L’ombra di me stesso

La colpa, la pena, l’orrore in questo racconto si Serena Aronica, terzo classificato nella 114° Edizione di Minuti Contati con Andrea Cavaletto come guest star.

 
Il sole sta tramontando. Seduto nella mia poltrona, lo guardo annegare nel suo stesso sangue. In bilico sul filo dell’orizzonte annaspa come una testa recisa, e infine si scardina dagli ultimi tendini che lo legano al collo per precipitare nel buio.
Fumo l’unica sigaretta della giornata mentre mi gusto il macabro spettacolo della decapitazione del giorno.
E poi il buio divampa, come una fumata di fuliggine densa e grassa.
Solo quando le tenebre mi scivolano addosso, mi alzo dalla poltrona. Inizio allora ad accendere, una dopo l’altra, tutte le luci di casa. Mentre mi muovo, passando da una stanza all’altra, le sento sospirare. O questo è quello che mi sembra di sentire. È come se alitassero disperate, nascoste nelle ombre che si formano come pieghe dietro le porte o sotto i letti. Questa casa è enorme e offre un’infinità di pertugi bui in cui infilarsi a ragni, topi e spettri. Mentre salgo al piano di sopra, scruto oltre la balaustra. Il buio è vivido e ghiotto. Quando però la luce lo frusta, si ritrae come un miserabile scarafaggio.
Accese tutte le luci, finalmente posso provare a dormire.
L’unica parte della casa dove non mi avventuro dopo il tramonto, è la cantina. È un luogo umido, dove i muri hanno perso buona parte dell’intonaco e mostrano la nudità della pietra sottostante. Li giacciono vecchi mobili rosi dai tarli, paralumi ammuffiti, la carcassa di una piccola bicicletta e due corpi.
Tagliai prima la gola a mia moglie. Un taglio preciso e netto, inferto con il mio rasoio con il manico d’avorio. Un oggetto davvero pregevole. La lasciai dissanguare in solitudine. Tagliai allora la gola alla mia bambina. La mano però mi tradì, e il taglio risultò imperfetto. La sua tenera carne si era lacerata con facilità, come se avessi tagliato un lenzuolo di seta. Non era però abbastanza profondo. Fui così costretto a infierire. Le recisi quasi la testa. I sottili capelli biondi si erano tinti di una sfumatura ramata, e notai che quel colore le donava.
Nascosi i loro corpi in un’intercapedine nel muro. Poi le murai, nascondendo i loro occhi vitrei e spenti dietro mani di malta e mattoni.
A chi mi chiese che fine avessero fatto, risposi semplicemente che erano partite per l’estero dove le cure offrivano maggiori speranze.
Non potevo lasciare che il cancro divorasse le viscere della mia unica figlia, né che mia moglie piangesse la morte della sua bambina per il resto della vita.
Da quella notte, la casa è diversa. In un eccesso di buonismo potrei quasi arrivare a giurare che si è trasformata in una dimora stregata. Eppure, l’unica presenza inumana e diabolica che si aggira tra queste mura sono io.
Accendo le luci per poter vedere costantemente le mie mani assassine e scorgere il riflesso del mio viso su ogni superficie riflettente. È la mia punizione. Lascio la cantina nell’oblio rassicurante dell’oscurità, sapendo che dietro l’intercapedine ciò che ho amato lentamente imputridisce come l’intonaco e il legno della mobilia.
Infesterò questa dimora con la mia colpa, trascinandomi giorno dopo giorno tra queste stanze alla ricerca di un loro gesto di pietà.
Nell’aria sento l’odore del mattino. Inizio a spegnere le luci, una dopo l’altra. Mi sembra di sentire un sospiro. È un suono colmo di tristezza. Vorrei uccidermi, ma le priverei forse dell’unica vendetta. Quella di illudermi di essere ancora qui con me. Spengo l’ultima luce e nell’alba gelida e anonima di un nuovo giorno vacillo, come uno spettro.