Un Sapore di Sabbia e Fossa -di Luca Mazza

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ilVeltro
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Un Sapore di Sabbia e Fossa -di Luca Mazza

Messaggio#1 » mercoledì 26 aprile 2017, 14:57

-Pare autentica- Gli occhi di Bartakes lumeggiano sulla carta ingiallita. Attorno, cianfrusaglie e miraggi di ricchezza. –Dove l’hai fregata?-
-Vinta ai dadi- lo corregge Qem il baro. Il viso è un compendio di cicatrici, naso a pinna, sguardo duro – A un corsaro del Kaireddin, reduce da un abbordaggio. Era nascosta in uno scacciamalocchio- Lo mostra al mercante di reliquie. Una chincaglia opaca, ributtante.
–Il bafometto! A chi apparteneva?-
-Dice a uno strano frate. La cocca era infedele, bandiera d’Avignone-
-Un oscuro ordine papista. Intrigante. Quanto vuoi? - La voce fa pensare a un aspide in vesti di seta.
Il ladro sogghigna. –Non sarò un hakim, ma riconosco una mappa. Voglio la metà del tesoro a cui porta-

Il cartografo è prossimo alla pinguedine e mostra una barba canuta, in un mondo di cere e portolani.
Ma le apparenze sviano. Un tempo il suo kilis e il suo genio servivano il Solimano.
–Risale a mille anni fa. Lo vedete, il cartiglio di Tolomeo alessandrino?- li erudisce Piri Reis – Ma è generica. Indica un porto, letti di fiumi, gole, un punto indefinito nel deserto. Inoltrarsi senza le debite coordinate equivale a calarsi in una fossa di Carcasse.
Il cipiglio collettivo si fa perplesso.
–Forse la chiave dell’enigma è tra gli appunti cifrati, sicuramente postumi. MIC. Iniziali? O una data …1099, prima Crociata-
-Conosci un traduttore discreto?- taglia corto Bartakes.
–Serve qualcuno versato nelle arti arcane. Ma il suo pegno non sarà piacevole.
-E tu, cosa chiedi per il disturbo?-
Piri allarga le mani incallite dall’avventura. –Unirmi a voi nell’impresa.

-Una Corrotta!-
Disprezzo e sospetto per lo stambugio e la sua occupante.
Uno sgocciolio viscoso nella penombra, pregna di ampolle, grimori, feticci. La colofonia non occulta l’aroma acre e intollerabile della negromanzia.
–Si, Corrotta- enuncia il volto diafano, forato da ermetici globi pervinca –E donna, invelata, apostata d’Egitto.
-Non siamo inquisitori, Ipazia. Dà solo un’occhiata alla carta.
Le unghie grifagne della cabalista ricalcano i glifi immortalati sulla pergamena.
–E’ in Atbash. Un codice di demotico, talmudico e caldeo. Lo usavano i massoni.
-Sai tradurlo?- esita Qem.
Ipazia lo scruta:-Come tu sai tagliar borse.
Con fatica illumina il primo rigo.
-Acri! Ma certo!- esulta Piri –Piazzaforte cristiana e templare. La porta per il deserto di Rub al Khali- Bartakes lo incenerisce.
–Un itinerario audace- ride Ipazia –C’è un luogo dimenticato, nelle desolazioni del Grande Vuoto, che nemmeno i beduini osano esplorare: le rovine di Irem. Se è là che porta la mappa, vi servirà ben più della vostra sicumera. Il mito allude a un segreto innominabile sepolto tra le sabbie, difeso da trappole d’una astuzia mortifera. Le note sulla mappa potrebbero far luce su come neutralizzarle-
-Quanto vale la tua consulenza?-
-Tempo. Me lo pagherete lungo il tragitto. Vengo con voi.

Le Quarantene. Palafitte di terraferma ghigliottinate da una mezzaluna d’acciaio.
Un ghetto di fondachi, banchine e lupanari, invaso dalle immondizie e barricato di catene e triboli. Le ombre trasudano vizio e infezione.
Segui le grida, rauche, volgari. Parlano di dolore, l’obolo del sottomondo.
La calca olivastra preme sulla sabbia, i teschi disincarnati ghignano in cima ai punteruoli. Un’ arena clandestina. Chi trionfa diventa l’ eroe di una notte. Chi cade un macabro trespolo.
Non tutti sono qui per scommettere.
Le pupille impressionano ogni disumano fendente, i timpani registrano scricchiolii e lamenti che la mente aborrisce.
L’epilogo è un calante bestiale, sferrato con impeto tale da far del cranio una sola frattaglia. La mazza a bulbo si erge ad accattivare il cavernoso boato della folla.
Il re dell’obitorio è sazio. Si sfila l’elmo. Un Golia riplasmato dalle orge marziali, forgiato dal remo e dalla frusta. Nessuno gli si accosta, tranne un drappello di figure impaludate.
A interpellarlo è una voce muliebre e melliflua. –Come mai ci hai messo tanto, Orkhan?-
Una risata metallica, greve, da leone prossimo a divorare l’agnello. Non sorge dal gigante, che ha perso la lingua sulla lama di un negriero.
Viene da sotto il pettorale di bronzo ammaccato.
Le cinghie saltano, Piri, Qem e Bartakes sussultano. C’è un volto, incastonato nella carne martoriata, e due artigli grotteschi e mostruosamente mobili. Nelle iridi glauche divampa una perfida intelligenza, che latita nelle fessure del golem sovrastante.
-Il campione perde colpi. Presto dovrò trovarmi un nuovo socio- L’ironia non gli manca, malgrado l’orrore che circonfonde la sua esistenza.
-Cerchiamo una scorta, Orkhan. Qualcuno che valga per sei e costi per due- Bartakes è un barattiere nato.
- Il sangue si pesa in oro. Ogni notte perduta è una vittoria mancata. Cosa offrite?-
-Il quinto di un tesoro inestimabile- Qem sbandiera la mappa, Ipazia ammicca all’aborto deforme.
–Un quarto- sigla Orkhan – Come hai detto, costiamo per due-

I giorni dell’Alcione, sul Mar Grande. Legni possenti buscano l’infinito. Vascelli minori prueggiano sotto costa, eludendo a tutta randa pirati e marosi.
Marinai adusti con roncigli e archibugi badano che i giacchi non riesumino l’enfia mordacia di Carogne ansiose di trasformare le navi in necropoli galleggianti.
La Sherazad fa tappa negli avamposti del Levante.
Quando il tramonto ammantella i miseri porti, l’arsura minerale si illanguidisce nell’eco dei lazzi e dei battimani.
Spassosa, la brigata di saltimbanchi! Il lanciatore di pugnali sfregiato. L’indovina imbellettata di cerussa. Il truce forzuto e il gemello incassato nello sterno.
Bartakes saprebbe cavare acqua da una pietraia. La pantomima allontana i sospetti dalla compagnia, e copre la tariffa del capitano cipriota.
Di giorno gli avventurieri si ritirano sottocoperta. Piri compulsa pergamene e orienta compassi. Ipazia si grattugia nei fiordi di misteri esoterici, nell’umida e oscura cabina. Luce e caldo guastano i Corrotti, ma l’atramento le ha elargito altri, sovrumani talenti.
Orkhan riposa, vegliando a turno su se stesso. Qem affila i coltelli e dorme con la palpebra alla porta. Bartakes non dorme, ma sogna il tesoro che erigerà il suo harem e il dilemma della sua spartizione.
Dopo lo spettacolo, i diamanti di astri polverizzati tremolano nel guanto della notte. Ipazia li convoca sul ponte deserto. Siede su nasse arrotolate, sussurrando nelle tenebre liquide.
–Credo di aver tradotto la carta-
I cuori pesano nel petto come ragni di ferro.
–C’è un’arma, nelle sabbie antiche del Khali. Il commentatore parla di un’Eclisse. Un’arma mai vista dall’uomo, figlia di una civiltà più vecchia di Sodoma e del Diluvio-
-Scimitarre adorne di zaffiri!
-Tappeti volanti!
-Armate di automi d’oro!
-Lo ignoro- Il timbro della cabalista le recide sprezzante –So solo che chi controlla l’Eclissi diventa padrone di qualsiasi guerra.
Bartakes maschera con una domanda il ruggito del demone che coabita il suo ego:–Spiega anche come adoprarla?-
Ipazia partorisce una pallida smorfia:-Lo saprai all’ora opportuna.

Acri. Crocevia di tre continenti, ombelico dell’orbe cognito, fenice della Croce, dell’Islam e del Rinascimento.
La Sharazad sfugge all’azzurro e si adagia nel bitume del porto saraceno.
Il muezzin gorgheggia dai mozziconi della Moschea, smantellata per merlare gli spalti all’epoca del Flagello.
Gli angiporti cantano la melopea della promiscuità. I compagni si amalgamano a meteci, mendicanti, mamelucchi, eunuchi del Beylerbey, abissini all’asta, bucanieri turchi, savi ismaeliti, esuli copti. Si equipaggiano di funi, tende e provviste nei bazar turbolenti.
L’imminenza della spedizione accresce la tensione. Dopo un acceso diverbio, Orkhan è proclamato affidatario della mappa. Tutto si arrocchia quando si domanda un passaggio nel deserto.
–Avete i vermi sotto il turbante!- Anche l’ultimo cammelliere di Acri si picchietta la tempia.
Ormai annotta. Le note stridule di un nafil non migliorano l’umore tetro.
–Non una guida disposta a condurci nel Khali- ridonda Qem avvilito.
–Noleggiamo dei dromedari. In base ai dati ho redatto una mappa che …
-Non illuderti, Piri. Nessuno ci affitterà le sue bestie. E quandanche avessimo i dirham necessari, tra quelle dune saremmo spacciati al minimo imprevisto-
Bartakes condivide il pessimismo di Ipazia.
–Se è utile alla causa, avrei giusto voglia di sgranchire la mazza- interloquisce Orkhan dietro la coltre di lini che ammanta la sua controparte.
–Non capisco- si macera il mercante –Cosa temono i beduini? Gli scorpioni? Un’insolazione? Certo non i redivivi! Quella fornace calcina persino le ossa-
Uno storpio sguscia dalle ombre della piazzetta, quasi in risposta alla sua frase.
–La morte è in agguato là fuori- Le orrende ferite che lo deturpano annullano le proteste–La più abominevole che possiate concepire. Io c’ero quando le tribù si adunarono nell’Oasi di Ad, dieci volte mille, e Iblis si propagò di morso in morso come un incendio tra le stoppe!-
Agita i moncherini.
-L’ho mozzati prima che Shaitan potesse scodinzolarmi dalla bocca. Da allora il Male frequenta il deserto. Stavolta i morti non si disseccano, no, un sortilegio blasfemo li ha fusi in un unico leviatano, resistente al fuoco del Khali. Nessuno ha più il fegato di scendere le mura di Acri. I temerari che si arrischiano nel Grande Vuoto rientrano guaendo come ossessi, marci di follia. Le gilde premono per evacuare la città, ma il pascià venera il suo gretto potere, e ci condannerà tutti.
Benedico Allah per avermi reso cieco! Quando la Carovana piomberà come un ladro nella notte, la sua vista mi sarà preclusa-
Il profeta di sciagura sparisce con passo dispari, spargendo il gelo nella sera afosa.
Le parole esitano a fiorire.
Un uomo carambola in mezzo al gruppo, ricacciando le ansie. Braci verdi sotto un cespuglio falbo guizzano supplici sugli avventurieri.
–Fatevi da parte, cani- tuona un malintenzionato armato di zagaglia –Quel giaurro mi deve sei palanche di vetro- Due scagnozzi assentono snudando daghe ricurve.
–Hai alzato il gomito, eh cristiano?- lo apostrofa Qem.
Il biondo nega indignato:-Non parla di damigiane. Il vetro serve per le clessidre del mio carro Forsan-
Le falcate dei bruti macinano terreno.
Un lampo rianima l’espressione di Ipazia. –Intendi uno di quei trabiccoli a motu proprio?-
-Si. Ingranaggi in luogo di cammelli! Stavo per testarlo nel deserto, ma i debiti sono stati più veloci.
La maga scocca uno strale d’intesa a Bartakes.
–Orkhan, ti prudono ancora le nocche?-
Affiora un sorriso demente, e il montante di granito scassa una gabbia di costole. L’acciaio saetta ma la mazza frantuma la spalla che ha osato vibrarlo. Il vetraio tentenna. Un istante di troppo. Non addenterà più cosciotti, se mai riacquisterà i sensi.
–Tagliamo la corda. Le segrete di Acri muffiscono i bronchi- espone Qem con cognizione di causa.
–Mi chiamo Verardo d’Arcetri- si presenta il fuggitivo in sabir –Le mie officine sorgono dietro ai Crematori. Seguitemi.

Occhiate di sconcerto, nel laboratorio badiale. Congerie di ceramiche e vetri piombati, ingranaggi di rame e andranego, cingoli e cremagliere.
–Studio la fisica, le energie e ogni fonte di moto perpetuo: vapori, magneti, vento, lampi- si schermisce Verardo –A Salerno ho distillato un gas dall’atramento, ma è esplosa una pandemia. Il vescovo mi ha scomunicato. Per questo sono tra i leoni-
-Parlaci del carro Forsan- lo persuade Bartakes. La missione preme.
–Elementare e geniale, immodestia a parte. Si basa su clessidre e vasi comunicanti. Il propellente è la sabbia. Gli scappamenti la modulano, e quando si esaurisce basta risaturare il calibratore- L’atmosfera rimane fredda. –E’ più facile a farsi-
-Quanti culi può alloggiare?- va al sodo Qem.
–Un paio, se si stringono. Ma basta ampliare il telaio-
-Fabbrica un cocchio per sei, toscano, e ti aiuteremo a vararlo-
Lo sguardo dell’inventore si appanna di commozione. Non sa che il capolinea è l’inferno.

Un travaglio mulesco, ma di branco. Orkhan e Qem sfacchinano. Piri maestro d’ascia. Ipazia e Verardo ai progetti.
Quando dalla foschia di Acri si sfilacciano i primi raggi d’un sole malato, il favoloso mezzo di trasporto raggiunge e mantiene il suo moto uniforme sulle dune desolate.
–Stupefacente!- riconosce pensoso Bartakes nel riverbero delle sabbie –Il brevetto ti renderà una fortuna, cristiano-
Una cosa alla volta. Prima c’è il Rub al Khali.
Un oceano di cenere candescente, dove di cardinale c’è solo la prismatica sconfinatezza.
Il calore è tale che nelle rare oasi perfino acqua e terra faticano a stare separate. I palmizi non corroborano gli animi torturati, le semplici manutenzioni del Forsan costano sali e bestemmie. Ciò che per gli altri è un calvario, per Ipazia è un martirio.
La monotonia dello scenario è spezzata da rubri pinnacoli preistorici, simili a vertebre di draghi estinti.
Di notte il caldo asfissiante si dilegua, e le tende di pelli non frenano le voragini termiche.
Ogni goccia di vita sembra prosciugata, sulle antiche vie dell’incenso. Senza la mappa e il fiuto di Piri sarebbero perduti. E se la diavoleria del toscano dovesse guastarsi, il deserto li mummificherebbe in poche parasanghe.
Ma più la morte è pressante, più le passioni si fanno tenaci e i sogni vividi.
Qem è all’ultimo quarto di guardia. Si ridesta di soprassalto. Dev’essersi assopito un istante, il tempo di rimembrare il sapore del vino e il bacio sensuale d’una baiadera.
L’oriente è arrossato da una mucosa sanguigna, la mestruazione del nuovo giorno. Un’ombra barcolla, un compagno dalla vescica colma?
Il tizzone per poco non gli schizza dal palmo. La paura infradicia le dita.
–Ghoul- sbraita immergendo il coltello tra le orbite defunte. Nell’accampamento brindano panico e acciaio.
Marciano lenti e inesorabili, nell’alba emorragica, su arti ossuti come chele d’insetto. Hanno strappi che non sanguinano, i toraci a brandelli, i muscoli disseccati. I cervelli già morti rotolano nei detriti, ingabbiati nei teschi ma finalmente liberi.
–Da dove saltano fuori?- impreca Piri sciabolando l’ennesima gola già fessa.
–Sono gli ambasciatori della Carovana- mormora Ipazia stendendo l’unghia.
All’orizzonte lenteggia un profilo amorfo, cetaceo, abominevole nella sua rimaneggiante sinuosità.
Barrisce.
Un ululato di mille condanne articolate a un unico orrore senza requie, che abbrividisce la ragione.
I gangli di putridume eviscerano nuove larve di atramento e consunzione, attratte dalla vita come mosche dallo sterco.
–La clessidra si è inceppata! Orkhan, aiutami a farlo ripartire!- singhiozza Verardo.
Il gigante ripone la clava unta di cervella, uno sforzo ruggente e il carro ha il suo abbrivio.
–A bordo svelti-
Gli obbediscono Ipazia, il cartografo e Bartakes che perde il turbante. Per ultimo Orkhan, i bicipiti infiammati dall’esaustione.
–Qem!-
Tutti si volgono. Il bivacco brulica di risaliti come una stiva di topi. Un collare di fauci bavose si serra sul ladro, ginocchioni sulla sabbia innaffiata di sangue.
–Devono averlo ferito- borbotta Bartakes con fatalismo.
Sul filo della sua scimitarra lo scarlatto si mescola al nero.

La morte ha spiegato la sua ala di corvo, e il viaggio è un delirio nei reami del Nulla.
Gran parte delle salmerie è andata. Calura e gelo tengono la ferza dal manico. Gli sciacalli attendono.
Solo l’incoscienza, l’avidità e la sete dell’occulto li inchiodano al cimento, sul rasoio delle febbri e della pazzia.
Il Fato, sfidato nel suo grembo più ostile, ricambia lo sguardo ai cercatori.
Il veicolo si arena su un altopiano di sabbia stratificata, con il gemito di un cammello morente.
Verardo non fiata da ore, reclinato sui manubri. Ha una cera oscena.
Piri, nostromo terracqueo, lo rincuora:-Animo, cristiano. Se la mappa non mente la meta si stende in questa vallata-
L’inventore rantola. Solleva la kefiah. Gli occhi sono bianchi come il Cocito.
Il cartografo grida ma il liquore immondo gli niella la gota morsicata. La clava di Orkhan tonfa nel plenilunio, e il terrore si sublima in inchiostro.
–Lo sapevi!- Bartakes addita la cabalista, impassibile .
–E con ciò? Più bottino da spartire-
Il mercante incassa, poco convinto. Nelle iridi di Ipazia sfrigola un macabro bagliore viola.
Piri non mentiva. Sognante sotto lo zodiaco sta Irem dalle Mille Colonne.
Rovine dirute, eminenti dalla piana immobile come ossa dissepolte. Il piacere della scoperta sfuma nel timore della malvagia antichità che promana. Babele e la Sfinge vagiscono al suo cospetto.
Ipazia guida i superstiti nelle macerie di torri crollate. Ha tradotto gli appunti del templare, e sa come orientarsi tra quei millenni di silenzi infranti.
Bartakes la tallona, la mano al pugnale. Non vuole perdersi il meglio.
Si addentrano in un colonnato che ride sghembo nel mistero lunare. Il passaggio si fa ripido. Servono le ultime torce. Scalee interminabili, tortuose. I gradini si sgretolano, i passi calano di traverso.
Le tenebre paiono solide oltre il fascio dei lumi. –La mappa indica questo punto-
Rimosse spanne di polvere, ecco la botola cerchiata. Pesantissima. Solo Orkhan può rimuoverla, e il clangore si propaga assordante nelle fondamenta del complesso.
Un tanfo paleozoico essuda dall’orifizio. Le torce non penetrano il fondo dell’abisso.
Assicurano a uno sperone la fune più robusta, e quaranta cubiti quasi non bastano per calcare il sottosuolo, freddo come una tomba.
–Un corridoio verticale e senza appigli- bisbiglia Bartakes –Come facevano a risalirlo?-
Il quesito muore nello stupore della camera pentagonale. Pareti non di pietra, ma di un metallo nero, liscio come vetro. Dietro ad esse luci innaturali iridano geroglifici d’uno stile ignoto, che ritraggono epos preumani.
La fantasmagoria di affreschi abbaglia un emiciclo di sarcofagi di cristallo, tempestati di placche e gemme scintillanti.
–Allah è grande- Un tesoro che lo farà sultano. Bartakes snoda le borse e preleva gli scalpelli. Le grinfie di Orkhan si aggettano bramose dalla macchina di muscoli che lo incorpora.
Nessuno bada a Ipazia.
Si aggira tra le arche traslucide, ne pondera i fregi e i pulsanti alieni, si arresta. Gli indizi della pergamena e l’ambizione esoterica spingono le sue dita a completare gli arcani codici d’innesco.
Un allarme atavico sfolgora nella camera ardente.
–Cosa hai fatto, diavolessa?-
-Non agognavi il tesoro, mercante? Prendilo, è tuo-
Un soffio d’aria mefitica sibila dalla bara, insieme a un muro di gas diaccio. Daga, mazza e cuori palpitanti attendono che la bruma diradi.
Non è l’epifania a corrodere il senno, la summa di tutti gli archetipi che insidiano dalla nascita l’inconscio della razza. Ma la voce demoniaca, insinuante, che ordina a Bartakes di squarciarsi la gola e affogare nella propria cupidigia.
L’ombra evasa dal tempo si scaglia su Orkhan, così rapida da annullare il concetto di spazio. Lo artiglia, solleva come una spiga, e gli sradica il gemello dal diaframma insieme alla spina dorsale.
Gli ormoni della guerra sciabordano nei suoi apparati e nei suoi cerebri, mai realmente morti, perché non muore quel che è studiato per vivere in eterno.
I suoi tre occhi sovrasensibili bucano l’universo.
L’istinto artificiale di Eclisse si incentra sull’intrusa, che sembra immune ai suoi attacchi psichici e all’orrore evocato dalla sua comparsa.
C’è anomalia, corruzione nei tessuti dell’umana. Una corrente nera, primordiale, così potente da trascinare l’immortalità che i Serpenti di Cristallo gli hanno infuso in un gorgo più irreversibile del sonno criogeno.
–So che mi intendi, soldato- pensa Ipazia.
Eclisse annuisce telepaticamente.
–I tuoi generali e le loro armate sono sabbia fine nel deserto, ma oggi combatterai al nostro fianco per la battaglia finale.
Un cacciatore non può accettare ordini da una preda.
Ma la nuova Padrona ha un segreto oscuro, illogico e invincibile nei suoi atomi. Qualcosa che esula dal concetto di Vita e di Morte.
E poi gli offre la Guerra.
Le froge dell’Eclisse pregustano il ferro del sangue che sta per bagnare la terra.
Feroce e meraviglioso come il totem di un credo estinto Eclisse inarca le ali coriacee, in attesa che Ipazia la cavalchi.


Non è morto ciò che può vivere in eterno e in strani eoni anche la morte può morire.

Quando sento la parola "cultura" alzo il cane della mia Browning.

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ceranu
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Re: Un Sapore di Sabbia e Fossa -di Luca Mazza

Messaggio#2 » mercoledì 10 maggio 2017, 11:06

Ciao Luca,
uno dei punti deboli del tuo racconto, a mio avviso, è il registro linguistico troppo ricercato. So che te lo sentirai ripetere di continuo e capisco che sia voluto ma, almeno in piccola parte, devi tenere conto delle necessità del lettore. Mi rendo conto che questo non sia per forza un difetto, Forlani fa della forma ricercata un suo marchio di fabbrica, ma lui è Forlani e ha scritto un capolavoro come "I Senza-tempo". Il mio consiglio è quello di alternare momenti di alta scrittura ad altri in cui non metti a disagio il lettore ignorante come me.
Perso tra gli aggettivi ricercati, non sono riuscito a focalizzare nessuno dei protagonisti, probabilmente anche per via di una trama che necessitava di molto più sazio. In pratica hai condensato in 20000 battute quello che lo stesso Longo ha inserito in uno spazio dieci volte più grande.
Il lato positivo del racconto è appunto la trama solida, la padronanza del lessico (ho detto che mi metti a disagio, non che non mi piaccia) e l'ambientazione ben resa. Forse manca un po' d'originalità, ma credo tu abbia già fatto abbastanza.
Nel complesso è un buon racconto che, con un po' di limature, potrebbe trovare lo spazio per dare la profondità che manca ai protagonisti.
Ciao e alla prossima.

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marco.roncaccia
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Re: Un Sapore di Sabbia e Fossa -di Luca Mazza

Messaggio#3 » domenica 14 maggio 2017, 16:58

Ciao Luca,
tu non hai scritto un racconto ma il soggetto del primo romanzo di una trilogia!.
Trovo la voce narrante e il ritmo molto adeguati alla storia che racconti. Sono d’accordo con Francesco sul fatto che dovresti mitigare un po’ il tuo estro terminologico cercando di andare un po’ incontro la lettore. Io parto da una ricerca stilistica completamente opposta alla tua. Ricerco il modo più semplice e diretto di dire le cose. Ciò non mi impedisce di apprezzare il tuo stile, anche se, ripeto, a mio avviso andrebbe rivisto in funzione di una maggiore semplicità. La vicenda che narri, sulla falsariga dei Guiscardi (la caccia al tesoro) è ben articolata e la trama convincente anche se zippata nell’ambito del numero di battute concesse.

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Francesco Capozzi
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Re: Un Sapore di Sabbia e Fossa -di Luca Mazza

Messaggio#4 » martedì 16 maggio 2017, 0:05

Ciao Luca!

Correggimi se sbaglio, ma il racconto è in realtà un concentrato di quello che avresti voluto realmente dire ma che per colpa dei margini imposti delle battute, non hai potuto dire.
La pecca(non me ne volere), non voglio essere ripetitivo visto che ti è stato già detto, è che alcune parole sono troppo forbite e precludono a molte persone di potersi godere il racconto per quello che è. Forse è la prima volta che mi sento "inadeguato" davanti a un racconto ma ciò non vuol dire che non apprezzi il tuo vocabolario, semplicemente che per essere apprezzato al 100% deve essere destinato ad una cerchia ristretta di persone, se non vuoi far sentire spiazzati i "lettori della domenica" come me.

diego.ducoli
Messaggi: 265

Re: Un Sapore di Sabbia e Fossa -di Luca Mazza

Messaggio#5 » martedì 16 maggio 2017, 23:40

Ciao Luca
So che è stata una chiara scelta stilistica, ma devi alleggerire il racconto. La lettura mi è risultata veramente pesante in alcuni punti faticavo a tenere le fila del racconto.
Hai molto materiale ma devi dedicare un po' di tempo hai personaggi, fammeli conoscere amare/odiare. Tutto il racconto sembra troppo compresso, non ha lo spazio giusto per venir fuori.
Hai una storia , fammela vivere.

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