Vorrei poterti toccare

Un mondo senza sensi, umanità deturpata di se stessa, eppure non rimane altro che andare avanti. Un racconto di Eleonora Rossetti.

 
Non so perché mi ostino a piantonare l’ospedale.
Forse perché sono curioso di vedere se altri saranno più fortunati di me.
Forse perché non riesco più a sopportare lo sguardo fisso e inespressivo di mia moglie Marta, seduta al tavolo della cucina con una mia cravatta serrata tra le mani.
Forse perché non riesco più a pensare alla piccola Livia, con gli occhi vuoti e lucidi di pianto.
Forse perché non reggo più l’idea di essere diventato un fantasma, per colpa di un fottuto virus che si è propagato a macchia d’olio in poche settimane. Non so se nel resto del mondo l’epidemia sia scoppiata con altrettanta ferocia, ma la verità è che non m’importa più niente di niente da quando ho smesso di sentire.
Il pronto soccorso trabocca di ammalati, le ambulanze non si fermano un attimo. A che pro? mi chiedo. Non c’è cura. Tanto vale schiattare a casa propria.
Se ti va bene, muori.
Cambio fronte d’osservazione e scorgo Franco, il mio socio, seduto su una panchina, intento a tormentarsi le mani. Non ci sentiamo dal giorno in cui mi sono ammalato.
D’istinto, sventolo una mano per salutarlo.
Lui non risponde. È come se mi guardasse attraverso. Infine capisco.
Non può vedermi.
Né lui, né altri.
 
Salgo le scale appoggiandomi al vecchio corrimano, nella speranza di percepire ancora i bordi taglienti della vernice scrostata.
Niente.
Doris, la nostra tata, è sul pianerottolo e sta armeggiando con le chiavi. Quando spalanca la porta, ne approfitto per infilarmi dietro di lei.
«Doris…»
Non mi dà retta.
«Doris!»
Diavolo, eppure ho gridato. Solo quando la abbranco per una spalla, lei sobbalza, spaventata. Con mani tremanti, quasi vergognandosi, si picchietta le orecchie.
Udito.
Cristo, no, anche lei!
Non dico nulla, annuisco soltanto e le indico la cameretta di Livia. Lei si defila.
Se ti va bene, muori.
Se va male…
Se va male, il virus si fa una bella roulette russa con i tuoi cinque sensi. Con me… bang! Addio tatto, è stato bello.
Marta è dove l’ho lasciata, con la cravatta tra le dita. Gliela porto al naso. Lei inspira a fondo e singhiozza, mentre le lacrime le scivolano fino al mento. Gliele asciugo col dito, disperandomi di non sentire il calore del suo sale.
Cosa non darei per poterti toccare, amore mio. Toccare davvero.
«Señor…»
Doris conduce Livia per mano. Vedere mia figlia in quello stato, così rigida e insicura nei movimenti come se invece di quattro anni ne avesse novantacinque, mi fa venire voglia di strapparmi il cuore a coltellate. Tanto non sentirei niente.
Con loro, e con molti altri, il virus aveva quasi svuotato il caricatore. A Marta mancavano udito, tatto e vista. E a Livia… era rimasta l’ultima cartuccia.
Da un cassetto recupero un lecca-lecca. M’inginocchio davanti a Livia e glielo infilo in bocca, mentre le carezzo i boccoli biondi della cui morbidezza ho solo il ricordo. Lei succhia avidamente e sorride, ebbra di quel sapore che, ormai, ha un solo significato.
Sono a casa, tesoro, penso. Papà è qui.
E piango.

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