Vita

Vita

Il sole filtrava dalle persiane illuminando la grande camera da letto.
Giobbe fissava il soffitto. Aspettava.
Il corpo emaciato s’intravedeva a malapena sotto le pesanti coperte.
Allungò una mano cercando d’afferrare uno strale di luce, con l’unico effetto di rendere evidenti le macchie brune e le dita scheletriche.
Era in prigione. Una prigione di carne e sangue, in attesa che un giudice dichiarasse la sentenza.
La porta si spalancò, l’odore di canfora venne spazzato via da una ventata d’aria fresca.
«Ciao nonno» esclamò il ragazzo.
Giobbe sorrise, Marcello era l’unico che non aveva disgusto di quel corpo macilento.
La madre, sua figlia, veniva solo per dargli da mangiare o cambiargli il pannolone, non riusciva a sopportare quello che era diventato suo padre.
«Hai lasciato i denti sul comodino.»
Con una mano afferrò le due protesi e muovendole scimmiottava quella che una volta era la sua voce.
«Lavati le mani, e stai composto mentre mangi.»
Il vecchio sorrise ancora, una delle poche cose che gli riusciva.
Marcello si sedette a bordo letto facendo cigolare la molle.
«Quando ero piccolo mi raccontavi sempre una storia, oggi è il mio turno.»
Il tono frivolo venne sostituito da uno più serio e morbido.
«Tanti anni fa un uomo arrivo in città, senza un soldo, ma con tanta buona volontà…»
Il giovane narrava e il vecchio ricordava.
Il dopoguerra, il piccolo negozio di scarpe, un matrimonio felice finito troppo presto.
La sua vita usciva dalla voce del nipote carica di dolcezza e malinconia.
Il giovane sembrava un fiume in piena.
 
Un estate l’uomo era al mare, il nipote incurante degli avvisi si arrampicò sugli scogli per vedere i cavalloni che s’infrangevano. Il cielo grigio si stava aprendo, la tempesta era passata lasciando sugli scogli un carico di alghe. Il ragazzino scivolò proprio su quelle picchiando il sedere e ruzzolando verso i flutti. Una mano callosa lo afferrò e lo strattonò bruscamente.
«Cosa ti avevo detto?!» urlò l’uomo tirando un pesante ceffone al bimbo.
L’uomo lo portò a riva incurante dei singhiozzi e delle proteste.
«Vai da tua madre e non ci provare più!» L’uomo cadde a terra aspettando che il cuore rallentasse la sua corsa e che il bimbo fosse abbastanza lontano da non vedere le sue lacrime.
 
La storia continuò. Il tempo si dilatava, Giobbe sentiva le parole sempre più fioche, leggere, veniva trascinato via dal mare dei ricordi, solo la mano che stringeva la sua lo teneva ancorato al mondo.
Aprì gli occhi, specchiandosi nell’azzurro, il suo colore, il loro colore.
Marcello, si schiarì la voce, cercando di riprendere la narrazione, ma le parole si strozzarono.
Giobbe non si vergognava più delle sue lacrime, né il nipote delle sue.
Si vedeva riflesso in quelle iridi come in uno specchio.
Lui era la sua eredità, il suo lascito al mondo.
Ricordò la gioia quando la figlia gli disse «Ti somiglia» e le manine paffute gli stringevano il grosso dito.
Il respiro si fece lieve, lento, effimero.
Un ultimo sospiro «Grazie.»

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