limite, preclusione.
Benché non si possa descrivere nella sua interezza, Nidata è una città la più variegata che esista: ognuno ne conosce alla perfezione la parte di cui è custode, ma non può neppure immaginare il più piccolo altrui frammento.
Ciò nonostante, nessuno è capace di descrivere ad altri la propria quota: essa è troppo radicata nel profondo, e chi afferma di poterlo fare, o di averlo fatto, sta per certo mentendo, poiché è impossibile condividere con altri, per quanto intimi conoscenti, le parti più nascoste di sé, uniche e distintive della frazione di Nidata dove uno e uno solo può vivere.
Ognuno a Nidata è ciò che davvero è, e non ciò che rappresenta agli occhi degli altri.
A Nidata ognuno è imperatore e re; Nidata è una città che ognuno possiede ma che nessuno potrà mai conquistare.
 
Kublai Kan aprì il ventaglio che Marco Polo gli aveva portato in dono di ritorno da un viaggio e si sventolò per qualche attimo, poi lo ripose.
«Quello che mi hai raccontando ora non è una novità, ma quella che hai descritto non è una vera città.»
«Forse» rispose Polo. «Ma ci sono alcuni che la ritengono la città più reale tra tutte quelle esistenti.»
L’imperatore non rispose, e rimase seduto con le mani sulle ginocchia, assorto. Quando finalmente si alzò, disse: «Sta rinfrescando. Rientriamo. Mi racconterai della seconda città strada facendo.»

 
Questa è Derina, la città delle passioni incolte, dei propositi fugaci, una città triste e cupa, che nessuno può raggiungere ma che ognuno abita, dove non fa mai giorno, e le strade son sempre deserte e al buio, poiché i lampioni, che pure ci sono, non vengono mai accesi.
Derina si estende fin’oltre l’orizzonte, e in qualunque direzione si volga lo sguardo non se ne vede la fine. E per quanto si cammini non è possibile giungere ai suoi confini.
Ogni via ha il nome di un uomo e in quella via si trova una sola casa. Ogni piano della casa ospita una passione inane, o un presunto bisogno d’espressione lasciato incolto. Quanti piani si possono contare, tante sono le passioni che un uomo ha lasciato dietro di sé, presunte scopo d’una vita e poi trascurate.
Son poche, a Derina, le abitazioni d’un solo piano, mentre non si tiene il conto di quelle alte quanto palazzi, espressioni di passioni tanto più brucianti quanto più velocemente sacrificate per un’altra.
Da una casa qui vicina, ecco giungere all’orecchio una musica, ma è uno strimpellìo privo di melodia e dissonante, sogno abbandonato da qualcuno convinto di ardere della passione di far musica, ma che s’è arreso alle prime difficoltà dello studio.
Al secondo piano di un’abitazione attigua, si scorgono tele rovinate da disegni mal tratteggiati, poco più che sfregi, rimembranze di abilità mai a fondo indagate, e per questo sprecate, mentre al terzo piano, soffocate dalla polvere, sostano diverse macchine fotografiche, rullini intonsi, cavalletti mai utilizzati, e ben poche foto.
Dalle finestre di un’abitazione poco più oltre, ora non importa da quale dei tanti piani di cui essa è composta, fuoriescono fogli di carta bianchi o al più sporcati da poche parole, testimonianza di chi si voleva scrittore, ma più capace a esprimere il desiderio che a trovare in sé forza d’animo e costanza.
E poi, a ogni angolo di strada, case traboccanti scacchiere mai sfiorate da una pedina, carte da gioco comperate e mai usate, collezioni di orologi caricati una sola volta e ormai incapaci di segnare il tempo, passi di danza mai imparati e abbandonati al suono di musiche inascoltate.
Di rado, qualcuno si riaccende d’una passione sopita, la riscopre e vi si pone con impegno fino a un risultato da rimanerne soddisfatto; è allora che quel piano della casa si dissolve e le luci dei lampioni, in quella via, si accendono. Almeno per un po’.
Ma tanto più è alta un’abitazione e tanto meno è probabile che questo accada, anzi, al contrario, si può star certi che ben presto altri piani andranno ad aggiungersi a quelli già esistenti.
Il destino di Derina è quello d’essere condannata a crescere in eterno.
 
Il Kan era pensieroso. Adagiato sui cuscini di seta, si muoveva irrequieto, come se le parole di Marco Polo avessero smosso qualcosa che già si agitava nel profondo.
Stava ad occhi socchiusi e si accarezzava la barba, tirando di tanto in tanto lunghe boccate dalla pipa.
«Credo che tu ti stia prendendo gioco di me, viaggiatore, che tu ti stia inventando tutto.»
Marco Polo appoggiò la pipa e si tirò a sedere.
«L’impero umano è vasto, e ha confini che si estendono oltre ciò che possiamo semplicemente vedere.»
Kublai Kan aveva riaperto gli occhi e s’era messo a sua volta a sedere.
«Come puoi descrivere questa città se, come ho capito, non esiste sul nostro mondo?»
«Mi è stata descritta da un’anziana donna, incontrata in una fumeria d’oppio. Ho fatto alla vecchia la stessa obiezione, e lei ha risposto dicendomi che l’impero umano è vasto e ha confini che si estendono oltre ciò che possiamo semplicemente vedere.»
L’imperatore sorrise e disse: «Se, come dici, in questa città c’è una via per ognuno di noi, allora dev’essercene una col mio nome.»
«Così credo» replicò Marco Polo.
«Nella mia, ne sono certo, non sorge alcuna casa. Non ci sono passioni o desideri che non abbia soddisfatto.»
«Questo lo può sapere solamente Kublai Kan, imperatore dei tartari» rispose Polo, chinando il capo.
Kublai Kan si alzò e si congedò dal suo ospite con un semplice gesto della mano, segno che per quel giorno l’incontro era giunto al termine.

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