Non è il mio paradiso
Inviato: domenica 16 luglio 2017, 23:57
Truman si sedette al tavolo per fare colazione. Come ogni mattina da quando era lì, si chiese se avesse senso mantenere l'abitudine di mangiare, in assenza del bisogno di cibo. Ma se avesse iniziato a tagliare i legami con la realtà fisica, avrebbe davvero accettato di essere lì.
Prese l'ultima mela dal frigo, ne saggiò consistenza, colore e odore e la posò sulla tovaglia. Sembrava davvero una mela, così come lui stesso sembrava Truman in carne e ossa. Si preparò il caffè e sedette a tavola.
Strizzò due volte gli occhi, passò la mano sulla tovaglia. La mela non era più lì. Guardò a terra, sotto il tavolo, persino nel frigo per verificare di averla davvero presa. Nulla da fare.
Il software che gestiva la Nuova Realtà non era così perfetto come gli avevano raccontato.
Stava per riaprire il frigo, quando suonarono al campanello. Sbuffando, andò ad aprire: gli umani erano riusciti a eliminare gli scocciatori neanche quando avevano provato a costruire il paradiso.
«Posso entrare?» disse il Sindaco, senza preoccuparsi di nascondere il fastidio che provava nell'entrare in una casa fatta a immagine e somiglianza della Realtà di Origine.
«Come se fosse casa tua» disse Truman, scostandosi per farlo passare.
«Casa mia non potrebbe mai essere così banale» chiarì l'altro, accomodandosi nonostante nessuno lo avesse invitato a farlo. «Ne ho visti di nostalgici, ma tu li batti tutti. Sei qui da più di un anno standard e ancora non riesci a lasciati andare e a vivere secondo le infinite possibilità? Ti ostini persino e vivere in un Avatar anziano, identico al tuo corpo di origine.»
Truman gli si avvicinò, sedendosi di fronte.
«Te l'ho già detto. Ho chiesto la cittadinanza qui solo per seguire mia moglie. Se avessi saputo che lei, una volta qui, mi avrebbe lasciato così velocemente, sarei rimasto nel mondo fisico.»
«Ma ora non puoi più farlo, perché il tuo corpo è stato distrutto. Perciò smettila, per favore di inviare domande di emigrazione al mio ufficio. Non è che non vogliamo accontentarsi. Semplicemente, non possiamo.»
Truman alzò le spalle scettico: «Almeno, potreste permettermi di usare il mio corpo sintetico per poche ore la giorno. Questo mi permetterebbe di completare gli esperimenti che stavo conducendo nel mondo reale.»
«Perché perdere tempo a capire le leggi di un mondo che, ormai, non ci riguarda più?» Il Sindaco si allungò per battergli amichevolmente una mano sulla gamba. «E poi, ti prego di non chiamarlo mondo reale. Quello in cui siamo non è meno reale. D'altronde, cosa posso aspettarmi da uno che si è scelto un nome di cattivo gusto come Truman? In ogni caso, ti ridaremo accesso al tuo sintetico, quando capiremo che ti sei adattato alla Nuova Realtà. E, a quel punto, non ti interesserà più.»
Truman si alzò e gli indicò l'uscita. «Mi hai detto ciò che dovervi. Ora puoi andare.»
Il Sindaco si alzò a sua volta. Mentre si dirigeva verso l'uscita, si bloccò. Truman seguì la direzione del suo sguardo: il libro poggiato sul tavolinetto al centro del salotto, stava diventando trasparente, fino a sparire sotto i loro occhi.
«Santo cielo! Hai visto?» esclamò il Sindaco.
«Già. Vi vantate tanto della perfezione di questa Nuova Realtà, ma è piena di bug.»
Il Sindaco si voltò verso di lui con gli occhi sbarrati e il labbro tremolante: «Nessun bug. Una cosa del genere non dovrebbe succedere. Devo tornare nella Sala di Controllo, per capire cosa sta accadendo. Perdonami se, per farlo più in fretta, violerò la NR-etiquette.»
Detto questo la sua immagine si condesò in una sfera luminosa che schizzò via, lasciandosi dietro una scia gialla.
Truman guardò il tavolino, poi la scia.
Chissà che quei malfunzionamenti non avessero bucato le barriere software che gli impedivano di collegarsi al suo sintetico?
Prese le cuffie di connessione dal cassetto e le indossò.
Niente. La comunicazione era interrotta.
«Emergenza! Emergenza.»
La voce gli aveva parlato nella testa, facendolo sussultare.
«Chi parla?»
«Per fortuna ho intercettato un umano. Mi chiamo Fribot e la vostra realtà sta per essere distrutta.»
Fribot guardava l'altro della collina, dove i suoi fratelli lavoravano per manutenere il bosco, e un brivido di piacere gli accarezzò i circuiti. Più di due secoli di danni all'ambiente e ora loro stavano sforzandosi di rimettere tutto a posto.
Avrebbe voluto essere con gli altri, a ricostruire ecosistemi, ma lui era uno dei custodi delle chiavi del Paradiso, così lo aveva definito uno dei suoi creatori.
Si voltò a osservarlo il Paradiso che doveva custodire: una torre cilindrica, contente i server in cui buona parte degli esseri umani di quella zona geografica aveva riversato la propria mente. Cinquanta milioni di anime trasformate in reti di q-bit. Ci hanno detto che le porte del Paradiso erano strette e allora perché non costruircene uno tutto nostro?, gli aveva spiegato il suo padre umano.
Mentre era immerso nei pensieri, l'allarme ne reclamò l'attenzione. Qualcuno aveva violato il perimetro. Indulgeva sempre più spesso in riflessioni inutili e questo era il risultato. Aveva ragione chi aveva detto che robot troppo umani avrebbero cessato di essere utili. Più tardi si sarebbe autopunito, ma non era il momento. Ingrandì la visione del perimetro e individuò il punto il cui il recinto risultava danneggiato.
Si mise a correre, spingendo al massimo i muscoli artificiali e, nel frattempo si connesse al computer che gestiva l'edificio.
«P54, qui Fribot. Fammi un rapporto della situazione.»
«Un intruso è penetrato nell'edificio. Usa un emettitore di disturbi elettromagnetici che mette fuori servizio buona parte di telecamere e sensori.»
Intanto Fribot aveva raggiunto il recinto: il terrorista, così doveva considerarlo fino a prova contraria, lo aveva sfondato usando una piccola bomba con assorbitore sonoro, i cui resti erano sparsi tutt'attorno. Ecco perché non l'aveva sentito.
Passò attraverso la crepa e si affrettò verso l'ingresso. Non aveva bisogno dei sensori per individuarlo. Se l'uomo voleva attaccare l'infrastruttura, l'avrebbe fatto dalla stanza di controllo.
Nonostante la propria perfezione fisica, Fribot ebbe la sensazione di essere in debito d'aria: doveva limitare il funzionamento del sistema emotivo e rinforzare i circuiti logici.
Si sentì meglio. Era arrivato davanti alla porta della sala di controllo. Ora era pronto ad affrontare l'avversario.
Qualcosa non andava, però. La porta era chiusa e non si vedevano segni di effrazione. O l'uomo non era lì o era riuscito a forzare il sistema di riconoscimento.
Avvicinò l'occhio alla telecamera.
«Apri la porta, P54.»
Lo scanner esaminò la sinto-retina.
«Soggetto non riconosciuto. Prego, allontanarsi, prima che intervengano i sistemi di difesa.»
Nonostante l'indebolimento del sistema emotivo, Fribot ebbe la sensazione di vacillare. Com'era possibile?
Non aveva molto tempo, prima che P54 gli sparasse. Estruse un cacciavite dal dito e smontò velocemente il pannello dello scanner.
«Sistemi di sicurezza sotto attacco» annunciarono gli altoparlanti.
Fribot allargò il campo visivo: i cannoni laser stavano venendo fuori dalla parete.
Fece uscire dal dito le sonde ottiche, le allacciò ai circuiti e iniziò a trasmettere i segnali per riprogrammarlo.
I cannoni laser erano, ora, puntati su di lui.
«Interrompi l'effrazione o sarò costretto a sparare» annunciò l'alto-parlante.
«O avanti, P54, non mi riconosci?»
«Tre- Due. Uno. Fuoc... Fribot? Sei tu?»
I cannoni rientrarono e la porta si aprì.
Al di là delle pesanti ante di metallo, un uomo, vecchio ma ben piantato sulle proprie gambe, lo aspettava.
«Fermo. Cos'hai fatto al server?»
«Mi dispiace, robot, tu non puoi darmi ordini, ma io, in quanto umano, posso farlo a te. Lasciami passare.»
Fribot sentì le proprie gambe arretrare contro la propria volontà. Era da tanto che non gli capitava di aver a che fare con persone in carne e ossa e quasi aveva dimenticato la spiacevole sensazione delle Leggi delle robotica che prendevano il suo controllo.
Il server era in pericolo, ma non poteva fare nulla per fermare l'uomo che ce lo aveva messo. L'impotenza gli fece tremare le braccia.
Il vecchio parve accorgersene: «Scusami, robot. Non piace abusare di te» disse, indicando gli arti di Fribot. «Ma lo faccio anche per te. E, ora, non mi seguire. È un ordine.»
Il vecchio corse via, a una velocità insospettabile per un uomo così pieno di rughe.
Appena riuscì di nuovo a muoversi, Fribot entrò nella sala di controllo. Gli basto connettersi a P54 per capire che qualcosa non andava a livello di software; i dati erano così fuori scala che non ebbe nemmeno un dubbio su quale sarebbe stato l'esito del processo avviato dal terrorista.
Doveva avvisare le anime che abitavano lì dentro. Si connettè all'interfacca di comunicazione e individuò una mente che, nella Nuova Realtà, stava cercando di connettersi all'esterno.
Si mise in comunicazione con lui.
«Chi parla?» disse quello.
«Per fortuna ho intercettato un umano. Mi chiamo Fribot e la vostra realtà sta per essere distrutta.»
Truman si guardò attorno, spaesato, prima di capire che la voce arrivava dal canale che aveva aperto col mondo primario. Doveva essersi imbattuto in un software senziente, messo lì per controllare che non provasse nemmeno a contattare il proprio sintetico.
«Chi sei? Che vuoi? Sei un cane da guardia inviato dal Sindaco?»
«No! Sono il robot che effettua la manutenzione del server che vi ospita.»
Truman iniziava a capire: «Che succede?»
«Un uomo ha forzato l'ingresso del palazzo. Credo abbia fatto qualcosa al software che costruisce la vostra realtà: vi ha immesso dei bug che si stanno riproducendo velocemente.»
Truman ricordò la mela e il libro scomparsi davanti ai propri occhi.
«Sei riuscito a fermare quell'uomo?»
«Le Leggi della robotica me lo hanno impedito. Mi spiace.»
«Perché contatti me?»
«Eri l'unico con un canale aperto verso l'esterno. Ho bisogno di dare un'occhiata dall'interno, per capire cosa sta accadendo»
«D'accordo. Provo a chiamare il Sindaco per concederti il permesso di accesso.»
«No! È urgente: non abbiamo tutto questo tempo.» La voce del robot era alterata dall'emozione.
«Senza il permesso del Sindaco, non puoi entrare.,,» Un'idea, per quanto assurda, gli si presentò mentre stava parlando. «...a meno che non facciamo uno scambio: tu ti nasconderai nel mio avatar e la mia mente si trasferirà momentaneamente nel tuo corpo... così potrò dare anche la caccia al terrorista, visto che io non sono limitato dalle Tre Leggi.»
«Sì. Può funzionare» concluse il robot e, senza alcun avvertimento, Truman si trovò proiettato nel corpo sintetico di Fribot.
«Figlio di una buona donna!» rise Truman, assaporando, dopo troppo tempo, la gioia di essere nella realtà primaria.
Scoppiò in una risata, ma, subito, la voce di Fribot gli risuonò nella testa: «Che fai ancora qui? Chiudi la connessione e mettiti in caccia.»
Truman non esitò a obbedire.
Truman faceva fatica a tenere sotto controllo l'impulso di immergersi nel flusso di dati che arrivavano dai sensori del corpo robotico. Le immagini e i colori del bosco vicino, l'odore dei fiori, quello del cemento che costituiva la fortezza, violata, dei server, rumori vento, animali e persino il campo magnetico generato dai server e le trasmissioni, che si scambiavano le intelligenze artificiali a cui l'uomo aveva affidato a custodia del pianeta, affollavano la sua mente assetata di realtà.
Non che tutto ciò apparisse davvero più reale di ciò che vedeva nella Nuova Realtà.
«E allora perché ci tieni a tornare lì?» avrebbe obiettato il Sindaco.
Truman aveva un'idea chiara della risposta: se un qualunque cataclisma avesse devastato quella Terra, tutte le realtà derivate, ospitate nei server sparsi per il mondo e collegati in rete, sarebbero scomparse. Ma se qualcuno avesse spento i server, quella realtà primaria, avrebbe continuato a esistere senza problemi. Questo semplice principio, però, sembrava non colpire in modo altrettanto forte la maggior degli umani ospiti della Nuova Realtà.
Ma non era lì per riflettere o per gustare le sensazioni di quel mondo. Non ancora.
Esaminò le memorie del robot e individuò l'immagine del terrorista e la mappa del territorio circostante. Non ci mise molto a capire che l'uomo doveva provenire da uno degli ultimi rifugi degli umani presenti in zona, probabilmente nella città di Phelsina.
Non era molto, ma poteva iniziare solo da lì. Non sapeva quanto tempo avesse e un poteva essere fatale per milioni di menti umani. Sperò che il robot avesse trovato una pista più chiara.
Strade luccicanti con macchine volanti, persone alte e sottili dai capelli argentati, nubi stellari, in cui le menti umani prendevano la forma di piccole astronavi velocissime, nubi di colori colme di sfumature intelligenti, riproduzioni di romanzi e film...
Fribot navigava in mezzo a quelle realtà riempiendosi di sensazioni fino ad allora sconosciute, ma, una parte dei suoi processi mentali era concentrata nell'inseguire l'onda dei bachi che si stava diffondendo in quell'universo multiforme.
«Tu! Non sei di qui. Chi ti ha dato il permesso di entrare nella nostra zona?»
Un gruppo di post-umani vestiti come criminali di vecchi film gli si erano parati davanti. Colui che aveva parlato indossava le sembianze di Hannibal The Cannibal. Controllò sulla mappa: preso dalla necessità di seguire le fratture della realtà, non si era accorto di essere finito in una zona sconsigliata.
«Non rispondi?» aggiunse un uomo vestito di bianco con bombetta e bretelle.
Frobot si guardò attorno: si trovava in un riproduzione di una strada malmessa di una vecchia metropoli. I palazzi erano cadenti, le strade erano piede di buchi e molte finestre sbarrate denunciavano lo stato di abbandono della zona.
Chi aveva progettato una zona realizzata in questo modo, non voleva lasciare dubbi sulle proprie intenzioni.
«Lasciatemi in pace o vi farò a pezzi» bleffò. Le Leggi gli impedivano di fare male agli umani.
Quelli risero, gli si strinsero attorno e iniziarono a colpirlo, ripetutamente. Il colpi esplodevano nel suo corpo virtuale espandendosi e, per la prima volta, Fribot capì il significato della parola dolore.
Mentre calci e pugni lo tempestavano, lui non riusciva a non chiedersi perché mai gli umani non avessero cancellato il dolore dal Paradiso e com'era possibile che quegli uomini stessero danneggiando il suo avatar, se lo scopo principale della Nuova Realtà era l'immortalità... Poi capì. Non sarebbe dovuto succedere! Quel gruppo di teppisti aveva manomesso, in quella zona, le regole di base.
Fribot di sfruttare quelle modifiche a proprio vantaggio. Ma lo avrebbe fatto con molta più immaginazione: sentì le proprie membra rispondere ai cambiamenti a cui le stava sottoponendo. Mentre le braccia si irrobustivano e diventavano squamose, gli assassini non parvero accorgersi di nulla. Quando il proprio viso iniziò ad allungarsi e gli occhi a ingrandirsi, qualcuno iniziò a indietreggiare. Allora, Fribot accelerò la trasformazione, crebbe e iniziò a sputare fuoco.
Gli uomini del branco iniziarono a correre per scappare dal drago gigante in cui Fribot si era trasformato, ma lui ne pestò un paio, ne incenerì un altro, ne mangiò un altro ancora. Solo allora capì il significato di ciò che stava succedendo: in quella Realtà lui non era vincolato al rispetto delle Tre Leggi e non si sentiva neppure in colpa per aver ucciso quei post umani. Per la prima volta si sentì libero.
Stava per calare su Hannibal, quando l'uomo scomparve inghiottito dall'anomalia. Fribot vide un immensa crepa che si stava allargando, mostrando il buio del nulla. Fribot si mise a percorrere la crepa in senso opposto: prima di fermare l'attacco, doveva individuarnge il punto d'origine.
Trovare il rifugio del vecchio (così lo aveva identificato Fribot nelle memorie del corpo robotico) era stato più semplice di quanto Truman avesse immaginato. Gli era bastato raggiungere la vicina città di Phelsina, usare i sensi potenziati del robot per individuare le poche case ancora abitate del centro storico e fare qualche domanda.
E ora si trovava lì, davanti alla casa del terrorista: una vecchia abitazione al piano terra di un palazzo con più di cinquecento anni.
Senza bussare, forzò la porta ed entrò. L'uomo stava seduto a un tavolo e mangiava una brodaglia dall'aspetto per nulla invitante.
«Ah, sei tu?» disse, riconoscendolo. «Non demordi, ma sappiamo entrambi che non puoi costringermi a parlare, perché ti hanno costruiti per essere mio schiavo e mio custode, in quanto essere umano. É per questo che ho fatto ciò che ho fatto.»
Truman non rispose, ma si limitò a sorridere, con il sorriso, così bello da apparire falso, tipico dei robot. Poi iniziò a muoversi verso di lui.
Il vecchio spalancò gli occhi. «Fermati!» ordinò.
Truman sentì che il corpo di Fribot provava a ribellarsi alla sua volontà e a obbedire all'ordine, ma riuscì a farlo proseguire.
Il vecchio, iniziò a tremare, ma riuscì a mettersi in piedi e a buttare per terra la sedia, interponendola fra sé e il robot.
«Fermati! È un ordine» riprovò, ma Truman calpestò la sedia, distruggendola, afferrò il vecchio per il bavero e lo sollevò.
«Forse riesci a infrangere la seconda legge e a disobbedirmi, ma non potrai vincere la prima, facendomi del male.»
Truman gli piegò all'indietro il braccio
«Argh» urlò il vecchio. «Mi hai convinto: mettimi giù. Parlerò.»
Truman lo mise a terra, ma non mollò la presa: «Parla, allora.»
«Sono uno dei progettisti di Nuova Realtà, ma mi sono reso conto dell'errore che ho fatto. Allora ho immesso, nel sistema, un software che cancellerà cose, ambienti e anche gli esseri che lo abitano.»
«Non sono solo esseri. Sono persone.»
«C'è molta più umanità in te, che negli spettri che vivono nelle memorie di quei computer.» Il vecchio fece una carezza all'involucro robotico di Truman, poi riprese. «È per questo che l'avevo fatto. Noi non siamo più degni di questo mondo. Anzi, non lo siamo mai stati. È ora che il testimone passi a voi robot. Ma prima era necessario che vi liberaste dalla schiavitù, cioè nella razza umana.»
«No! Non puoi cancellare così miliardi di persone. Hai un antidoto? Devi darmelo.»
«D'accordo» sospirò l'altro. «In fondo mi hai dimostrato poco fa che, ormai, siete liberi dalle Leggi. Potete deciderlo il vostro destino, in piena libertà. In quel cassetto c'è una Stick Memory. Inseriscila nel quadro di controllo. Fermerà il processo. Sempre che non sia andato troppo avanti.»
Avrebbe dovuto capirlo subito: se l'infezione era stata immessa attraverso il pannello di controllo, l'ingresso doveva essere lì, nella sede del virtuale del Municipio.
Quello che restava del Sindaco, che evidentemente ne era stato il vettore era lì, diviso a metà dal buco buio da cui si espandevano le crepe. Ormai, non c'era nulla che potesse fare: il codice maligno era cresciuto troppo, perché lui fosse in grado di fermarlo.
«Fribot, dove sei?» la voce che gli risuonò nella testa era quella di Truman.
«Nella stanza del Sindaco.»
«Ho qui l'antidoto, ma non so come utilizzarlo. Te lo passo attraverso la connessione; cerca di afferrarlo e metterlo in funzione.»
La mano di Truman si materializzò nella stanza. Fra le dita stringeva una sfera luminosa. Fribot l'afferrò, ne sentì il calore, piacevole e rassicurante, e la scagliò verso l'origine dell'anomalia.
I lembi strappati della realtà iniziarono ad avvicinarsi, con il rumore di mille terremoti in sottofondo. Le facce della stanza si fusero e le asperità della mancata coincidenza fra le immagini si cancellarono.
L'aspetto finale della stanza non sembrava più quello di una volta, constatò Fribot, confrontandola con l'immagine contenuta nelle memorie dell'Avatar. Ma, almeno, quel mondo era salvo.
«Ci siamo riusciti. Le persone cancellate dal software, però, non torneranno» annunciò Fribot.
«Nemmeno io tornerò. Mi dispiace.»
Truman chiuse il contatto e Fribot non ebbe il tempo di dirgli che non doveva dispiacersi: anche a lui andava bene così. Meglio una vita virtuale da essere umano, che una reale vincolata da tre leggi ineludibili.
Si sedette sulla poltrona del Sindaco, assunse le sue sembianze e aspettò che qualcuno arrivasse per vedere cos'era accaduto..
Prese l'ultima mela dal frigo, ne saggiò consistenza, colore e odore e la posò sulla tovaglia. Sembrava davvero una mela, così come lui stesso sembrava Truman in carne e ossa. Si preparò il caffè e sedette a tavola.
Strizzò due volte gli occhi, passò la mano sulla tovaglia. La mela non era più lì. Guardò a terra, sotto il tavolo, persino nel frigo per verificare di averla davvero presa. Nulla da fare.
Il software che gestiva la Nuova Realtà non era così perfetto come gli avevano raccontato.
Stava per riaprire il frigo, quando suonarono al campanello. Sbuffando, andò ad aprire: gli umani erano riusciti a eliminare gli scocciatori neanche quando avevano provato a costruire il paradiso.
«Posso entrare?» disse il Sindaco, senza preoccuparsi di nascondere il fastidio che provava nell'entrare in una casa fatta a immagine e somiglianza della Realtà di Origine.
«Come se fosse casa tua» disse Truman, scostandosi per farlo passare.
«Casa mia non potrebbe mai essere così banale» chiarì l'altro, accomodandosi nonostante nessuno lo avesse invitato a farlo. «Ne ho visti di nostalgici, ma tu li batti tutti. Sei qui da più di un anno standard e ancora non riesci a lasciati andare e a vivere secondo le infinite possibilità? Ti ostini persino e vivere in un Avatar anziano, identico al tuo corpo di origine.»
Truman gli si avvicinò, sedendosi di fronte.
«Te l'ho già detto. Ho chiesto la cittadinanza qui solo per seguire mia moglie. Se avessi saputo che lei, una volta qui, mi avrebbe lasciato così velocemente, sarei rimasto nel mondo fisico.»
«Ma ora non puoi più farlo, perché il tuo corpo è stato distrutto. Perciò smettila, per favore di inviare domande di emigrazione al mio ufficio. Non è che non vogliamo accontentarsi. Semplicemente, non possiamo.»
Truman alzò le spalle scettico: «Almeno, potreste permettermi di usare il mio corpo sintetico per poche ore la giorno. Questo mi permetterebbe di completare gli esperimenti che stavo conducendo nel mondo reale.»
«Perché perdere tempo a capire le leggi di un mondo che, ormai, non ci riguarda più?» Il Sindaco si allungò per battergli amichevolmente una mano sulla gamba. «E poi, ti prego di non chiamarlo mondo reale. Quello in cui siamo non è meno reale. D'altronde, cosa posso aspettarmi da uno che si è scelto un nome di cattivo gusto come Truman? In ogni caso, ti ridaremo accesso al tuo sintetico, quando capiremo che ti sei adattato alla Nuova Realtà. E, a quel punto, non ti interesserà più.»
Truman si alzò e gli indicò l'uscita. «Mi hai detto ciò che dovervi. Ora puoi andare.»
Il Sindaco si alzò a sua volta. Mentre si dirigeva verso l'uscita, si bloccò. Truman seguì la direzione del suo sguardo: il libro poggiato sul tavolinetto al centro del salotto, stava diventando trasparente, fino a sparire sotto i loro occhi.
«Santo cielo! Hai visto?» esclamò il Sindaco.
«Già. Vi vantate tanto della perfezione di questa Nuova Realtà, ma è piena di bug.»
Il Sindaco si voltò verso di lui con gli occhi sbarrati e il labbro tremolante: «Nessun bug. Una cosa del genere non dovrebbe succedere. Devo tornare nella Sala di Controllo, per capire cosa sta accadendo. Perdonami se, per farlo più in fretta, violerò la NR-etiquette.»
Detto questo la sua immagine si condesò in una sfera luminosa che schizzò via, lasciandosi dietro una scia gialla.
Truman guardò il tavolino, poi la scia.
Chissà che quei malfunzionamenti non avessero bucato le barriere software che gli impedivano di collegarsi al suo sintetico?
Prese le cuffie di connessione dal cassetto e le indossò.
Niente. La comunicazione era interrotta.
«Emergenza! Emergenza.»
La voce gli aveva parlato nella testa, facendolo sussultare.
«Chi parla?»
«Per fortuna ho intercettato un umano. Mi chiamo Fribot e la vostra realtà sta per essere distrutta.»
Fribot guardava l'altro della collina, dove i suoi fratelli lavoravano per manutenere il bosco, e un brivido di piacere gli accarezzò i circuiti. Più di due secoli di danni all'ambiente e ora loro stavano sforzandosi di rimettere tutto a posto.
Avrebbe voluto essere con gli altri, a ricostruire ecosistemi, ma lui era uno dei custodi delle chiavi del Paradiso, così lo aveva definito uno dei suoi creatori.
Si voltò a osservarlo il Paradiso che doveva custodire: una torre cilindrica, contente i server in cui buona parte degli esseri umani di quella zona geografica aveva riversato la propria mente. Cinquanta milioni di anime trasformate in reti di q-bit. Ci hanno detto che le porte del Paradiso erano strette e allora perché non costruircene uno tutto nostro?, gli aveva spiegato il suo padre umano.
Mentre era immerso nei pensieri, l'allarme ne reclamò l'attenzione. Qualcuno aveva violato il perimetro. Indulgeva sempre più spesso in riflessioni inutili e questo era il risultato. Aveva ragione chi aveva detto che robot troppo umani avrebbero cessato di essere utili. Più tardi si sarebbe autopunito, ma non era il momento. Ingrandì la visione del perimetro e individuò il punto il cui il recinto risultava danneggiato.
Si mise a correre, spingendo al massimo i muscoli artificiali e, nel frattempo si connesse al computer che gestiva l'edificio.
«P54, qui Fribot. Fammi un rapporto della situazione.»
«Un intruso è penetrato nell'edificio. Usa un emettitore di disturbi elettromagnetici che mette fuori servizio buona parte di telecamere e sensori.»
Intanto Fribot aveva raggiunto il recinto: il terrorista, così doveva considerarlo fino a prova contraria, lo aveva sfondato usando una piccola bomba con assorbitore sonoro, i cui resti erano sparsi tutt'attorno. Ecco perché non l'aveva sentito.
Passò attraverso la crepa e si affrettò verso l'ingresso. Non aveva bisogno dei sensori per individuarlo. Se l'uomo voleva attaccare l'infrastruttura, l'avrebbe fatto dalla stanza di controllo.
Nonostante la propria perfezione fisica, Fribot ebbe la sensazione di essere in debito d'aria: doveva limitare il funzionamento del sistema emotivo e rinforzare i circuiti logici.
Si sentì meglio. Era arrivato davanti alla porta della sala di controllo. Ora era pronto ad affrontare l'avversario.
Qualcosa non andava, però. La porta era chiusa e non si vedevano segni di effrazione. O l'uomo non era lì o era riuscito a forzare il sistema di riconoscimento.
Avvicinò l'occhio alla telecamera.
«Apri la porta, P54.»
Lo scanner esaminò la sinto-retina.
«Soggetto non riconosciuto. Prego, allontanarsi, prima che intervengano i sistemi di difesa.»
Nonostante l'indebolimento del sistema emotivo, Fribot ebbe la sensazione di vacillare. Com'era possibile?
Non aveva molto tempo, prima che P54 gli sparasse. Estruse un cacciavite dal dito e smontò velocemente il pannello dello scanner.
«Sistemi di sicurezza sotto attacco» annunciarono gli altoparlanti.
Fribot allargò il campo visivo: i cannoni laser stavano venendo fuori dalla parete.
Fece uscire dal dito le sonde ottiche, le allacciò ai circuiti e iniziò a trasmettere i segnali per riprogrammarlo.
I cannoni laser erano, ora, puntati su di lui.
«Interrompi l'effrazione o sarò costretto a sparare» annunciò l'alto-parlante.
«O avanti, P54, non mi riconosci?»
«Tre- Due. Uno. Fuoc... Fribot? Sei tu?»
I cannoni rientrarono e la porta si aprì.
Al di là delle pesanti ante di metallo, un uomo, vecchio ma ben piantato sulle proprie gambe, lo aspettava.
«Fermo. Cos'hai fatto al server?»
«Mi dispiace, robot, tu non puoi darmi ordini, ma io, in quanto umano, posso farlo a te. Lasciami passare.»
Fribot sentì le proprie gambe arretrare contro la propria volontà. Era da tanto che non gli capitava di aver a che fare con persone in carne e ossa e quasi aveva dimenticato la spiacevole sensazione delle Leggi delle robotica che prendevano il suo controllo.
Il server era in pericolo, ma non poteva fare nulla per fermare l'uomo che ce lo aveva messo. L'impotenza gli fece tremare le braccia.
Il vecchio parve accorgersene: «Scusami, robot. Non piace abusare di te» disse, indicando gli arti di Fribot. «Ma lo faccio anche per te. E, ora, non mi seguire. È un ordine.»
Il vecchio corse via, a una velocità insospettabile per un uomo così pieno di rughe.
Appena riuscì di nuovo a muoversi, Fribot entrò nella sala di controllo. Gli basto connettersi a P54 per capire che qualcosa non andava a livello di software; i dati erano così fuori scala che non ebbe nemmeno un dubbio su quale sarebbe stato l'esito del processo avviato dal terrorista.
Doveva avvisare le anime che abitavano lì dentro. Si connettè all'interfacca di comunicazione e individuò una mente che, nella Nuova Realtà, stava cercando di connettersi all'esterno.
Si mise in comunicazione con lui.
«Chi parla?» disse quello.
«Per fortuna ho intercettato un umano. Mi chiamo Fribot e la vostra realtà sta per essere distrutta.»
Truman si guardò attorno, spaesato, prima di capire che la voce arrivava dal canale che aveva aperto col mondo primario. Doveva essersi imbattuto in un software senziente, messo lì per controllare che non provasse nemmeno a contattare il proprio sintetico.
«Chi sei? Che vuoi? Sei un cane da guardia inviato dal Sindaco?»
«No! Sono il robot che effettua la manutenzione del server che vi ospita.»
Truman iniziava a capire: «Che succede?»
«Un uomo ha forzato l'ingresso del palazzo. Credo abbia fatto qualcosa al software che costruisce la vostra realtà: vi ha immesso dei bug che si stanno riproducendo velocemente.»
Truman ricordò la mela e il libro scomparsi davanti ai propri occhi.
«Sei riuscito a fermare quell'uomo?»
«Le Leggi della robotica me lo hanno impedito. Mi spiace.»
«Perché contatti me?»
«Eri l'unico con un canale aperto verso l'esterno. Ho bisogno di dare un'occhiata dall'interno, per capire cosa sta accadendo»
«D'accordo. Provo a chiamare il Sindaco per concederti il permesso di accesso.»
«No! È urgente: non abbiamo tutto questo tempo.» La voce del robot era alterata dall'emozione.
«Senza il permesso del Sindaco, non puoi entrare.,,» Un'idea, per quanto assurda, gli si presentò mentre stava parlando. «...a meno che non facciamo uno scambio: tu ti nasconderai nel mio avatar e la mia mente si trasferirà momentaneamente nel tuo corpo... così potrò dare anche la caccia al terrorista, visto che io non sono limitato dalle Tre Leggi.»
«Sì. Può funzionare» concluse il robot e, senza alcun avvertimento, Truman si trovò proiettato nel corpo sintetico di Fribot.
«Figlio di una buona donna!» rise Truman, assaporando, dopo troppo tempo, la gioia di essere nella realtà primaria.
Scoppiò in una risata, ma, subito, la voce di Fribot gli risuonò nella testa: «Che fai ancora qui? Chiudi la connessione e mettiti in caccia.»
Truman non esitò a obbedire.
Truman faceva fatica a tenere sotto controllo l'impulso di immergersi nel flusso di dati che arrivavano dai sensori del corpo robotico. Le immagini e i colori del bosco vicino, l'odore dei fiori, quello del cemento che costituiva la fortezza, violata, dei server, rumori vento, animali e persino il campo magnetico generato dai server e le trasmissioni, che si scambiavano le intelligenze artificiali a cui l'uomo aveva affidato a custodia del pianeta, affollavano la sua mente assetata di realtà.
Non che tutto ciò apparisse davvero più reale di ciò che vedeva nella Nuova Realtà.
«E allora perché ci tieni a tornare lì?» avrebbe obiettato il Sindaco.
Truman aveva un'idea chiara della risposta: se un qualunque cataclisma avesse devastato quella Terra, tutte le realtà derivate, ospitate nei server sparsi per il mondo e collegati in rete, sarebbero scomparse. Ma se qualcuno avesse spento i server, quella realtà primaria, avrebbe continuato a esistere senza problemi. Questo semplice principio, però, sembrava non colpire in modo altrettanto forte la maggior degli umani ospiti della Nuova Realtà.
Ma non era lì per riflettere o per gustare le sensazioni di quel mondo. Non ancora.
Esaminò le memorie del robot e individuò l'immagine del terrorista e la mappa del territorio circostante. Non ci mise molto a capire che l'uomo doveva provenire da uno degli ultimi rifugi degli umani presenti in zona, probabilmente nella città di Phelsina.
Non era molto, ma poteva iniziare solo da lì. Non sapeva quanto tempo avesse e un poteva essere fatale per milioni di menti umani. Sperò che il robot avesse trovato una pista più chiara.
Strade luccicanti con macchine volanti, persone alte e sottili dai capelli argentati, nubi stellari, in cui le menti umani prendevano la forma di piccole astronavi velocissime, nubi di colori colme di sfumature intelligenti, riproduzioni di romanzi e film...
Fribot navigava in mezzo a quelle realtà riempiendosi di sensazioni fino ad allora sconosciute, ma, una parte dei suoi processi mentali era concentrata nell'inseguire l'onda dei bachi che si stava diffondendo in quell'universo multiforme.
«Tu! Non sei di qui. Chi ti ha dato il permesso di entrare nella nostra zona?»
Un gruppo di post-umani vestiti come criminali di vecchi film gli si erano parati davanti. Colui che aveva parlato indossava le sembianze di Hannibal The Cannibal. Controllò sulla mappa: preso dalla necessità di seguire le fratture della realtà, non si era accorto di essere finito in una zona sconsigliata.
«Non rispondi?» aggiunse un uomo vestito di bianco con bombetta e bretelle.
Frobot si guardò attorno: si trovava in un riproduzione di una strada malmessa di una vecchia metropoli. I palazzi erano cadenti, le strade erano piede di buchi e molte finestre sbarrate denunciavano lo stato di abbandono della zona.
Chi aveva progettato una zona realizzata in questo modo, non voleva lasciare dubbi sulle proprie intenzioni.
«Lasciatemi in pace o vi farò a pezzi» bleffò. Le Leggi gli impedivano di fare male agli umani.
Quelli risero, gli si strinsero attorno e iniziarono a colpirlo, ripetutamente. Il colpi esplodevano nel suo corpo virtuale espandendosi e, per la prima volta, Fribot capì il significato della parola dolore.
Mentre calci e pugni lo tempestavano, lui non riusciva a non chiedersi perché mai gli umani non avessero cancellato il dolore dal Paradiso e com'era possibile che quegli uomini stessero danneggiando il suo avatar, se lo scopo principale della Nuova Realtà era l'immortalità... Poi capì. Non sarebbe dovuto succedere! Quel gruppo di teppisti aveva manomesso, in quella zona, le regole di base.
Fribot di sfruttare quelle modifiche a proprio vantaggio. Ma lo avrebbe fatto con molta più immaginazione: sentì le proprie membra rispondere ai cambiamenti a cui le stava sottoponendo. Mentre le braccia si irrobustivano e diventavano squamose, gli assassini non parvero accorgersi di nulla. Quando il proprio viso iniziò ad allungarsi e gli occhi a ingrandirsi, qualcuno iniziò a indietreggiare. Allora, Fribot accelerò la trasformazione, crebbe e iniziò a sputare fuoco.
Gli uomini del branco iniziarono a correre per scappare dal drago gigante in cui Fribot si era trasformato, ma lui ne pestò un paio, ne incenerì un altro, ne mangiò un altro ancora. Solo allora capì il significato di ciò che stava succedendo: in quella Realtà lui non era vincolato al rispetto delle Tre Leggi e non si sentiva neppure in colpa per aver ucciso quei post umani. Per la prima volta si sentì libero.
Stava per calare su Hannibal, quando l'uomo scomparve inghiottito dall'anomalia. Fribot vide un immensa crepa che si stava allargando, mostrando il buio del nulla. Fribot si mise a percorrere la crepa in senso opposto: prima di fermare l'attacco, doveva individuarnge il punto d'origine.
Trovare il rifugio del vecchio (così lo aveva identificato Fribot nelle memorie del corpo robotico) era stato più semplice di quanto Truman avesse immaginato. Gli era bastato raggiungere la vicina città di Phelsina, usare i sensi potenziati del robot per individuare le poche case ancora abitate del centro storico e fare qualche domanda.
E ora si trovava lì, davanti alla casa del terrorista: una vecchia abitazione al piano terra di un palazzo con più di cinquecento anni.
Senza bussare, forzò la porta ed entrò. L'uomo stava seduto a un tavolo e mangiava una brodaglia dall'aspetto per nulla invitante.
«Ah, sei tu?» disse, riconoscendolo. «Non demordi, ma sappiamo entrambi che non puoi costringermi a parlare, perché ti hanno costruiti per essere mio schiavo e mio custode, in quanto essere umano. É per questo che ho fatto ciò che ho fatto.»
Truman non rispose, ma si limitò a sorridere, con il sorriso, così bello da apparire falso, tipico dei robot. Poi iniziò a muoversi verso di lui.
Il vecchio spalancò gli occhi. «Fermati!» ordinò.
Truman sentì che il corpo di Fribot provava a ribellarsi alla sua volontà e a obbedire all'ordine, ma riuscì a farlo proseguire.
Il vecchio, iniziò a tremare, ma riuscì a mettersi in piedi e a buttare per terra la sedia, interponendola fra sé e il robot.
«Fermati! È un ordine» riprovò, ma Truman calpestò la sedia, distruggendola, afferrò il vecchio per il bavero e lo sollevò.
«Forse riesci a infrangere la seconda legge e a disobbedirmi, ma non potrai vincere la prima, facendomi del male.»
Truman gli piegò all'indietro il braccio
«Argh» urlò il vecchio. «Mi hai convinto: mettimi giù. Parlerò.»
Truman lo mise a terra, ma non mollò la presa: «Parla, allora.»
«Sono uno dei progettisti di Nuova Realtà, ma mi sono reso conto dell'errore che ho fatto. Allora ho immesso, nel sistema, un software che cancellerà cose, ambienti e anche gli esseri che lo abitano.»
«Non sono solo esseri. Sono persone.»
«C'è molta più umanità in te, che negli spettri che vivono nelle memorie di quei computer.» Il vecchio fece una carezza all'involucro robotico di Truman, poi riprese. «È per questo che l'avevo fatto. Noi non siamo più degni di questo mondo. Anzi, non lo siamo mai stati. È ora che il testimone passi a voi robot. Ma prima era necessario che vi liberaste dalla schiavitù, cioè nella razza umana.»
«No! Non puoi cancellare così miliardi di persone. Hai un antidoto? Devi darmelo.»
«D'accordo» sospirò l'altro. «In fondo mi hai dimostrato poco fa che, ormai, siete liberi dalle Leggi. Potete deciderlo il vostro destino, in piena libertà. In quel cassetto c'è una Stick Memory. Inseriscila nel quadro di controllo. Fermerà il processo. Sempre che non sia andato troppo avanti.»
Avrebbe dovuto capirlo subito: se l'infezione era stata immessa attraverso il pannello di controllo, l'ingresso doveva essere lì, nella sede del virtuale del Municipio.
Quello che restava del Sindaco, che evidentemente ne era stato il vettore era lì, diviso a metà dal buco buio da cui si espandevano le crepe. Ormai, non c'era nulla che potesse fare: il codice maligno era cresciuto troppo, perché lui fosse in grado di fermarlo.
«Fribot, dove sei?» la voce che gli risuonò nella testa era quella di Truman.
«Nella stanza del Sindaco.»
«Ho qui l'antidoto, ma non so come utilizzarlo. Te lo passo attraverso la connessione; cerca di afferrarlo e metterlo in funzione.»
La mano di Truman si materializzò nella stanza. Fra le dita stringeva una sfera luminosa. Fribot l'afferrò, ne sentì il calore, piacevole e rassicurante, e la scagliò verso l'origine dell'anomalia.
I lembi strappati della realtà iniziarono ad avvicinarsi, con il rumore di mille terremoti in sottofondo. Le facce della stanza si fusero e le asperità della mancata coincidenza fra le immagini si cancellarono.
L'aspetto finale della stanza non sembrava più quello di una volta, constatò Fribot, confrontandola con l'immagine contenuta nelle memorie dell'Avatar. Ma, almeno, quel mondo era salvo.
«Ci siamo riusciti. Le persone cancellate dal software, però, non torneranno» annunciò Fribot.
«Nemmeno io tornerò. Mi dispiace.»
Truman chiuse il contatto e Fribot non ebbe il tempo di dirgli che non doveva dispiacersi: anche a lui andava bene così. Meglio una vita virtuale da essere umano, che una reale vincolata da tre leggi ineludibili.
Si sedette sulla poltrona del Sindaco, assunse le sue sembianze e aspettò che qualcuno arrivasse per vedere cos'era accaduto..