Parole al vento

Ascoltare, parlare, avere il coraggio di dire la cosa giusta, unirsi, festeggiare, vivere. Il racconto di Simolimo vincitore della Special: Christmas Edition!

 
Era il 2025.
Le persone non ascoltavano più e le parole finivano al vento.
Stavano tutte là sopra, attaccate al cielo, ed erano talmente tante che la volta pendeva minacciosa, come la pancia del più grasso dei grassi, pronta a poggiarsi a terra e schiacciare ogni cosa.
La gente era impaurita, non sapeva cosa fare. Avevano provato di tutto: campagne pro ascolto, squadre anti menefreghismo, gruppi di recupero pazienza, ma le parole rimanevano sempre appiccicate lassù. Alcune erano così piccole da non vedersi quasi, altre oscuravano una casa intera e altre ancora erano tanto grigie che sotto c’era sempre il temporale. Dipendeva dal peso con cui le persone le avevano pronunciate.
La situazione era al limite, anche i rimedi. Si girava con ombrelli a forma d’orecchio, cappelli a coclea e cornetti nei timpani. C’era chi si tirava i lobi, chi schiacciava il trago e chi si circondava di gente con orecchie enormi, meglio se a sventola. Sui tetti spuntavano antenne a padiglione auricolare peggio che i funghi in autunno.
Ma la sera di Natale qualcosa cambiò.
Una bambina scappò di casa senza ombrello, senza cappello e senza nessun cornetto. Aveva orecchie piccole piccole e voglia di trovare un buco in cui infilarsi e non uscire più. Era passato un anno da quando papà le aveva urlato di stare lì, accanto a lui, ma lei no, non l’aveva ascoltato, voleva vedere le stelle che non c’erano più, e fiù! giù per la scarpata, e lui dietro di lei per salvarla.
Adesso babbo camminava col bastone, sempre col malumore appresso, e mamma lo sopportava a fatica e piangeva. Lei li guardava litigare, fissando il cielo carico di urla e le lacrime negli occhi.
Ma quella sera, persa chissà dove, vide le parole che ignorò: «Stella stai qui!» Erano grosse, cariche di nebbia e nere più del carbone.
Tuonò.
Stella si tappò le orecchie e strizzò gli occhi. Li riaprì fissi all’insù, coraggiosa, e pensò che, forse, se la scritta fosse scomparsa, papà sarebbe guarito e se papà fosse guarito, gli sarebbe passato il malumore e senza il malumore, mamma non avrebbe più pianto.
Tirò sui col naso, frugò nelle tasche e trovò un palloncino sgonfio. Lo fissò. Prese fiato, ci urlò dentro «scusa papà!» e poi prese a sbuffarci aria fino a che non fu bello teso. Lo liberò. Schizzò alto nel cielo, zigzagando nel dedalo di parole, e più l’urlo si diffondeva, più la scritta si dissolveva: nuvole, nebbia; poi tutto divenne aria.
E lei vide un puntino luminoso, la sua prima stella. Sul viso s’allargò un sorriso, nelle orecchie il richiamo di mamma e papà.
La trovarono, la strinsero e tornarono a casa. Da quel giorno, babbo non ebbe più il broncio e mamma tornò amorevole.
Era la magia del Natale, magia d’amore.
Nessun orecchio bionico avrebbe mai potuto salvare il mondo, ma un cuore pronto a capire sì e la notte di Natale di venticinque anni dopo, le stelle tornarono a brillare in cielo. Tutte.
E io sorrido come allora.

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