Un tratto a carboncino

Un futuro apocalittico, un presente da combattere, un passato da ricordare. Un racconto di Alberto Della Rossa.

 
Al boato seguì una profonda vibrazione. Polvere e qualche calcinaccio caddero dal soffitto di calcestruzzo, spaccato in più punti. Sotto terra era sicuro, le macchine non arrivavano. Senza nemmeno la volontà di cercarli uno per uno, si limitavano a braccare i sopravvissuti in superficie, con il solo scopo di ostentare superiorità. Non avevano necessità fisiologiche né spirituali, solo meccanica frustrazione da sfogare. Erano le macchine, e le avevano create gli uomini.
 
Timmie si intrufolò tra due putrelle sbilenche con agilità. Sentiva una leggera corrente d’aria sfiorargli il viso con dita gelide. A pochi metri di distanza, l’uscita in superficie riverberava di luce lattiginosa.
La neve sugli edifici in rovina vestiva la città di bianco e attutiva i suoni delle occasionali esplosioni. Il ragazzino sporse la testa oltre il muro. Il palazzo dall’altra parte della strada era ancora in buono stato. Forse avrebbe potuto trovare qualcosa di commestibile da portare al nonno.
 
Corse a perdifiato fino all’ingresso, a capo chino per non farsi vedere. Arrivato all’apertura si gettò nell’androne scuro, pochi istanti prima che dall’angolo opposto della strada sbucasse una sentinella. Dal sottoscala nel quale si era rifugiato, Timmie vide strisciare la figura aliena di metallo e plastica, grossa come la carcassa di un’autovettura. Simile a un’oloturia, gli aveva detto il nonno una volta. Anche se non ne avrebbe mai vista una, adesso sapeva a cosa assomigliava. A una sentinella a caccia di uomini.
 
Salì le scale, attento a non fare rumore. Non tutte le macchine erano grosse come le sentinelle. Alcune si aggiravano demolendo i rottami per recuperarne il metallo, altre, più piccole, perlustravano le città per distruggere qualsiasi immagine trovassero. 
Arrivò in cima al palazzo. In una delle stanze, alcune piccole sedie erano rovesciate per terra in mezzo a pezzi di intonaco caduti dal soffitto. Là dove vi erano arabeschi bruciati al posto del muro colorato, dovevano esserci disegni.
Era così che avevano messo in ginocchio l’umanità: avevano demolito la memoria della società passata, senza lasciarne traccia.
 
Al suo ritorno trovò il nonno intento ad armeggiare attorno a un albero fatto di rottami e lamiere. Al posto del puntale aveva messo una puleggia, recuperata chissà dove.
«Trovato nulla da mangiare?» chiese l’anziano.
Timmie tirò fuori dallo zaino due topi e un piccione.
«Un’ottima caccia, mi pare.»
Il ragazzo sorrise.
«Ho trovato anche questi» ed estrasse dallo zaino un carboncino e alcuni fogli ingialliti e spiegazzati. «buon Natale, nonno.»
Il vecchio sorrise sotto i baffi bianchi.
 
Al suo risveglio, Timmie trovò una sorpresa sotto l’albero di ferraglia. Un foglio arrotolato e legato con un vecchio spago. Il nonno lo guardò sciogliere il nodo con mani tremanti.
All’interno, vi erano raffigurati due volti, tratteggiati a carboncino con abilità.
«Quelli sono i tuoi genitori, Timmie» sorrise il nonno «non dimenticare mai il loro volto. Buon Natale anche a te, ragazzo.»

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