MATER SEMPER CERTA

«Caffelatte! Passala a Caffelatte!» L’allenatore dalla panchina urla come un ossesso alla volta dell’ala destra. Manca una manciata di secondi alla fine del recupero del secondo tempo e siamo ancora fermi sullo 0 a 0. “Caffelatte” sono io, e sono entrata in campo due minuti fa.
Paola, l’ala destra, si distingue dalle altre giocatrici per la vistosa cresta ossigenata alla Balotelli, ma le somiglianze con il fuoriclasse di colore si fermano là. Il suo cross, impreciso e sgraziato, vola inutile verso il centro dell’area di rigore, dove ci sono solo la portiera e una terzina avversarie. Non sembra certo una palla pericolosa. Colgo l’opportunità e scatto in avanti. La terzina, voltata di spalle, non mi sentirebbe neanche arrivare, non fosse per la portiera che le grida: «La Negra, cazzo! Hai la negra alle spalle!»
Troppo tardi, mentre si gira l’ho già superata, mi volto, faccio in tempo a vedere due cose: l’arbitro che sta portando il fischietto alla bocca e la palla che arriva, troppo alta per uno stop di petto, fra me e la terzina avversaria. Ringrazio di cuore la portiera che l’ha distratta, avrebbe potuto tentare di prenderla di testa e non mi sarebbe piaciuto darle un calcio sulla nuca.
“Papà, questa è per te!” penso. Poi scatto un balzo all’indietro e sono in aria. Il collo del piede coglie la palla al volo, preciso come una coincidenza sulle linee ferroviarie britanniche. Mentre sono ancora sospesa in aria, guardo la portiera lanciarsi a braccia aperte sulla mia rovesciata. Invano.
«GOAL!» urla prima di tutti mia madre, dagli spalti. Subito dopo sento l’erba che attutisce l’impatto sulla schiena e odo tre fischi netti e acuti che mettono fine alla partita. Ce l’ho fatta. Abbiamo vinto.
Mi chiamo Simona Maria Kira Bianchi, ho diciassette anni, milito da due nell’Aurora Desio, e con questo goal sono diventata capocannoniere della Serie B nazionale di calcio femminile.
Chi l’ha detto che ci sono solo degli svantaggi a essere nata di colore? Io non lo rimpiango di certo. A scuola era sempre così, anche quando giocavo con i compagni maschi: “Caffelatte la voglio io!” “Cazzo no! L’hai avuta anche la volta scorsa! Stavolta la voglio io, la Straniera!”
“Straniera”! Bisogna capirli. Non solo sono maschi adolescenti coglioni. Sono anche brianzoli (come me) e quindi razzisti (ecco, le somiglianze fra me e loro si fermano qui).
Mamma viene negli spogliatoi a farmi i complimenti. Mia madre è una bella signora (bianca) di trentaquattro anni, quindi mi deve aver avuto alla mia età, all’incirca. “Un peccato di gioventù”. Penso lo chiamino così i miei compaesani. Gli abitanti di Desio non sono certo famosi per la loro apertura mentale.
«E papà?» le chiedo.
Mamma fa la solita faccia addolorata, no, non è esatto… mamma fa la solita faccia “in colpa” che fa tutte le volte che le chiedo di mio padre. «Lo sai che è molto impegnato in fabbrica…»
Mio padre è stato un giocatore di Serie A, ai suoi tempi. Già! Anche niente male. Ora è un piccolo industriale brianzolo, la sua “fabbrichetta” paga le divise della squadra, anche se lui non vuole che si sappia. Verrebbe da pensare che sia fiero di una figlia che segue le sue orme, no? Certo. Se io fossi “davvero” sua figlia. O se almeno avessi lo stesso colore del nostro cognome…
No, davvero, non è un problema essere negra. (“Negra”, sì! Non ho mai capito perché dovrei evitare questa parola, d’altronde non mi posso certo definire “afro americana”, o sbaglio?).
No, il problema non è questo e nemmeno l’ignoranza e il razzismo della gente.
Il problema è avere un padre che… be’ si vede appena torniamo a casa com’è, mio papà. Non facciamo in tempo a varcare la soglia della nostra villetta familiare su tre piani, con la veranda, il garage e tutto, che papà comincia a urlare: «Porca puttana! È questa l’ora di tornare a casa? E la cena?»
Impegnato in fabbrica. Sì, come no.
«Ma caro, lo sai che Kira aveva la partita…»
«Simona! Chiamala Simona, cazzo.»
È peggio del solito oggi, e ha bevuto, sento l’alito anche se lui è ancora sulla scala a chiocciola, mentre noi siamo nell’atrio.
«Be’, comunque ho segnato il goal della vittoria, se proprio lo vuoi sapere. Sono capocannoniera.»
Mio papà si arresta sulla scala, si aggrappa al corrimano e fa una smorfia strana. Immagino che per un attimo non mi veda per quello che sono, una figlia adottata. Immagino che l’alcol gli annebbi la vista e mi veda sbiancata. Immagino, solo per un istante, che lui sia davvero fiero di me.
È un attimo. Poi mio papà stringe i denti, si porta l’altra mano sul petto, si accascia, perde la presa, rovina giù dalla scala. Io lo guardo immobile. Tanto veloce e a mio agio sul campo verde, quanto impacciata e incapace di reagire a casa.
Mia madre invece urla, butta via la borsa e le chiavi e corre da lui. Gli sorregge la testa con le mani e l’appoggia sul suo grembo.
«Chiama il 118!»
«Guarda che adesso è il 112, mamma» le rispondo con noncuranza.
«Che ti prende, Kira? Tua padre ha un infarto! Prendi il cordless presto!»
«Guarda che so benissimo che lui non è mio padre!» le urlo contro.
Mia madre scoppia in lacrime. Non l’ho mai vista piangere, prima. E allora anche in me si muove qualcosa. «Oh mamma… scusa, scusami…»
«Il… telefono…» riprende mia madre, fra i singhiozzi.
«Certo, certo.»
Chiamo il 112. Poi corro di nuovo da lei. I cinque minuti di attesa dell’ambulanza sono i più lunghi della mia vita. Mi credevo grande. Credevo che dopo anni di umiliazioni le avessi viste tutte, e che niente mi potesse toccare. Ma le lacrime di mia madre… Le lacrime di tutta una vita, trattenute finora, o piante di nascosto, di notte. No, queste lacrime, non le posso sopportare.
I paramedici arrivano e intubano l’uomo che mi ha sempre deluso, l’uomo che non mi ha guardata mai come una figlia, l’uomo da cui ho sempre e solo desiderato essere amata. E mentre lo portano via, mia madre, con me sulla soglia, mi afferra il braccio e finalmente mi dice la verità:
«Ti sbagli, Simona, sai? Lui è davvero tuo padre. Sono io che non sono… Insomma, vedi, la tua vera mamma si chiamava “Kira”, proprio come te. È morta dandoti al mondo…»
Cazzo! Ecco spiegata la mia bravura a pallone. Altro che le cazzate sui Negri che sono più bravi a calcio dei “Bianchi”. Cazzo, papà, allora il mio goal era davvero per te. Buon sangue non mente.

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