Mi vivi dentro

Quando la veterinaria ha detto “diagnosi nefasta” e ha suggerito l’eutanasia, io non le ho creduto. Sbaglia, mi sono risposta subito. Sbaglia perché la mia Astrid mangia come un leone nonostante perda peso, perché è forte. La chiamiamo “il gatto di titanio” da sempre.
Sbaglia perché ha tre anni, è ancora piccola.
Sbaglia perché ho scritto a mano tutte le medicine – cortisone, antinfiammatorio, antidolorifici – su un foglio a quadretti. Si chiama “piano di guarigione del gatto di titanio” e c’è chiaramente scritto che le cure vanno avanti per quattro mesi. Ce le hanno prescritte in quella stessa clinica meno di una settimana fa: sono passati cinque giorni.
 
Astrid non è un gatto comune. Io le parlo da sempre, e lei miagola sempre in risposta. Se le chiedi come fanno i dinosauri, lei miagola. Se le dici di parlare a bassa voce e lo fai con un filo di voce, lei riduce il suo sussurro a un miagolio. Ora nel suo trasportino è spenta, ha lo sguardo perso. Il pelo rasato qua e là, segno di tutte le visite, mostra il suo corpicino ossuto. “Non mangerà nulla” ci hanno detto, ma non la conoscono: Astrid ama il cibo. Ha imparato in pochi mesi ad aprire il mobile dove teniamo il bidone dell’umido e il cassetto dove teniamo le sue crocchette. Nel bel mezzo della notte mi sono trovata più volte costretta a correre in cucina per impedirle di rovistare tra i rifiuti.
Nel tragitto che ci separa da casa, allora, le pongo un biscotto e lei, sebbene accigliata e indispettita dall’ulteriore visita, lo prende. Gliene do un secondo e un terzo. Le sussurro che andrà tutto bene anche se ho le lacrime agli occhi. Ma io ci credo: andrà tutto bene. Se sbagliano sul suo appetito, sbagliano anche sulla diagnosi.
Dopotutto, fino a pochi giorni prima si era ripresa alla grande. Astrid è un gatto di titanio.
In radio Neffa canta.
Io sono qui, in un mondo che ormai. Gira intorno al vuoto, lontano dal mio sole.
 
Astrid esce dal trasportino e cade. Urina sul pavimento con gli occhi che si muovono frenetici a destra e sinistra, a destra e a sinistra. Il movimento dura svariati secondi. Mi spavento, ma non la lascio sola. Le apro tre diverse scatolette di umido e gliele lascio vicine. Lei si avvicina zoppicando, annusa e cade.
Mi accovaccio accanto a lei nel buio del bagno dove ormai vive da giorni piango disperata, colta da una consapevolezza: non parleremo mai più. Le dico che mi dispiace, che mi mancherà e che non la dimenticherò mai.
Lei fa le fusa e miagola di risposta.
 
Astrid non ha mangiato nulla.
Neppure il prosciutto crudo, neppure il lardo fresco. La guardo: il mio gatto di titanio che si muove caotica in una casa che sembra non riconoscere su zampe che non sono in grado di tenerla su. Cade, si rialza e va a sbattere contro il muro. Si trascina verso la lettiera, ma non riesce a entrarci e cade di nuovo. La inseguiamo con ogni forma di salume, ma lei rimane impassibile persino di fronte al cibo. Guarda noi ma sembra non vederci, disorientata.
 
Chiamiamo il veterinario: non merita di morire di fame.
Mettiamo Astrid nel trasportino un’ultima volta.
 
Le ho stretto la zampina mentre moriva. Mi ha dato un morso mentre il veterinario le stringeva il laccio emostatico: ho sperato che quel segno via non andasse mai.
 
Ho sperato che scrivendo questo potessi liberarmi, piangere ancora un’ultima volta tutte le mie lacrime, magari perdonarmi. Il segno sulla mano è andato via, ma lei no. Lei è un pensiero costante che attende sotto gli impegni, sotto la mia testa sempre piena. Lei è in quella canzone di Neffa.
La verità è che non serve a nulla: non puoi lasciare andare chi ti vive dentro.