La classifica e i commenti di Marco Cardone

Regole speciali per la CENTESIMA di Minuti Contati!
Lunedì 12 giugno: DELLA ROSSA NIGHT
Mercoledì 14 giugno: FRASCELLA NIGHT
Lunedì 19 giugno: BERTINO NIGHT
Una serata per ogni Campione di MC (manca Bommarito causa impegni). Si potrà decidere di partecipare a una sola serata, a due o a tutte tre. Ogni Campione potrà partecipare alle serate degli altri Campioni. Ogni serata sarà trattata come edizione a se stante (quindi i racconti non verranno mischiati) e i partecipanti di ogni serata avranno una settimana di tempo per consegnare commenti e classifica. Ogni serata avrà divisione in gruppi in caso di superamento dei 13 partecipanti. Al termine della settimana di commenti e classifiche, a qualle degli autori si aggiungerà quella del Campione della serata e i migliori di ogni serata verranno raggruppati in un gruppone finale e commentati dagli autori (volontari) che non avranno ottenuto l'accesso alla finale e da guest (volontarie, tra quelle che hanno dato vita alla Quarta e alla Quinta Era). Sarà possibile accedere al Gruppo Finale con più di un racconto. Il vincitore del Gruppo Finale sarà dichiarato CAMPIONE DELLA CENTESIMA EDIZIONE.

Questa CENTESIMA EDIZIONE non sarà considerata come tappa della Quinta Era, bensì come PRIMA TAPPA del circuito de LO SCRITTORE DELL'ESTATE 2017.
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La classifica e i commenti di Marco Cardone

Messaggio#1 » mercoledì 19 luglio 2017, 17:11

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Marco Cardone è stato la guest star della SETTANTACINQUESIMA Edizione di Minuti Contati.

QUI potete acquistare il suo romanzo ITALIAN WAY OF COOKING.

QUI potete trovare l'intervista che ha rilasciato a Spartaco in occasione dell'edizione di cui è stato guest star.

QUI potete trovare un suo racconto presente sulla Vetrina di Minuti Contati.

Di seguito trovate i suoi commenti ai racconti finalisti della CENTESIMA e a chiudere la sua classifica.


COMMENTI

Sul gradino, di Ambra Stancampiano


Il racconto è ben scritto, ha un certo tocco, al netto di alcune scelte verbali leggermente opinabili e qualcosa che non ho capito (su tutto, il “sentore alle case basse”); mi lascia tuttavia perplesso su altri fronti. In primo luogo la verosimiglianza: non dico che la vicenda sia follemente incredibile, eh, solo non mi ha convinto. Un tredicenne tanto ribelle e una madre così succube, peraltro senza un contesto a giustificare tale rapporto (anzi, il legame con unico genitore dovrebbe essere molto forte da parte del figlio), un’indecisione tanto forte da far indugiare il protagonista addirittura per delle ore su un gradino (senza annoiarsi), la stessa titubanza che perdura poi per anni, peraltro sottraendo il valore metaforico che la scelta avrebbe potuto avere se avessi giocato diversamente le tue carte, sono tutti elementi che hanno fatto vacillare la mia sospensione dell’incredulità, benché il tipo di racconto ne richiedesse poca. Poi, insomma, non ho ben capito perché al lettore dovrebbe interessare questo spaccato, magari anche poetico, ma abbastanza fine a sé stesso, anche considerando che la vicenda non evolve ma, al contrario, si cristallizza in una stasi di lungo periodo.
E poi il finale. Fin qui diciamo che ce la siamo giocata fra difetti piccoli/medi, parzialmente compensati da una buona scrittura e dialoghi veloci; il finale però arriva davvero come una doccia gelata. Tirato via, senza un perché e anticlimatico, dà la netta impressione che non sapessi come terminare il racconto. Sarebbe un ottimo incipit per una storia più lunga, ma così a sé stante è davvero fastidioso. Alla prossima.

Il generale in barca, di Andrea Partiti

Mah, boh. Perché? Ecco, queste sono le prime reazioni a caldo. Una lunga serie di descrizioni meticolose a preludio di un’unica scena di qualche rilievo. Non sono rimasto molto colpito, lo ammetto. Inoltre il lessico è talvolta errato e le costruzioni di quando in quando pesanti. Alcuni esempi:
“Afferrata la sponda la avvicinò al molo…”
Capisco che volessi intendere il bordo della barca ma, per come hai scritto la frase e per dove si ambienta l’azione, significa che il vecchio afferrò la sponda del lago e l’avvicinò al molo (a parte che, se anche avessi usato “bordo”, avresti dovuto specificare “della barca”, per non incorrere in un errore formale di concordanza).

“…la scavalcò con una gamba (sempre la sponda) e si lasciò cadere all’interno (della sponda), dando tempo al rollio di riassorbirsi. Non riusciva a cavalcare la barca come faceva da giovane.”
Ecco, anche la scelta dei verbi mi lascia perplesso. Il loro senso proprio è piuttosto lontano da quello che intendevi trasmettere e, benché il significato si capisca e non arriverei a dire che ci siano veri e propri errori, avrei apprezzato scelte più semplici e coerenti, che so “quietarsi” per il rollio e “condurre” per la barca, o “arrestarsi” e “stare in barca”; insomma mi sembrano o imprecisioni marcate o artefatti orientati a una ricercatezza forzata e superflua.

Ancora, scrivi:

“Arrivato al centro del lago, in un punto non disturbato dalla corrente, ritirò i remi e li appoggiò sul fondo della barca, estraendo al posto una corta canna da pesca.”
Nulla di errato, ma quel “non disturbato dalla corrente” suona perifrastico e quel “al posto” del tutto superfluo. Insomma, se posso azzardare un consiglio, questa volta di stile, semplificherei e asciugherei.

Concludo con l’espressione “guadagnare un po’ di terreno”, stridente riferita a una superficie d’acqua.

Un peccato, considerando anche che, al netto di questi problemi, la scrittura è buona e certamente sopra la media.
Tirando le somme, comunque, per il mio gusto il problema principale del racconto è che succede davvero troppo poco. A essere precisi (ma senza entrare nell’accademico degli elementi costitutivi del testo narrativo), mi sentirei di definirlo a stento un racconto, pur considerandone la brevità; è piuttosto la descrizione di una scena di pesca, con il guizzo narrativo finale della liberazione del pesce, evento del quale, peraltro, non credo di aver appieno colto il senso; ho capito il rispetto per un fiero avversario, eh, ma non mi riesce di empatizzare nemmeno un po’ con un protagonista che, dal mio punto di vista, compie un gesto stupido. Non avrebbe infatti avuto motivo di torturare un pesce per ore solo per poi liberarlo e, dunque, non sarebbe nemmeno dovuto uscire a pesca; di converso, una volta uscito e dopo aver lottato a lungo, non avrebbe avuto motivo di liberare il pesce, a meno che non si voglia credere che lo scopo fosse il mero divertimento.
Certo, non per forza i personaggi devono compiere azioni che approviamo, però nemmeno il lettore è tenuto in tali casi a simpatizzare con loro o ad apprezzare il sottotesto della storia.
A presto.

Dettagli, di Sara Tirabassi

Racconto che presenta notevoli analogie con quello del pescatore (Il Generale in barca) ma che, a differenza di quello, riesce a trovare una chiave narrativa finale migliore per un lungo elenco di piccoli dettagli di per sé di scarso o nullo interesse.
L’ultima porzione di testo specialmente funziona bene, perché l’accoppiata di particolari inconsueti (su tutti, il divoramento della lucertola) e di una comprensione parziale fino all’ultima riga svolge bene il suo lavoro e riesce a tenere viva l’attenzione e incuriosire a un tempo.
Il racconto, tuttavia, non è esente da difetti. A parte anticipare in una certa misura la chiave di lettura finale (sarebbe stato meglio non suggerire nemmeno il motivo per il quale l’osservatore indugiasse tanto sui particolari), il testo pecca di scarsa precisione; in questo particolare contesto, intendo che c’è una bassa resa spaziale di quel che accade e del come. In altre parole, immaginare le scene non è sempre intuitivo e per riscostruirne la meccanica bisogna rileggerle e sforzarsi. Può sembrare un peccato veniale ma la fruibilità del testo, anche di uno così corto, ne esce menomata; non parliamo nemmeno di un testo più lungo.
Alcuni esempi:

“Agosto, esterno giorno”

Parti così, come stessi scrivendo una sceneggiatura, imponendo un’immagine; poi però, a distanza di poche righe, scrivi:

“Un rumore di campanelli, chiavi, catene mi scuote dal torpore: entra da sinistra un ragazzo”

Entra dove? All’aperto? E cosa sarebbero di preciso quei rumori? Posso immaginarmi una porta (anche se non vedo perché una porta dovrebbe scampanellare o comprendere delle catene, a meno di non ipotizzare un antico portoncino con un fermo a catena, qualcosa di talmente specifico che varrebbe la pena precisarlo e non pretendere che l’immaginazione del lettore faccia tutto da sé senza i puntelli minimi per svolgere il lavoro) ma allora avresti dovuto scrivere “esce da una porta sulla sinistra”. Solo andando avanti nella lettura scopro che ci troviamo in un portico, dettaglio che non dissolve comunque i miei dubbi. Si tratta del portico interno di un condominio? Hai scritto “esterno” rispetto allo stabile? Insomma, non riesco a capire cosa intendi davvero, anche se alla fine, per continuare la lettura, ho dovuto formarmi una mia immagine mentale; il punto è che rimarrò fino alla fine accompagnato dal dubbio di aver mal interpretato l’ambiente e sarò sempre incerto nella lettura dei fatti nuovi che descrivi, la cui comprensione si basa su quelli precedenti. Mi spiego meglio:

si gira verso l’esterno del portico. È davanti a me, fa ancora tre passi, si ferma esitante. Torna indietro e mi porge un volantino

Quale sarebbe l’“esterno”? Se parliamo di un portico aperto (un colonnato coperto rivolto verso uno spazio sgombro), perché il tizio è entrato con delle chiavi? Se siamo davvero in un condominio, perché il ragazzo è incerto? Ci vive, se ha le chiavi? Non ci vive e gli hanno solo aperto? Se ci vive, perché va avanti e indietro con dei volantini? Sta cercando la cassetta delle lettere? Allora non ci vive!

Insomma, non riesco a interpretare. Ma ancora:

Torna indietro e mi porge un volantino… Fa per allontanarsi. Vede il gatto. Arretra. Accelera ed esce da destra.

Ma che…? Troppe indicazioni di movimento e troppo vaghe e contraddittorie. Se il gatto lo intimorisce, si deve presumere che andrà nella direzione opposta all’animale. Provo a ricostruire i movimenti dopo la consegna del volantino: il ragazzo rasta fa per allontanarsi dopo aver portato il volantino, quindi lo vedo nella mia testa che cammina all’indietro, o fa il gesto di girarsi; vede il gatto (di cui evidentemente ha paura); dove lo vede? Non è precisato. Quindi arretra, ma nella mia mente stava già arretrando. Che fa, arretra di più? Boh. O magari si è girato per allontanarsi e si è trovato il gatto di fronte, quindi quando arretra, in realtà, si riavvicina al protagonista? Non saprei, anche perché non si sa dove sia il gatto. Allora prendo atto che il verbo precedente “allontanarsi” non significava arretrare: devo ricostruire la scena, e la lettura s’incaglia. Comunque procedo e trovo il rasta che arretra, poi accelera il suo arretramento ed esce da destra. Quindi cammina all’indietro più veloce? Oppure, se esce da destra, vuol dire che il gatto era a sinistra e il primo verbo “allontanarsi” era da intendersi “faceva per andarsene verso sinistra”? E poi, “esce” da cosa, di preciso?

Insomma, potrei andare avanti anche con altre parti (“entra de destra, esce da sinistra”) ma credo di aver reso.

Purtoppo l’approssimazione si estende anche al lessico, in più punti, rendendo il testo stridente qua e là:

“color Giamaica”
È come scrivere “color Italia”

“descrive con dovizia di allusioni il servizio offerto”
Non è vero. Descrive con dovizia di dettagli. “Allusioni” andrebbe bene se il servizio fosse solo lasciato intendere, mentre qui si tratta di un parrucchiere ed è molto chiaro cosa offra. A meno che la storia del parrucchiere non sia una copertura per, che so, un luogo di prostituzione, cosa che, ti assicuro, non traspare dal testo (e, aggiungo, renderebbe improbabile il volantinaggio)

“Lui si sposta davanti alla ciotola e bercia con cattiveria verso di me. Il vaso dei croccantini sulla cuccia è vuoto”

Intanto, ancora: dove siamo? Perché nell’androne di un palazzo (o ovunque ci troviamo, non l’ho ancora capito, anche perché l’abitazione del protagonista sembra essere lì, al piano terra, e mi sta venendo il dubbio si tratti di altro) c’è la ciottola del gatto? Poi: berciare mi pare più appropriato in riferimento a una voce, piuttosto che al verso di un animale (fatta eccezione per alcuni pennuti), ma qui posso sbagliarmi. Ah: i gatti hanno una cuccia (intendo costruita, come quella di un cane, non una cesta)? Chiedo davvero, non ne possiedo e credevo dormissero, che so, dove capita in casa, o al massimo su una coperta. In ogni caso: che ci fa all’aperto la cuccia del gatto?

“si fa piatto come una sogliola ed esce da sinistra con un brusco colpo di coda”

Qui la preposizione, a mio avviso, è errata. Se s’intende uscire da un logo chiuso per andare all’aperto, o in un altro luogo chiuso, è consentito dire “uscire da destra/sinistra”, ma se intendiamo solo muoversi verso una direzione, come in questo caso, la preposizione corretta è “a”. In poche parole: “a sinistra” indica andare, appunto, verso la sinistra; “da sinistra” indica al contrario movimento verso destra. Quindi perché non dire direttamente qualcosa tipo: “si fa piatto come una sogliola e svicola a sinistra con un brusco colpo di coda”?

Ok, il commento è già fin troppo lungo, quindi tiriamo le somme: molto lavoro da fare sul linguaggio, idea carina, colpo di coda finale che migliora la percezione complessiva. Ho il sospetto che il tema proposto non fosse semplice e avesse a che fare con i dettagli. In quest’ottica il racconto è promosso. Al di là del contest, invece, avrebbe bisogno di una sistemata (e poi potrebbe essere davvero carino, anche senza la pretesa di grandi contenuti).

Alla prossima

Il cacciatore di sguardi, di Raffaele Marra

Ciao. Cercherò di essere stringato. Premessa. La scrittura è sostanzialmente corretta, da un punto di vista formale. Da un punto di vista più tecnico, tuttavia, troviamo un punto di vista ondivago e difficilmente definibile. Usi un narratore onnisciente ma parti dalla prima riga con un punto di vista che più interno non si può: un uomo che fissa i suoi piedi che camminano. Siamo proprio dentro la sua testa. Suggerimento: in un testo così corto, dove non hai tempo e spazio, eventualmente, per giustificare la tua scelta con un pdv multiselettivo (entri ed esci nella testa di qualunque personaggio), scegli una linea e perseguila con coerenza. Io avrei usato un pdv interno, che restituirebbe meno certezze di quel che fornisci come narratore e rispecchierebbe la percezione di Nino del mondo, non per forza corretta. Inoltre, così facendo, avresti forse evitato le parti raccontate (tell), che avresti potuto mostrare rendendo tutto più interessante (e meno retorico). Faccio un esempio banale e buttato lì; costruendo qualcosa apposta e ragionandoci si può senz’altro fare di meglio. Vediamo: Nino desidera ardentemente il contatto umano; invece di “raccontare” questo fatto, puoi farcelo “vedere”:

Viso tondo, zaino grande, rada peluria sulle guance. Quindici anni al massimo. Alza lo sguardo da terra, sposta la testa come cercasse qualcosa. Forse ci siamo. Sorride… e agita una mano per salutare qualcuno alle mie spalle. Beh, dovevo aspettarmelo, in effetti. Però quello lì… Completo anonimo, di mezz’età, valigetta economica. Sembra solo anche lui. E ha qualcosa che… Aspetta, guarda di qua. Forza, forza, forza, sono qui. Avanti: vedimi! Ecco, ci siamo… contatto! Lo sapevo, lo sape…
… Merda! Un secondo. Forse meno.

Insomma, non pretendo sia granché (puoi anche scegliere una terza persona invece della prima che, personalmente, non amo, l’ho usata solo per marcare il contrasto e non lo farei se si trattasse di un mio lavoro) ma dovrebbe far percepire la differenza con:

“La gente lo affianca, lo incrocia, lo evita, o, molto spesso, semplicemente non lo vede.
Nino, muto e perso in una città troppo grande per essere sua, a volte prova a incrociare uno sguardo, scegliendo a caso nella moltitudine. Lo fa con il cuore che batte e le mani che tremano.”
(A parte che tremare in cerca di uno sguardo mi pare un po’ eccessivo).

Continui così anche dopo, per un totale di caratteri che avresti potuto, a mio avviso, usare in modo più efficace con un’altra impostazione.

Piccole note di stile.
Occhio alla posizione dei possessivi (e alla scelta di verbi e aggettivi):
“Guarda le scarpe logore perpetrare mansuete il suo solito, lento cammino”

A mio avviso suona molto meglio:

“Guarda le sue scarpe logore ripetere il solito, lento cammino”

E, infine, attenzione a espressioni un po’ retoriche e logorette:

una città troppo grande per essere sua
è solo, ovunque solo, eternamente solo (forever alone :D)
come un bimbo ai primi passi, o un vecchio agli ultimi
guance di pesca e profumo d’estate

Insomma, a mio avviso, l’errore in questo racconto sta nell’impostazione. Il pdv troppo esterno per questo tipo di racconto intimistico si è portato dietro una serie di conseguenze evitabili con una scelta diversa. Mi rendo anche conto, dalla lettura di altri racconti, che il tema deve avervi penalizzato non poco; in questi casi, IMHO, è a maggior ragione importante il giusto approccio.
Alla prossima.

La vita nonostante, di Maurizio Bertino

Il racconto, dal punto di vista formale, non ha nulla che non vada. Da un punto di vista sostanziale, invece, l’ho trovato abbastanza stanco. La tematica dell’immigrazione non è nuova, così come non lo sono le distopie. Non c’è nulla di male, ma non trovo una chiave di lettura fresca, hai puntato sul grottesco e sull’iperbole ma, senza preparare il lettore con le necessarie premesse, la tua ucronia risulta troppo poco credibile (e anche con la giusta preparazione, la vedo duretta far passare per normale lavoro l’eccidio di massa, senza nemmeno una sfumatura, mezza remora, un’autoassoluzione pretestuosa indice di una consapevolezza più profonda). Intendiamoci: non dico che non si possa usare un’ucronia volutamente iperbolica, anche intenzionalmente non verosimile, con intento provocatorio; si può fare eccome. Solo che la storia, per ottenere il suo obiettivo e insinuare quel sottile filo d’inquietudine, che probabilmente cercavi, dev’essere almeno plausibile, deve parlare di qualcosa che sì, ok, è difficile che accada, però… “se accadesse?”
In alternativa, un modo per far funzionare un’ucronia in uno spazio così ristretto è il classico twist finale che ribalta il pdv; qui hai anticipato molto il momento della rivelazione, persino “telefonata” (appena ho sentito parlare di “vagoni”, per contrasto con la normalità fin troppo ostentata della prima parte, la prima cosa che ho pensato è stata proprio che fossero pieni di esseri umani). Anche la parte finale, nella quale viri su un’altra tematica sociale, benché contigua, non ha alcun elemento innovatore degno di nota e risulta un po’ forzata nell’espressione “lesbicite acuta” (che poi, al massimo: lesbite acuta, non c’è motivo perché una famiglia medio borghese, per quanto bigotta, debba essere tanto ignorante).
Insomma, a mio avviso, da una parte lo stereotipo della famigliola felice è troppo spinto, quasi archetipico, dall’altra l’iperbole ucronica sulle conseguenze dell’intolleranza sono semplicistiche ed esagerate. I due fattori fanno mancare il bersaglio al racconto.
Comunque, ho apprezzato la scrittura. Alla prossima.

Troppo visibile, di Fernando Nappo

Carino. Ovviamente non è verosimile, e questo l’hai di certo messo in conto riguardo alla storia dell’invisibilità, ma non mi riferisco tanto a quella, quanto alle motivazioni per le quali al protagonista viene di volta in volta richiesto di vestirsi di più, che suonano un po’ forzate: avresti potuto sforzarti un po’ di più.
La chiusa poi è leggermente anticlimatica, avrebbe funzionato meglio se la moglie, dopo che il marito fosse riapparso, avesse chiesto: “perché questa scelta?” e lui avesse risposto: “Cercare l'invisibilità rende spesso fin troppo visibili”.
Dal punto di vista logico ti segnalo solo:
“La mogie si limitò a fissarlo, un sopracciglio alzato.”
A parte il refuso (mogie) non si capisce come possa fissarlo dopo che è diventato del tutto invisibile.
In ogni caso passa il messaggio, la storia è gradevolmente surreale e la scrittura è pulita, quindi promosso un po’ su tutti i fronti.

Versioni, di Riccardo Rossi

Ciao. Prima di tutto, il punto di vista. Stavo per scrivere che hai fatto vistosi errori di pdv, poi però mi è sorto il dubbio e ho riletto il racconto: tecnicamente, ne hai fatto solo uno, veniale. Il punto di vista è quello dell’operatore, quindi. Il problema sta nel fatto, a mio avviso, che hai scelto il punto di vista sbagliato o hai sottovalutato la forza del personaggio non portatore di pdv; inoltre hai effettuato una scelta tardiva, che l’errore veniale di cui sopra ha aggravato.
Mi spiego meglio.
Il passo che dirime la questione arriva a racconto già iniziato da un pezzo, quando entriamo nella testa dell’operatore per scoprire cosa ne pensa delle teorie degli ospiti dell’istituto. Fino a quel momento, sono stato libero di credere che il pdv fosse esterno o che, quando si fosse palesato, sarebbe stato quello della donna. È lei che ruba la scena, che dice le cose più interessanti, che accentra l’attenzione. Soprattutto, è lei che esprime il suo punto di vista mediante il racconto, quindi è quasi automatico calarsi nella sua prospettiva. Quindi, anche dopo aver letto la parte che rivela il pensiero dell’operatore, ho come rimosso l’informazione, cosa che mi è stata possibile perché, da lì in avanti, non hai più fatto incursioni nel pov dell’uomo e sei tornato apparentemente esterno. Poi c’è stato questo passo:
“L'operatore fece un sorrisetto furbo.”
È una frase che riflette il punto di vista di un osservatore esterno; certo, uno può anche percepire il proprio sorrisetto furbo, ma la cosa più intuitiva è che sia un’altra persona a vedere il sorrisetto e a interpretarlo come furbo. È, anzi, la classica frase usata per far percepire cosa pensino i personaggi non portatori di pov senza violare l’impostazione che ci si è dati. Quindi, la mia impressione inconscia che il personaggio più centrale avesse anche il pdv si è rafforzato. Quando infine sei tornato, in chiusura di racconto, nella testa dell’operatore, ho percepito questa cosa come un errore.
A mio avviso, il racconto avrebbe funzionato bene con un pdv esterno e un narratore presente quel tanto che basta per suggerire i pensieri dei personaggi descrivendone le reazioni o, al limite, suggerendone le emozioni (esempio: “parve attraversato dal sospetto che non fossero tutte balle”), anche se la soluzione non incontra tantissimo il mio gusto personale.
Volendo invece mantenere il pov dell’operatore, sarebbe stato necessario chiarire la cosa fin dal principio, e rafforzarne la percezione con più costanza. Avresti potuto dire: “osservò la signora da sopra il bordo fumante della tazza…”, “Con un computer magico – gli scappò da ridere e riuscì a trattenersi appena in tempo. Era abituato a quel genere di cose ma alcune, nonostante l’esperienza, riuscivano ancora a coglierlo di sorpresa”. Ok, sono solo esempi tirati giù al volo, ma credo rendano il concetto.
C’è poi il fatto che l’operatore, comprensibilmente scettico fino all’ultima volta che abbiamo avuto accesso ai suoi pensieri, si persuada di colpo, e senza motivo apparente cominci a ritenere credibile la storia della donna (altrimenti non rabbrividirebbe), cosa che mi ha fatto storcere il naso.
Nemmeno ho apprezzato l’accenno ai licantropi, davvero troppo svelto per capire cosa intendessi; ovviamente mi sono fatto un’idea: la realtà riplasmata in cui si ambienta la storia comprende nella sua quotidianità licantropi e, magari, altre creature magiche, tuttavia si tratta di una mia congettura e nulla mi conforta sul fatto di aver capito bene. Allora perché inserire un elemento che non aggiunge né toglie nulla? Anche il riferimento a Trump l’ho trovato un po’ forzato, a dire il vero: dico, hai un buon concept di base, sviluppalo e non deviare dalla strada maestra, specialmente se lo spazio a disposizione è tanto ristretto.

In tema di forma (e la cosa impatta anche sul discorso di prima sul pov), ti segnalo:

“Il calcolatore cambia il mondo. Inclusa me.” Sistemò un altro pezzo. Aveva quasi finito il suo puzzle guasto, realizzò l'operatore con un brivido involontario.

Quel “realizzò l’operatore” arriva davvero fuori tempo massimo, e sulla riga sbagliata. Sia chi parla che il soggetto della seconda frase è la donna. Se continui di seguito, senza andare a capo, il soggetto sottinteso di “aveva quasi finito” è sempre lei, perciò quando in corner lo cambi, siamo al limite dell’anacoluto. Inoltre, l’ambiguità alimenta il fraintendimento di pdv di cui già ho detto.
In definitiva, idea interessante, non certo nuova ma interessante, con un moderato twist finale e una forma scorrevole. Peccato gli errori nell’impianto e alcune deviazioni superflue.

Lag, di Eleonora Rossetti


Idea interesante, finale un po’ deludente. Non ho grossi rilevi da muovere sul testo, se non che la vicenda è un po’ troppo raccontata. Così al volo potrei suggerire lo sfogo con un altro astronauta per spiegare la faccenda del lag.
Peraltro, a questo proposito, devo dire che in un passaggio alcune implicazioni pratiche non sono immediate. Mi riferisco, in particolare, a questo:
“Ray non aveva avuto neanche il privilegio dell’annuncio in diretta, quella vera. Le sue lacrime di gioia, a quella notizia, si erano raffreddate nella latenza del segnale di risposta.
Il lag s’ingoiava anche i sentimenti.”
È ovvio che, con un lag tanto marcato, non si possano fare chiamate in diretta (eccezion fatta per un evento come il parto), a meno di non attendere eoni e perdere il filo fra una frase e l’altra. Infatti, correttamente, parli di videomessaggi. Perciò non capisco perché le lacrime di gioia di Ray si fossero raffreddate a causa del lag. Immagino intendessi che abbia risposto tutto contento alla notizia e le sue lacrime si siano raffreddate mentre attendeva il videomessaggio di risposta della moglie. In questo caso, lo specificherei meglio perché è necessario rileggere il passaggio per capire appieno.
Rilevo anche che lo SpaceSkype non mi sembra plausibile, visto che ci troviamo in un futuro molto prossimo, in cui la presenza dell’uomo nello spazio dev’essere trascurabile (lo deduco dal fatto che dici che si tratterà del primo uomo su Marte).
In questo passaggio:
“Ray era rimasto con la fronte contro lo schermo. Solo dopo qualche secondo, spense il microfono, crollò in ginocchio e scoppiò in lacrime.”
Puoi anche evitare il cambio di tempo verbale al trapassato.
Tuttavia, fin qui, ho parlato solo di dettagli, perché tali sono, mentre il vero problema è, a mio avviso, il finale. Ti dirò che, mentre leggevo il racconto, ero intrigato dall’idea ed ero davvero curioso di vedere dove saresti andato a parare. Certo, che qualcosa sarebbe andato storto e che sarebbero stati implicati i famosi 12 minuti era chiaro, ma questo non dipende da te, era semplicemente inevitabile. Ecco perché il finale mi ha lasciato un po’ così. Se avessi trovato un modo più originale per usare quel lag nel finale, sarebbe stato un lavoro molto migliore. Non saprei cosa suggerirti, a me viene in mente l’ipotesi che il tizio, in un attimo di disperazione, decida di farla finita ingerendo qualcosa, solo per vedere sullo schermo, tipo dieci minuti dopo, i medici che rianimano la moglie e lei che lo saluta con il figlio in braccio, quando ormai è troppo tardi per fare qualcosa contro il veleno. Anche questo non è il massimo dell’originalità, mi rendo conto; quel che vorrei passare è il concetto che la forza di un racconto, spesso, è racchiusa nelle ultime battute, quindi quei 12 minuti avrebbero potuto essere usati in modo più smart.
In ogni caso, in conclusione, il racconto è abbastanza buono e lo spunto ottimo, la realizzazione sopra la media (anche se c’è troppo tell) e i pochi difetti sono veniali. Peccato il finale ma, tirando le somme, promosso.

Camera 303, di Erika Adale

In questo racconto c’è una certa distanza tra la forma, molto buona, e la tecnica narrativa, meno convincente. L’idea non è per nulla nuova, ma devo dire che la buona forma e lo stile gradevole, nella prima parte, hanno tenuto alta la mia attenzione. Appena l’ambientazione è cambiata, però, ho capito dove stavi andando a parare. Oltre all’idea già vista c’è anche un fastidioso saltellare del punto di vista che, nello spazio di poche righe, passa da quello del tutto interno di un soggetto indefinito, declinato in un’immersiva seconda persona (che, per inciso, non funziona male), a quello di Alice, a quello estemporaneo dell’infermiere più esperto. Il problema è soprattutto quest’ultimo (“La ragazzina crede di essere ancora sui libri di scuola, pensa; imparerà la flessibilità sul campo”), che spezza la credibilità del narrato e stronca l’autorevolezza del narratore a un passo dalla meta (la fine del racconto).
Per il mio gusto, inoltre, la vicenda dell’ospite della 303 rimane decisamente troppo criptica. Anche solo con tre parole ben posizionate avresti potuto suggerire un’interpretazione plausibile dei fatti, e trasformare un’idea già vista in un’idea già vista ma con un guizzo in più. Ipotizzo: la donna potrebbe essere stata così risentita da volersi vendicare in qualche modo dell’uomo; la frase che l’ha fatta uscire dai gangheri, quella che lei detestava, era stata: “sei pazza come tua madre”, o roba simile. Oppure la donna potrebbe aver avuto cicatrici sul volto, come fosse stata brutalmente picchiata, e nella scena precedente la situazione immaginaria avrebbe potuto essere tanto idilliaca da suggerire, poi, l’esatto contrario, con pensieri tipo “meno male che il mio Pino ci protegge, non posso credere esistano al mondo bestie come quella di cui si parla al TG, capaci di ferire la propria famiglia; meno male che fra queste mura siamo protette dal male che c’è fuori…” Insomma, in qualche modo far intuire perché la donna è impazzita (ha ucciso il marito e la figlia? Il marito era in realtà un violento e ha tentato un omicidio suicidio cui lei è scampata? Altro?)
Ah: occhio che dopo i puntini di sospensione ci va uno spazio.
Insomma, tirando le somme, un racconto discreto che potrebbe migliorare parecchio.

Assenza, di Viviana Tenga

Il racconto si lascia leggere, anche se è quasi tutto tell, non ci sono dialoghi e, apparentemente, non succede granché. Accade però qualcosa all’interiorità della protagonista e questo, come in ogni storia, conferisce spessore e dà senso alla narrazione.
Attenzione alle ridondanze concettuali:
“… rifletteva su quanto poco avesse visto Fabio durante l’estate, in quelli che erano stati gli ultimi mesi della sua vita. E tutto perché Alex era geloso..”
“Non aveva quasi visto Fabio nei sui ultimi mesi di vita perché Alex era geloso.”
A parte questo e qualche apostrofo che avresti potuto usare, non trovo difetti. Semplice, senza pretese di originalità, ma efficace e con una buona chiusa. Con più spazio, o lavorando più di fino, si sarebbe potuto inserire anche un po’ di show in mezzo al tanto tell, ma il risultato finale, per me, è comunque buono.

Il grande inquisitore, di Giuseppe De Micheli

Ma perché? Dico, sei andato bene fino alla fine, e poi hai chiuso come un episodio qualunque di “tales from the crypt”! C’erano tanti modi per terminare il racconto in maniera quantomeno passabile, e l’autofustigazione splatter fino all’ultimo centimetro di pelle non è fra questi. Peraltro, avevi la possibilità di descrivere un micro arco di trasformazione del personaggio, di far sì che si rendesse conto della sua follia e fargli prendere coscienza dell’orrore (che magari lui stesso aveva provocato). A quel punto, ti avrei passato anche l’autoflagellazione fino alla morte, magari non premeditata ma come raptus disperato. Mi vedo un fra Gerolamo agonizzante nella sua cella che gorgoglia e ride di follia, circondato da brandelli di carne, sangue e con le mutande piene di sperma. Così, invece, siamo semplicemente di fronte a un ottuso moralista che non acquista tridimensionalità, e la sua autoannientazione arriva come una doccia fredda e appare poco credibile, oltre che appena accennata.
Comunque il racconto è ben scritto, usa immagini vivide ed efficaci, non presenta errori evidenti e si lascia leggere molto bene. Ah, scusa la mia ignoranza, ma perché “sette piaghe” di Cristo? Non erano cinque? Ti confesso che quando hai scritto sette per un attimo ho temuto (e, in fondo, anche un po’ sperato) che stessi virando verso un futuro distopico in cui si venerasse Ken il Guerriero, al posto di Gesù :D
Vabbè, tirando le somme: comunque promosso, ma il finale ha sortito su di me effetti diametralmente opposti a quelli che il ricordo della peccatrice ha avuto sul buon frate.
Alla prossima.

Non dovevi farlo, di Giancarmine Trotta

Molto forte. Un po’ gratuito, in effetti, però di sicuro colpisce nel segno. Attenzione alla chiarezza (non dico formale perché capisco che la voce narrante possa avere i suoi limiti culturali, ma il senso logico e la comprensibilità bisogna mantenerli, a beneficio del lettore):
“Anche l'avvocato mi schifa e io, se potessi, gli vomiterei addosso tutta la rabbia che ho fino a bagnarmi del suo sporco sangue”
Ecco, l’immagine è poco chiara. Gli vomita addosso fino a farlo sanguinare? Il senso è molto intuibile: vorrebbe insultarlo e poi massacrarlo, ma detta così l’immagine restituita non è immediatamente comprensibile e perde un po’ della sua potenza.
Ancora:
“Urli, strozzata dal dolore”…
O urli, o sei strozzato. Si possono lanciare urla strozzate, ma le due cose a mio avviso vanno fuse in un binomio, altrimenti è un po’ come dire “corri, immobile sul posto”.
“Senza più forze resti immobile, fredda.”
No, fredda ci diventerà dopo qualche ora.
“… consapevolezza che per lui è finita. Le tue mani provano a difendere ciò che credevi essere la tua futura vita e si tingono di rosso”
Al posto tuo avrei ritardato quanto più possibile questa rivelazione. Ancora un paio di righe. Magari tre. Alla fine sarebbe stato perfetto.
Avrei anche tagliato la spiegazione esplicita:
“Sono passati anni da quando ti ho uccisa insieme alla tua creatura”
Avresti potuto lasciare tutto com’è, con lui che dice “non ti avrei mai divisa con un altro… mi hai tradita… bla bla bla…” e poi, solo alla fine, solo quando il lettore si sente ormai al sicuro, aggiungere una cosa tipo “se tornassi indietro lo rifarei, ucciderei di nuovo entrambi. Lo andrei di nuovo a stanare dove si nascondeva, piccolo bastardo, in attesa di prendere il mio posto. In cima al collo del tuo utero. Dentro di te.”
Ecco, avrei apprezzato di più una chiusa del genere con un twist da cazzotto nello stomaco che, per il tipo di racconto, sarebbe stato la ciliegina sulla torta.
Comunque devo dire che l’ho apprezzato comunque. La tua scrittura è efficace, mi ha passato malvagità, odio, mi ha reso insopportabile il protagonista, l’ha posto oltre ogni possibile redenzione. E alcune delle immagini sono davvero suggestive.
Quindi bravo, promosso appieno. Anche se avresti potuto fare ancora meglio.

Not Safe For Witches, di Mario Pacchiarotti

Partiamo da problemi: ci sono diverse scivolate di pdv. Mi riferisco a frasi come:
“ebbe la forza di sussurrare qualcosa che non giunse alle orecchie del notabile”
Solo il notabile sa se gli giunse o meno la voce, e non è decisamente il caso di andare a infilarsi nel pdv di un’insignificante comparsa.
“Scosse la testa contrariato: l’odio negli occhi della donna soverchiava persino il dolore”
Qui, invece, intravediamo il pdv dell’inquisitore, e la scelta non solo contrasta con la frase precedente ma, in generale, è poco felice per una serie di motivi, il più rilevante dei quali è che è meglio rimanere fuori dalla testa di un personaggio che nasconde un segreto, per correttezza verso il lettore, che potrebbe sentirsi ingannato se gli fossero rivelate solo alcune informazioni selezionate. Non è questo il caso, vista la lievità dell’incursione nella testa del personaggio, ma credo sia chiaro il principio.
“provocò un brivido in tutti i presenti”
No, addirittura dentro la testa di tutti no! Allora perché non entriamo anche nel pdv della strega e riveliamo il twist finale, scusa?
Ci sono poi espressioni apparentemente innocue come:
“si videro lacrime cadere a terra” e “Le urla della disgraziata avevano poco di umano”, che riportano comunque un punto di vista e delle impressioni (chi vide le lacrime? A chi parvero inumane le grida?) Il mio consiglio è di usare un narratore esterno, in una storia come questa, e di adattare tutto il lessico e la costruzione delle frasi attorno alla scelta. Quindi, in modo più semplice, descrizioni oggettive: “alcune lacrime caddero a terra”, “le urla della donna riempivano l’angusta segreta”, o simili.
Per il resto, null’altro da dire sulla scrittura, comprensibile, corretta e gradevole. Le immagini sono forti ed efficaci.
La sorpresa finale è ben gestita, il racconto in sé carino e vagamente simbolico. Nel complesso, promosso.
Ah: il titolo è pessimo.

Il male assoluto, di Marco Roncaccia

Boh, non so. Non che sia scritto male (a parte un passaggio confuso che ho dovuto rileggere due volte per capire: “Quando il signor Garri ha citofonato qui, l’ho seguito in ascensore e ci ho giocato dal primo al decimo piano”; non capivo chi fosse il signor Garri, calatomi così dall’alto, e la situazione non era chiarissima), solo che mi dà l’idea di un lavoro davvero gratuito. Chiaro che impressiona, chiaro che è tremendo, ma in questo modo è un po’ facile destare impressione. Insomma: divorare feti urlanti strappati dai grembi, colate di piombo fuso nelle vagine di vergini dodicenni rapite nottetempo alle famiglie, legare un paraplegico a un’affettatrice e azionarla partendo dai piedi, per vedere a che altezza il poveraccio inizia a sentire dolore.
Ecco: tutti siamo capaci d’inventare orrori innominabili basati sulla violenza, la follia e le paure innate dell’uomo. Ripeto: così è facile. C’è da dire che hai reso bene la scena della mutilazione, giocosa in modo disturbante, e che hai inserito un sadico twist finale che lascia il nostro dottore cieco, muto, mutilato e castrato ancora vivo, però al di là di questi dettagli non vedo poi molto. Non c’è un movente se non la follia, non c’è storia, sostituita dal compiaciuto sfoggio di atrocità, non c’è empatia con le prime due vittime.
Quindi, ribadisco: boh. Al tempo stesso non ne sentivo il bisogno, ma nemmeno posso dire sia un brutto lavoro in assoluto.
Postilla in fase di redazione classifica: la posizione è dovuta al fatto che, ripensando al racconto e rileggendolo, l’ho sentito superfluo. Ci sono lavori con problemi tecnici e/o scritti peggio, però il tuo non ha avuto uno slancio, a differenza di altri, che me lo facesse preferire. Per quel che vale, mi sembri perfettamente in grado di scrivere bene, quindi non me ne volere per il piazzamento, sono sicuro che hai nel cassetto storie molto migliori e i mezzi per raccontarle.

Un nuovo inizio, di Roberto Romanelli

Mi scuso: è l’ultimo racconto e sono un po’ stanco, quindi sarò sintetico. Ci sono diversi errori di punto di vista (parti con un pdv impreciso, ma più verosimilmente quello del capitano: “era sempre stata leggera”, poi ti sposti bruscamente su quello di lei quando lui sparisce) e il fatto che la frasi spesso non riescano compiutamente a descrivere la scena o l’azione non aiuta la lettura. Alcuni passaggi suggeriscono che parti della narrazione che avrebbero aiutato la comprensione sono rimasti nelle tua testa e le hai date per scontate in quanto a te chiare. Non vale per il lettore, che fa parecchia fatica a seguirti. Il twist finale fa sollevare un sopracciglio o poco più. Non trovo un senso per questa riedizione cyber punk di Peter Pan, a meno che non sia strettamente correlato con il tema del contest, ma anche così l’espediente mi sembra forzato e rivolto a suscitare meraviglia a comando.
La forma traballa in vari punti. Andando a memoria, cambi soggetto in un passo inserendo solo una virgola invece di un punto a capo, mentre altrove vai a capo, cominci la frase con un soggetto sottinteso che dovrebbe essere quello della frase precedente e, invece, lo cambi poi nella seconda parte della preposizione, raggiungendo il limite dell’effetto anacoluto.
Insomma, spassionatamente: mi sembra che tu possa scrivere bene, ma che ti sia impegnato/a poco in questa prova che, decisamente, non mi ha colpito.
Alla prossima.

CLASSIFICA

1) Assenza
2) Troppo visibile
3) Not Safe For Witches
4) Non dovevi farlo
5) Il grande inquisitore
6) Versioni
7) Dettagli
8) Lag
9) Camera 303
10) Il generale in barca
11) La vita nonostante
12) Un nuovo inizio
13) Sul gradino
14) Il cacciatore di sguardi
15) Il male assoluto



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