L’infanticida

1893, Forlì

«Lasciatemi andare!» urlava il prigioniero dalla cella, afferrando le sbarre con una forza inaudita. Giuseppe arretrò contro il muro e sentì il cuore accelerare. Aveva solo vent’anni e fare la guardia carceraria, si rendeva conto, era troppo per lui. Enea rideva.
«Non preoccuparti. Ha la lingua lunga ma non abbastanza da raggiungerti.»
Aveva la voce rauca, folti baffi e vestiti che puzzavano di tabacco. Lui, la guardia, la faceva da quando il padre di Giuseppe aveva ancora i brufoli.
«Non tace da stamattina. Dice cose senza senso.»
Enea lo accompagnò nella stanza accanto e lo fece sedere a un tavolo. Nonostante la porta chiusa, si riusciva a sentire il prigioniero sbraitare.
«Cosa vuoi aspettarti da un assassino di bambini? Il cervello non gli funziona.»
All’ennesimo grido dell’uomo, Giuseppe rabbrividì.
«Forse ha il demonio in corpo.»
Enea non dovette escluderlo, perché non disse niente. Tirò fuori un mazzo di carte e cominciò a distribuirle fra loro due.
Giuseppe, però, era curioso. Non ne sapeva molto di quello che aveva combinato.
«Quanti ne ha uccisi?» chiese.
Enea aveva appoggiato le proprie carte, tenendole coperte, e con un fiammifero si stava accendendo una sigaretta. Giuseppe ne aveva contate undici dall’inizio del turno.
«Che io sappia, quattro. Uno di qui, uno di là. Uccide e poi scappa. Prima di quel ragazzino di dieci anni, a Faenza, ha strangolato un neonato in Spagna. Lo ha ucciso nella culla, mentre la madre era in cortile.»
Giuseppe guardò le carte ma non riusciva a concentrarsi. Tossì, scacciando il fumo di Enea.
«E a Faenza che ha combinato?»
Enea scosse leggermente il capo tra una boccata e l’altra.
«Ha ammazzato il figlio di un fabbro, poco fuori dal collegio salesiano. Gli ha spaccato il cranio con una pietra. L’hanno preso lì. Si è fatto trovare a piangere vicino al corpo del ragazzo. Anche i pazzi prima o poi crollano.»
Giuseppe annuì. Aveva un fratello di otto anni. Si immaginò di vederlo in quelle condizioni, con la testa spaccata, e gli venne il voltastomaco dalla rabbia.
«Ascolta, vado a pisciare» disse Enea alzandosi dalla sedia. «Tienilo d’occhio ma non ascoltarlo. Intesi? Arrivo subito.»
Giuseppe richiuse le sue carte in un mazzo e le strinse forte. Tenerlo d’occhio? Perché? si chiese. Poteva forse scappare? Di nuovo la paura si riappropriò delle sue articolazioni. No, quel lavoro non faceva per lui.
Tese l’orecchio. Dall’altra parte non si udiva più alcun suono. Che il prigioniero si fosse addormentato?
Si avvicinò alla porta e l’aprì lentamente. Dallo spiraglio, lo vide seduto in un angolo della cella. Incrociarono i loro sguardi. Lui aveva gli occhi rossi, le occhiaie e una pelle sottile che sembrava pronta a sgretolarsi.
«Lasciami andare. Ti prego!»
Giuseppe deglutì. Doveva chiudere la porta, subito! Doveva tapparsi le orecchie, dannazione. Enea l’aveva avvertito. Invece gli sfuggì un: «Perché dovrei? Sei un criminale!»
L’uomo pianse, mettendosi le mani nei capelli.
«L’ho fatto per me, per te, per tutti. Devi lasciarmi andare. Ci aspetta un mondo migliore.»
Questa volta, Giuseppe ebbe la forza di chiudere. Tornò al tavolo giusto in tempo per farsi trovare pronto all’arrivo di Enea. La guardia più anziana riprese le carte. Aveva l’espressione soddisfatta.
«Ci voleva. Dove eravamo rimasti?»
«Che ne sarà di lui?» chiese di getto Giuseppe.
Enea sospirò. Non sembrava tanto contento dell’argomento della serata.
«Che ne so. Marcirà in galera. Fosse stato per me, la pena di morte non l’avrei di certo tolta. Ma così han deciso.»
«E ne ha uccisi davvero quattro?»
«Minimo. Tre anni fa ha accoltellato un bambino di undici anni in Russia e l’anno dopo ne ha soffocato uno di un anno in Germania.»
«Non ha senso.»
«Dillo alla madre di Iosif o del piccolo Adolf. O a quelle di Francisco e di Benito. Può avere senso un pazzo omicida che dice di venire dal futuro? Il mondo è ingiusto, caro Giuseppe. Prepariamoci al peggio.»
«Già» rispose il ragazzo, mentre nella stanza echeggiò l’ennesimo Lasciatemi andare!