Semifinale G.L. Barone

Sfida il BOSS Matteo Di Giulio, l'autore di La congiura delle tre pergamene, e i suoi due SPONSOR: Adriano Barone e G.L. Barone
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Spartaco
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Semifinale G.L. Barone

Messaggio#1 » mercoledì 4 ottobre 2017, 23:12

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Eccoci arrivati alla seconda parte de La Sfida a La congiura delle tre pergamene.
In risposta a questa discussione, gli autori hanno la possibilità di postare il loro racconto revisionato, così da poter dare al loro SPONSOR un lavoro di qualità ancora superiore rispetto a quello che hanno passato il girone.
Quindi, Francesco Nucera e Roberto Masini, possono sfruttare i due giorni concessi per limare i difetti del racconto, magari ascoltando i consigli che gli sono stati dati da chi li ha commentati.

Scadenza: sabato 7 ottobre alle 23:59
Limite battute: 21.313

Se non verrà postato alcun racconto, allo SPONSOR verrà consegnato quello che ha partecipato alla prima fase.
Anche se già postato, il racconto potrà essere modificato fino alle 23:59 del 7 ottobre. Non ci sono limiti massimi di modifica.
Il racconto modificato dovrà mantenere le stese caratteristiche della versione originale, nel caso le modifiche rendessero il lavoro irriconoscibile verrà inviato allo SPONSOR il racconto che ha partecipato alla prima fase.

Non fatevi sfuggire quest'occasione, state sicuri che il vostro avversario starà già pensando a come migliorarsi!



Roberto Masini
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Re: Semifinale G.L. Barone

Messaggio#2 » sabato 7 ottobre 2017, 0:28

Il mostro della Tasmania

Stavo per laurearmi in biologia marina. Mia madre mi aggiustava il nodo della cravatta, gli occhi rigati di lacrime; mio padre mi dava grosse pacche sulle spalle e poi mi stringeva vigorosamente. Samantha, mia sorella, se ne stava in disparte, seduta sulla panchina della facoltà e si guardava la punta delle scarpe; poi si alzò, si avvicinò e mi sussurrò:
«Sono fiera di te!»
Poi, quasi presa da un dubbio, mi fece quella domanda alla quale non avrei mai voluto rispondere:
«Com’è venuto in mente di diventare un biologo del mare, a te che non sai nemmeno nuotare?»
Fui tolto dall’imbarazzo: mi chiamarono, presentai la mia tesi sui calamari giganti, ottenni 108. Quando uscii, la mia famiglia mi abbracciò.
Ma alla fine dei festeggiamenti la domanda di Samantha mi bruciava nel cervello ed io non potevo più tacere l’incredibile storia che svelava la motivazione della mia scelta professionale. Presi mia sorella per mano e la condussi fuori dal ristorante, sulla veranda illuminata dal caldo sole di giugno; la invitai a sedersi e cominciai a raccontare:
«Ricordi quell'autunno, l’ultimo anno del liceo scientifico, quando feci quella gita? Stavo in piedi sul piccolo molo, mentre il vento mi sferzava la faccia; alle mie spalle risuonarono i rintocchi della campana della basilica dell’Assunta: erano le undici di una fredda domenica di novembre.Non c’era nessuno in giro; solo qualche gatto affamato. Avevo deciso di vedere Camogli, l’unico paese della Riviera di Levante che non avevo ancora visitato, con i miei amici di sempre Lucio e Carlo, che però mi avevano dato buca. Alzai il bavero del cappotto e mi diressi verso una panetteria aperta, dove ordinai una focaccia di Recco. Avute le indicazioni per salire al castello di Dragonara, mi diressi dapprima verso il porticciolo e percorsi tutto il molo fino al palo bianco di segnalazione.
Il mare sembrava sempre più agitato e ondate di bianca schiuma s’infrangevano sulla banchina. Stavo tornando indietro e fu allora che la vidi. Ah, non l’avessi mai vista!»
«Che cosa?» domandò Samantha, inarcando le sopracciglia.
«Vicino a un gozzo ormeggiato quasi all’uscita del porticciolo, scorsi una bottiglia!»
«Non mi dire che c’era un messaggio dentro!» mi canzonò.
L’abbracciai forte e poi la implorai:
«Ti prego, non m’interrompere più: non puoi capire quanto mi costi parlarne! Dunque, dicevo, vidi quella bottiglia e tentai di recuperarla. Non fu facile: dovetti salire sul gozzo, rischiando di cadere in mare ma alla fine ci riuscii. Era una bottiglia verde che un tempo aveva contenuto del vino ma che in quel momento tra le mie mani mostrava quello che mi era parso di intravedere da lontano: un messaggio, il classico messaggio in bottiglia. Mi precipitai nell'albergo, dove avevo prenotato per una notte e risalii nella mia camera. Tolsi il tappo ed estrassi dei foglietti ingialliti a quadretti sui quali, con una calligrafia piccola e fitta, era vergata un’orribile storia. Li ho qui in tasca. Ecco, te li leggo:

Camogli, 31/08/1968
Mi chiamo Giovanni Schiaffino; son nato qui il 27/07/1954. Mio padre fa il fabbro e mia madre la cameriera al “Cenobio dei Dogi”. I miei sono i genitori più bravi del mondo ma non potranno mai aiutarmi e spero riusciranno a perdonarmi. Ho deciso di andarmene da qui perché non posso più continuare questo tipo di esistenza. Nessuno potrebbe credermi, neppure padre Egisto, il prete della cattedrale, anche se gli rivelassi il mio segreto. Spero che questo scritto venga ritrovato tra cent’anni, quando forse la scienza avrà raggiunto nuove frontiere e avrà la possibilità di comprendere ciò che è successo.
Sono un ragazzo timido; non riesco a farmi una ragazza; le poche volte che ho tentato, sono diventato rosso, mi sono impappinato e ho detto solo delle scemenze che hanno fatto ridere tutti e comunque che hanno fatto scappare la ragazza che mi piaceva. Gli amici un po’ mi prendono in giro e un po’ tentano di aiutarmi, invitandomi alle feste, dove però non batto chiodo.
Quest’anno mi sembrava invece che finalmente anche per me il vento fosse cambiato.
Finite le scuole, andavo sempre ai Bagni Miramare a giocare a flipper o a ping pong. Mettevo anche le monetine nel juke-box per ascoltare “Angeli negri” di Fausto Leali, “Piccola Katy” dei “Pooh” ma soprattutto ”Azzurro” di Celentano.
A luglio arrivarono le frotte dei turisti ed io m’innamorai di una ragazza di Alessandria che si chiamava Camilla. Aveva i capelli biondi, gli occhi azzurri e due bellissime gambe e un bel sorriso e delle labbra… insomma, ci siamo capiti: era bellissima.!
Disdegnò tutti i miei amici più intraprendenti di me perché diceva che solo io la facevo ridere; un giorno mi prese sottobraccio e andammo a nuotare vicino alla chiesa. Scoprii che era ricchissima: i suoi possedevano anche un motoscafo e mi disse che un giorno mi avrebbe fatto fare un giro. Le feci da cicerone per parecchi giorni. La portai a visitare l’oratorio di San Prospero e Santa Caterina; gli parlai del medaglione di marmo sulla facciata con Cristo Risorto che era stata rinvenuto in mare nel 1932. Prendemmo il vaporetto per andare a vedere l’abbazia di San Fruttuoso di Capodimonte; visitammo la chiesa, il museo, il chiostro, il sepolcro dei Doria e la torre; gli raccontai la storia del Cristo degli Abissi alla quale lei non voleva credere. Fu poi la volta del castello della Dragonara. Le dissi che lì i camogliesi si ritrovavano per eleggere i loro rappresentanti o si ritiravano nei momenti di pericolo all’interno delle mura e che io l’avrei voluto trasformare in un museo marino. Tutto quello che le raccontavo, la interessava tanto; sembrava pendere dalle mie labbra; ne ero orgoglioso!
Ma il giorno più bello della mia vita fu quando andammo alla batteria di Punta Chiappa. La presi per mano sull’Aurelia; poi svoltammo a destra verso il passo della Ruta e, arrivati in cima, raggiungemmo il paesino di San Rocco; da lì scendemmo per un sentiero panoramico fino ai Fornelli e infine giungemmo alle batterie della punta che chiudeva da Est il golfo del Tigullio. Era il complesso difensivo della 202° batteria costiera del Regio Esercito, costruito verso la fine degli anni trenta come un sistema antinave. Ci intrufolammo in uno dei cinque bunker e al buio la baciai sulla bocca; fui ricambiato. Uscii pazzo di gioia.
Andavamo sempre nel pezzo di spiaggia libera all’inizio della passeggiata; facevamo bagni uno dietro l’altro e poi ci stendevamo sulle pietre a prendere il sole. I miei genitori non c’erano mai perché lavoravano; i suoi erano sempre lì ma se ne stavano in disparte e non venivano mai a rivolgerci una parola. Li conobbi il giorno del mio compleanno, quando m’invitarono a salire sul loro motoscafo. Passai tutto il pomeriggio in piedi a prua a girare per il golfo del Tigullio. La giornata era caldissima ed io mi misi tutto il tempo a prua, non badando né agli spruzzi né al vento. Camilla mi disse che avrei dovuto coprirmi: le risposi con una risata.
Non la rividi più.
Il giorno dopo ero a letto con una febbre da cavallo e lì rimasi, amorevolmente curato da mia madre, per una settimana. Quando guarii, mi raccontarono della tragedia: quattro ragazzi, Paolo, Maria, Giulio e la mia Camilla erano scomparsi da tre giorni. Erano andati a fare il bagno di mezzanotte e non erano più tornati. La polizia aveva trovato tutti i vestiti ben piegati sulla spiaggia ma di loro nessuna traccia. Erano state utilizzate motovedette con un apparecchio che chiamavano sonar, che serviva per individuare corpi sommersi, ma non c’era stato alcun risultato. Neppure i sommozzatori avevano trovato nulla. I genitori di Camilla erano affranti ed io pure ero distrutto dal dolore. Passavo tutte le giornate nel tratto di spiaggia in cui era sparita, tenendomi la testa tra le mani. I giornali, poiché non si trovavano i corpi, cominciarono a parlare di squali ma l’ipotesi fu subito smentita dagli inquirenti.
Poi successe l’incredibile. Giorgia, una ragazza di sedici anni che ci trattava come fossimo dei bambini, ci disse, quella mattina di agosto, che lei non aveva paura degli squali e che avrebbe fatto il bagno di mezzanotte. Io e i miei amici allora decidemmo di nasconderci per vedere se succedeva qualcosa. Appostati di notte sulla “quadrata”, scrutammo il mare e la spiaggia. Fu tutto inutile perché Giorgia non si fece vedere o così credemmo noi. Scoprimmo infatti il giorno dopo che il bagno l’aveva fatto nel porticciolo ed era sparita, lasciando sul molo tutti i suoi vestiti perfettamente piegati. Lo stesso giorno corremmo da Baciccia, il più vecchio marinaio di Camogli che aveva ritrovato i vestiti di Giorgia. Ci raccontò che aveva visto sul molo, vicino ai vestiti, tracce perfettamente circolari di acqua di mare che potevano essere stati lasciati solo da una specie di piovra. Ma tutto ciò si rivelò solo frutto della sua fantasia di ubriacone: sul molo non c’erano tracce di nessun genere.
Per alcune notti la polizia illuminò la spiaggia e alcune motovedette pattugliarono l’intero golfo del Tigullio ma senza risultato. Io andavo alla spiaggia a ogni ora del giorno e della notte, sfuggendo al controllo dei miei genitori. Quando rincasavo, a notte inoltrata, i miei dapprima non mi dicevano nulla: mi abbracciavano forte forte ed io sentivo che capivano tutta la mia angoscia e il mio dolore. Poi mio padre cominciò a inquietarsi, dicendo che dovevo dimenticare quella storia, che meno male che non era tempo di scuola se no mi avrebbero bocciato, eccetera eccetera, eccetera.
Una settimana dopo questi eventi mi trovavo all’Odeon, senza più lacrime, per cercare inutilmente di distrarmi; proiettavano “Quando dico che ti amo” con Tony Renis e Lola Falana. Nel buio della sala, nonostante parlasse sottovoce, riuscii a individuare dietro di me Caterina, la ragazza più... più, come potrei dire, più formosa del paese che quando ti guardava non potevi non arrossire, che ti faceva seccare la saliva in gola. Stava proponendo al suo nuovo amico un bagno a mezzanotte. Il ragazzo, che si chiamava Daniele, era un po’ titubante, frenato dalla paura di sparire per sempre ma spronato dalla possibilità di vedere le nudità agognate. Alla fine si accordarono: sarebbe stato per la sera successiva, vicino al molo, dietro la chiesa. Non avvisai i miei amici che del resto non mi frequentavano più, dicendo che ero diventato pazzo per la scomparsa di Camilla.
La sera seguente mi appostai dietro gli scalini del molo e attesi. Era quasi mezzanotte e ormai disperavo di vederli; stavo per lasciare il mio nascondiglio, quando decisi di rimanere altri dieci minuti. Ah, non l’avessi fatto; forse non avrei mai scritto queste cose e non avrei deciso di scappare! La luna piena rischiarava a giorno la spiaggia. Li vidi arrivare correndo a piedi scalzi. Daniele propose di togliersi tutti i vestiti; li avrebbe tolti anche lui… Lei disse di no e si buttò vestita in acqua. Stava ancora sguazzando, inseguita dal ragazzo, quando l’acqua s’increspò leggermente e all’improvviso, quasi a riva, uscì piano piano una massa oscura che li trascinò sott’acqua senza un grido, senza spruzzi, senza lotta, senza un lamento. Gli unici rumori: la risacca e un minuscolo sciabordio. Tutto successe in pochi secondi. Poi la cosa uscì dall’acqua sotto la luce della luna, pallida ma vivida per i miei occhi dilatati dalla paura. Per descrivere qualcosa d’indescrivibile sono costretto a usare paragoni con le poche cose che conosco, anche se da oggi so che non conosco quasi niente delle persone, degli animali e delle cose che mi circondano. Sembrava un’enorme tartaruga ma senza testa né zampe o piuttosto un enorme purillo con la coda e una gobba di circa quattro metri. A occhio, al mio occhio dilatato, doveva essere lungo circa sette metri e largo sei. Si muoveva, scivolando sui sassi della spiaggia come se fosse un millepiedi. Non si distinguevano occhi o altri organi: era una massa informe. L’aria sembrava ferma ma di sicuro io lo ero; paralizzato dal terrore ero diventato anche afono; così non gridai per risvegliare Camogli e servire al paese su un piatto d’argento il terrore che viene dal mare. Un gatto randagio mi capitò tra i piedi, miagolante; mentre si strofinava sulle mie gambe rigide come tutto il resto del corpo, la cosa sembrò aver sentito il felino, si fermò e molto lentamente se ne ritornò al mare, dove s’immerse senza sollevare spruzzi e sparì.
Trascorse un’ora prima che riuscissi a muovermi: mi sembrava di essere stato vicino alla manifestazione del Male. Mentre rincasavo, madido di sudore, mentre pensavo che sarei potuto morire anch’io e che l’avevo scampata bella rispetto a Caterina e Daniele, il mio pensiero corse a Camilla. Non ero convinto che, se fossi andato alla polizia a denunciare l’accaduto, qualcuno mi avrebbe creduto; pensavo invece che per onorare la memoria di Camilla avrei dovuto semplicemente uccidere quella cosa a costo della mia vita.
Mi buttai sul letto e caddi in un sonno senza sogni. I miei genitori, stanchi per il lavoro, continuavano a non accorgersi delle mie uscite notturne. Mi risvegliai alle tre di notte con la gola riarsa e corsi in cucina per prendere un bicchiere d’acqua gelata dal frigo. Accendendo la luce, risvegliai il cane dei vicini che cominciò ad abbaiare furiosamente; mostrava le zanne nella mia direzione e tirava la catena fin quasi a strozzarsi; non riuscì peraltro a spostare la cuccia di un solo millimetro. Fu allora che mi venne l’idea: non mi avesse mai sfiorato la mente!
Il giorno dopo, a notte inoltrata, mi appostai, armato di un grosso coltello, sulla riva vicino al molo dietro alla chiesa. Avevo legato la mia gamba sinistra due capi di una gomena che avevo fatto passare intorno a uno dei piloni che sorreggevano la terrazza del ristorante della spiaggia. Avrei colpito a morte quella cosa che non avrebbe potuto trascinarmi in acqua. Con le narici dilatate per l’affannosa respirazione attesi tutta la notte. Per notti e notti continuai ad aspettarla.
Ieri alla fine l’ho vista e pensavo proprio che l’avrei uccisa e catturata. Erano le quattro di notte; la falce di luna calante illuminava soffusamente il tratto di mare davanti a me. All’improvviso il mare si gonfiò e la bestia uscì. Rimase sulla battigia per circa un minuto e poi avanzò sulla spiaggia sassosa, avrei detto, con estrema circospezione, se fossi riuscito a individuare qualcosa che assomigliasse, se pur vagamente, a un organo della vista.
Quando fu a metà della spiaggia, uscii dal mio nascondiglio costituto da una bassina nera e attaccai. Affondai il mio pugnale su quella gobba maledetta ma era come pugnalare un mollusco anche se la sua pelle sembrava più gommosa che molle. Così vicino, al chiarore della luna, potevo vedere e toccare una specie di criniera che mi parve bianca; vidi anche cinque o sei branchie che sembravano feritoie pulsanti; vidi anche la sua coda, sulla quale si potevano scorgere due file di spine. Mentre continuavo a colpire, la cosa si fermò; non si sentiva alcun lamento, dalle ferite non uscivano né sangue né altro liquido. Poi qualcosa si mosse: era un piccolo tentacolo che mi afferrò la gamba libera; lo colpii, si ritirò ma fui afferrato da un altro e un altro ancora. Altri piccoli tentacoli mi afferravano in altri punti del corpo e anche se io li trafiggevo, sembrava ne sorgessero altri che occupavano il posto di quelli che, colpiti, si erano ritirati. Fu allora che la bestia inarcò la gobba ed io potei vedere là sotto: un enorme bocca dentata mi attendeva. Compresi che non avrei potuto abbattere la bestia ma almeno dovevo salvarmi. Afferrai la gomena e cominciai a tirare verso il pilone, sicuro che la bestia non ce l’avrebbe fatta a trascinarmi in acqua. Mentre tiravo con tutte le forze, altrettanto faceva la cosa con i suoi tentacoli. Vedevo però che impercettibilmente riuscivo a muovermi verso il pilone e la bestia cominciava a mollare alcuni piccoli tentacoli. Indietreggiai sempre di più con le tempie che martellavano. Quando pensai di essere salvo, perché il mostro aveva allentato la maggior parte delle sue appendici, da quelli ancora attaccati, fuoriuscì un liquido giallastro che mi penetrò nelle carni. Subito dopo ebbi come la sensazione che tutto il mio sangue e linfa, fossero risucchiati dal mostro. Molto indebolito, tirai ancora un po’ la gomena e la bestia mi liberò, tornandosene in acqua con la stessa lentezza con la quale ne era uscita. Nessuno sciabordio quando s’immerse e si allontanò.
Dopo un tempo che mi parve eterno, mi scossi e ritornai a casa con estrema fatica.

Stamattina mi sono risvegliato molto presto, mi sono alzato, mi sono guardato allo specchio del bagno e non mi sono riconosciuto, non ho riconosciuto la mia faccia! Eppure sono io! Mi sento svuotato, privo di volontà, non m’importa più di niente. Sono tornato a letto e poi mi sono di nuovo alzato per andare in bagno; questa volta mi sono riconosciuto ma la totale inerzia perdura. Mi sono lavato con estrema riluttanza e sono uscito senza svegliare i miei genitori. Tutto quello che mi circonda mi appare privo di senso: il cielo, il sole che sta sorgendo, le pietre della spiaggia, il mare, le poche persone che incontro, lo sferragliare del treno che passa, un cane randagio che abbaia, i genitori che ho lasciato addormentati, i miei compagni di scuola, Camilla, morta!
Non ho più desideri di alcun genere o meglio adesso ne ho uno solo, dominante, che però mi fa paura.
Prima che la paura mi bloccasse, sono riuscito a riempire questi fogli che ho infilato in una bottiglia e affidato alle onde.
Ho nascosto i vestiti nella barca di mio zio, ho aspettato la sera e poi, completamente nudo, dal porticciolo, mi sono gettato in mare; ora, però non ho più paura: so cosa fare devo andare “lunamea ta, nangami” chiama, il mare chiama.


Si chiudeva così; non c’era la firma.»
«E tu hai creduto a questa trama da b-movie per diventare, come si direbbe ora, un criptozoologo?» domandò, stupita, mia sorella.
«Forse tu non lo sai ma io, da quel giorno, ho fatto delle ricerche e ho raggiunto risultati incredibili!»
«Nel senso che non si possono credere!» mi derise Samantha.
«Non scherzare, ascolta! Ho scoperto che nel 1968 un tal Giovanni Schiaffino, di anni quattordici, sparì da Camogli; che trovarono tutti i suoi vestiti perfettamente ripiegati e nascosti in una barca di proprietà di un suo vecchio zio; che non fu più ritrovato; che in quell’anno sparirono altri ragazzi suoi coetanei senza lasciare traccia. A casa ho tutti i ritagli dei giornali locali di quegli anni che riportano le più disparate ipotesi su quelle sparizioni.»
«Beh, poteva essere solo un ragazzo che conosceva le vicende e si è inventato la storia del mostro; hai trovato giornali che parlano di uno strano essere acquatico ritrovato in quel di Camogli?»
«Per la verità no ma c’era una cosa strana in quei foglietti; non era la storia in sé che, come dici tu, poteva essere inventata. La cosa strana erano quelle ultime parole di una lingua sconosciuta: lunamea ta, nangami. Facendomi aiutare da Rossi, il mio professore di latino, sono riuscito a decifrarle. Perciò quella riga dovrebbe intendersi così:”…so cosa devo fare: devo andare a casa mia. Mio padre chiama, il mare chiama”.»
«Non riesco a capire cosa c’entri una lingua sconosciuta con la tua scelta di diventare biologo marino!» replicò mia sorella, sgranando gli occhi.
Estrassi dalla tasca uno spiegazzato articolo di giornale e glielo porsi; lei lo aprì e cominciò a leggere. Il nome del giornale era The Mercury, il titolo dell’articolo: Mostro marino ritrovato potrebbe diventare un caso mondiale. Di spalla una foto con le fattezze del mostro: erano quelle descritte da Schiaffino!
Mentre Samantha boccheggiava, aggiunsi:
«Il ragazzo camogliese non può avere letto quel giornale che risale all’agosto del 1960: aveva appena compiuto sei anni e non era ancora andato a scuola. Il mostro riprodotto fa parte dei cosiddetti globster, termine inventato dal biologo Ivan T. Sanderson nel 1962 dalla contrazione di globular monster, che individua una massa di materiale organico arenatosi sulle rive del mare o dell’oceano. Un globster si distingue dalle normali carcasse spiaggiate, per l’estrema difficoltà nell’individuarne l’origine; spesso si parla di resti di piovre gigantesche ma il nostro caso è diverso.»
«Quest’articolo dimostra solo che un animale simile alla descrizione del ragazzo è esistito davvero…»
«Non solo: ricordi le parole di quella lingua straniera sconosciuta?»
«Sì, e allora?»
«Si tratta di una lingua morta che si parlava su un’isola a sud dell’Australia e questo giornale è il quotidiano di Hobart, la capitale di quell’isola!»
«Vuoi farmi credere che quel ragazzo fu assalito proprio da questa bestia?» domandò, indicando la foto sul giornale e poi aggiunse:
«E di quale isola si tratta?»
«La Tasmania, la Tasmania! Da tutti gli studiosi questa cosa è conosciuta come il mostro della Tasmania!»

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ceranu
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Re: Semifinale G.L. Barone

Messaggio#3 » sabato 7 ottobre 2017, 23:11

La classe commerciale va in paradiso

1

«Non ti piacerebbe vedere il mondo?» Gloria dava le spalle a un gruppo di turisti, intenti a fotografarsi davanti alla riproduzione di Lionel Messi, e aveva lo sguardo perso nel vuoto.
Cristiano si passò la mano destra sul braccio opposto, in un gesto confortante. Non voleva abbandonare il rione Adidas. L'ultima volta che era uscito con i suoi, quando aveva cinque anni, era andato a una convention nel quartiere Prada e si era ripromesso che non avrebbe più lasciato quel posto.
«Certo, mi piacerebbe molto» mentì.
«Lo sapevo. Io e te siamo uguali.» Gloria sorrise, allungò la mano e gliela poggiò sulla guancia. «Partiamo insieme…» propose, sistemandosi meglio sulla panchina.
«In che senso?» chiese Cristiano, massaggiandosi il collo nel tentativo di far scendere il groppo alla gola.
«Passiamo dal “Palazzo Natura”, recuperiamo l'attrezzatura e scappiamo.» Gli occhi di Gloria si illuminarono, come quando da bambini sognavano di salire sul tetto della direzione generale per guardare dall'alto Milano-Medio Banca e magari scorgere la “Piramide Sony”.
Cristiano spalancò la bocca, nel tentativo di fare entrare l'aria. «Ma… cosa dirà il direttore? Devo ancora finire di etichettare la frutta in scatola e tra una settimana inizieranno i saldi. Non credo mi dia il permesso…»
Gloria sorrise e scosse la testa. Le ciocche bionde si mossero leggere nell'aria e una le rimase impigliata nell'angolo della bocca. «Non hai capito: ce ne andiamo per sempre!»
«No, non possiamo. Noi dobbiamo lavorare qui!» La voce di Cristiano tremò.
«Non “dobbiamo”. Ho conosciuto una persona, dice che possiamo scegliere…»
Cristiano inspirò e cercò di recuperare la calma, quella discussione lo stava agitando. «Se il problema è questo, puoi lasciare il recupero crediti e farti spostare alla “Fondazione Adidas per i senza lavoro”. Lo so che desideri da sempre dedicarti al sociale.»
Gloria fece per rispondere, ma si bloccò. Il labbro inferiore le tremò leggermente e un'ombra passò nei suoi occhi. «Forse è troppo per te…» si sporse e lo baciò sulla guancia.
Il gong, che indicava la fine della pausa pranzo, interruppe quella conversazione assurda.
Sollevato, Cristiano guardò Gloria attraversare la strada per tornare a lavorare. Non capiva cosa le fosse preso, ultimamente era strana, ma non credeva potesse arrivare a chiedergli di cambiare lavoro. Al giorno d'oggi era già tanto averne uno: loro erano fortunati. E poi lì c'era tutta la sua vita. Era andato al -6 e aveva giocato a calcio nei campetti dietro ai Magazzini di Smistamento. Non era nemmeno riuscito a cambiare strada; aveva convinto Gloria ed erano andati a convivere nel condominio in cui era nato, nella periferia sud del rione. Dalla finestra poteva vedere la “Parrocchia Ibrahimovic”, dove si erano dati il primo bacio.
Guardò in alto e cercò i fari che illuminavano a giorno le vie commerciali del rione. Quella era casa sua, non aveva nessun motivo per lasciarla, doveva convincere Gloria a restare.
«Che fai lì impalato?»
La voce di Pablo, il capo reparto, lo scosse.
Cristiano fissò l'uomo dalla pelle olivastra e sorrise. «Scusami!» disse, scattando in piedi e correndo dentro il negozio di alimentari a lunga conservazione. Lavorare avrebbe allontanato quei cattivi pensieri e probabilmente avrebbe fatto lo stesso con Gloria.

2

A passo spedito, Gloria passò sotto le gambe della statua di Jonah Lomu e si infilò nel “All Blacks Park”. Intravide una coppia di ragazzi, che si baciava su una panchina, e le lacrime che stava trattenendo iniziarono a scorrere. Cristiano non l'avrebbe seguita, non sarebbe mai stato pronto.
L'aveva sempre sospettato ma, quell'ultima conversazione, le aveva dato la conferma.
Raggiunse il portone di casa, infilò la mano in borsa e frugò alla ricerca della “Carta Vita”. Non la trovò al primo tentativo, ma era tranquilla: ricordava di averla usata per pagare il pranzo. Finalmente la sfiorò con le dita, l'afferrò e la passò sul lettore posto sotto la maniglia. Un led verde si illuminò e il portone si aprì.
L'androne era deserto: a quell'ora erano tutti a lavorare. Salì di corsa fino al terzo piano e ripeté le stesse azioni per entrare nell'appartamento.
Il cuore le batteva all'impazzata nel petto. Ormai era tutto deciso, solo una risposta diversa di Cristiano avrebbe potuto cambiare le carte in tavola, ma lui si era dimostrato la persona “semplice” di sempre. Ci stava bene, ma non avrebbe buttato via la propria esistenza per star solo “bene”. Lei voleva essere felice.
Entrò in casa e la luce si accese.
«Bentornata Gloria. Come mai già di rientro?»
«Ciao Irma, non stavo tanto bene. Prendo due cose e vado dal dottore.»
«Posso aiutarti?»
«No, grazie. Faccio da sola.»
«Vuoi che avvisi il dottore del tuo arrivo? Bruno, il suo Assistente Elettronico, è sempre molto cortese. Magari riesco a farti inserire in un buco tra gli appuntamenti.»
Gloria sorrise, a volte Irma sembrava una persona vera: le sarebbe mancata.
«No, veramente. Prendo la valigia che ho preparato in camera ed esco subito.»
«Quindi hai deciso di…» Irma non finì la frase. La luce nella casa si spense e tutto divenne buio.
Immersa nell'oscurità, Gloria cercò di raggiungere la finestra. Era tranquilla, la corrente veniva spesso tagliata dai quartieri residenziali per convogliarla nell'aria commerciale.
A tentoni raggiunse l'interruttore delle tapparelle, schiacciò il tasto ma non successe nulla: anche l'impianto ausiliario era andato.
La porta d'ingresso cigolò, Gloria si voltò e vide la sagoma di un uomo, illuminata dalla luce che proveniva dal corridoio esterno.
«Chi sei?» chiese, indietreggiando.
L'uomo richiuse la porta. Tutto tornò a essere buio e nella stanza rimbombarono dei passi di corsa.
Gloria percepì lo spostamento d'aria davanti a sé; un intenso odore di muffa le invase le narici. Cercò una via di fuga alle sue spalle, ma trovò solo il muro: non aveva vie di scampo.

3

Fischiettando, Cristiano salì le scale. La bottiglia di BonAdidas tintinnò cozzando contro l'ultimo gradino. La estrasse dal sacchetto di cartone e sospirò vedendo che era intatta. L'aveva comprata per far vivere una serata particolare a Gloria e costava quasi un mese di stipendio. Quei crediti “Vita” li aveva messi via per comprare la Play Station 30X al mercato nero ma era giunto alla conclusione che un bel vino rosso avrebbe potuto risollevare le sorti del rapporto.
Raggiunse la porta di casa e accostò la Carta Vita al lettore sotto la maniglia. Attese un attimo, ma il led non si accese. Rigirò la tessera in mano, la sfregò sui pantaloni e ci riprovò: ancora nulla.
Poggiò a terra la bottiglia, impugnò la maniglia e provò ad aprire la porta ma non successe nulla. Imprecò e picchiò il pugno contro il muro: una placca di metallo, dello stesso colore della parete, cadde a terra. Fece un passo indietro e fissò l'incavo scoperto da cui sbucavano dei fili: uno di questi era tagliato a metà e del nastro nero pendeva da uno dei due moncherini. Facendo attenzione, li riunì utilizzando lo stesso nastro. Sorrise: l'aveva riparato da solo, poteva dire d'aver risparmiato dei crediti.
Raccolse la bottiglia, entrò in casa e notò subito un foglio ingiallito poggiato sul tavolo.
«Ciao Irma, sai se Gloria è ancora a lavoro?» chiese, avanzando.
L'Assistente Domestica non rispose.
Cristiano si bloccò e sollevò gli occhi al soffitto. «Certo che se non ti riattivo, difficilmente funzionerai!»
Tornò sui suoi passi, passo la Tessere Vita accanto a una tastiera numerica e digitò il codice a sei cifre.
«…partire» disse la voce di Irma.
Cristiano strabuzzò gli occhi. «Anche tu con questa storia?» Si trattenne per non urlare. «Perché parlate tutti di andare via?»
«Scusa, ero rimasta appesa all'ultimo discorso con Gloria.»
Cristiano corrugò la fronte. «Ti sbagli, stamattina siamo usciti insieme e ti abbiamo salutata; non stavamo parlando di nulla.»
«Gloria è rientrata prima da lavoro, non stava bene e voleva andare dal dottore.»
Cristiano ripensò al foglio sul tavolo: non c'era quando era uscito la mattina. Corse a recuperarlo.
Sembrava una pergamena, di quelle che aveva visto nei vecchi film senza marca di inizio secolo. Aveva i bordi corrosi dal tempo ed era giallognola. Stampato in alto c'era l'intestazione.
«Lo stat…to dei lavo…ri» lesse ad alta voce. Non aveva la minima idea di cosa fosse e la stampa sbiadita non l'aiutava a comprendere. Il resto del foglio era completamente illeggibile, se non per un “Art.1” e qualche lettera qui e là.
Lo sollevò e da sotto sbucò un foglio bianco con una frase, laconica ma significativa, scritta a mano da Gloria.

So che non capirai, ma questo non è più il mio posto. Io voglio di più!

Cristiano, con il foglio in mano, barcollò fino al divano e si lasciò cadere. Ripensò alla conversazione del pomeriggio, ma solo una frase tornava prepotente: “Ho conosciuto una persona, dice che possiamo scegliere…”.
«Ho chiesto a Bruno, un vecchio amico, Gloria non è andata dal dottore e dall'armadio mancano le sue cose.»
Per Cristiano fu una sentenza senza appello. Affossò la faccia tra i cuscini del divano. “Dice che possiamo scegliere…” continuava a sentire e ora ne era certo: Gloria aveva scelto di non stare più con lui.

4

Cristiano si svegliò di soprassalto. Gli occhi incrostati dal pianto e la bocca riarsa. Per una frazione di secondo sperò che fosse tutto un incubo, ma tra le dita stringeva ancora il messaggio d'addio di Gloria.
Fissò lo sguardo sull'incrostazione sul soffitto, aveva promesso di toglierla l'estate prima ma era ancora lì a ricordargli tutte le cose che non aveva fatto e che avevano spinto Gloria nelle braccia di chissà chi.
Erano da poco passate le otto di sera, non aveva fame e a dire la verità non aveva voglia di fare nulla, nemmeno di vivere.
Si mise a sedere sul divano, piedi a terra, gomiti piantati sulle ginocchia e le dita affossate tra i capelli. Doveva fare qualcosa che lo distraesse.
Gettò un'occhiata alla BonAdidas; quella avrebbe potuto dargli conforto.
Si alzò e strisciò i piedi fino al tavolo, l'afferrò per il collo e impugnò il tappo a vite. Come aveva potuto credere di comprare l'amore di Gloria con quella bottiglia?
La lasciò andare e si mise a sedere. Se lei non gli avesse fatto il discorso quel pomeriggio, lui avrebbe usato quei crediti per la nuova Play e l'avrebbe trascurata come sempre, perché lei era la parte sicura della sua vita, quella scontata.
Scosse la testa, sperando di riuscire ad allontanare la tristezza. Fissò nuovamente la bottiglia, indeciso sul da farsi: valeva la pena bersi un mese di lavoro per posticipare la sofferenza di qualche ora?
Doveva reagire e c'era un solo modo per farlo.
Afferrò la carta ingiallita, sotto la quale aveva trovato il messaggio di Gloria, e l'arrotolò attorno alla bottiglia, che infilò nel sacchetto. Dove stava andando era meglio non mettere in mostra oggetti di valore!
Si alzò e andò verso la porta.
«Vai a cercare Gloria?» chiese Irma, che fino a quel momento aveva assecondato il suo dolore in silenzio.
«No, devo andare avanti!»

5

Cristiano picchiò i piedi a terra, nel tentativo di non farli addormentare, soffiò nelle mani chiuse a conca e si guardò attorno. Le vetrate rotte dei capannoni rendevano quel luogo spettrale. All'apparenza sembrava deserto, ma sapeva che qualcuno lo stava osservando.
Raggiunse la vecchia guardiola dei magazzini di smistamento, si chinò e impilò tre mattoni che, all'apparenza, sembravano lì per caso. Tornò sui suoi passi e attese.
«Guarda chi si rivede!»
Cristiano si voltò e si trovò davanti un uomo, dal volto coperto da un cappuccio scuro, che brandiva un tubo di metallo dalla punta affilata. Era una spanna più basso di lui ma le spalle larghe gli conferivano un aspetto imponente.
«Non mi riconosci?» Con un movimento della mano, l'uomo fece scivolare il cappuccio sulla schiena. Lunghi capelli rossi gli cadevano sulle spalle, folti baffi dello stesso colore gli coprivano il labbro superiore e gli occhi azzurri avevano un'espressione beffarda.
«Alain?» chiese Cristiano.
L'uomo sorrise, si sporse in avanti e gli diede una pacca sulla spalla. Cristiano rovinò a terra. Non incontrava l'amico da quasi vent'anni, da quando Gloria aveva scelto lui.
«Quindi, la nostra bella sta ancora con te?»
«È una storia lunga. Diciamo di sì.»
«Come vuoi tu. Ho letto il tuo messaggio, cosa posso fare per te?»
Cristiano si guardò attorno, come per dire che quel posto non sembrava il luogo adatto per parlare d'affari ma l'amico, con un cenno della mano, lo invitò a rispondere.
«Ne voglio una.»
«Bene, era ora che dessi una svolta alla tua vita!»
«La mia vita è fin troppo movimentata» protestò Cristiano.
«Se etichettare frutta negli alimentari Adidas ti sembra una “vita movimentata”, quello che mi chiedi potrebbe ucciderti.» L'amico scoppiò a ridere e spostò la mano per tirargli un'altra pacca. Questa volta, Cristiano fu lesto a spostarsi.
Alain si incamminò verso la guardiola. «Hai con te i crediti?»
«Pensavo di barattarla…»
Il ricettatore si bloccò, strinse la radice del naso tra l'indice e il medio e serrò la mascella. «Cosa non ti è chiaro in: seicento Crediti Vita?»
«Nulla.» Cristiano estrasse dalla giacca il sacchetto, con dentro la BonAdidas, e glielo porse. «Ho qualcosa che vale anche di più!»
Alain sollevò le spalle, quasi sconsolato. «Non ti prendo a calci solo perché avevi il destro migliore del campionato.» Afferrò il sacchetto, estrasse la bottiglia e iniziò a scartarla. «Vediamo se vale più di seicento crediti oppure ti hanno fregato. Ma…» Strabuzzò gli occhi e si bloccò. «Questa dove l'hai presa?»
L'espressione stupita di Alain lo rinfrancò, la bottiglia doveva valere molto. «Nell'enoteca di via Matthaus.»
«Non questo schifo!» Il ricettatore gli sbatté in mano la bottiglia. «Intendo questo!» Sventolò il foglio ingiallito che Cristiano aveva usato per l'imballaggio.
«In casa, sul tavolo.»
«E tu sai cos'è?»
Cristiano scosse la testa.
«Qualcuno in casa tua si è rivolto ai “Sindacati” e ora è in pericolo.»
Cristiano pensò a Gloria e alla sua fuga.
«Che pericolo?»
«I Sindacalisti sono degli invasati che predicano i “diritti dei lavoratori”. Sono una vecchia setta, che molti credono estinta da mezzo secolo, ma che invece lavora nell'ombra per destabilizzare la Repubblica Corporativa. Di per sé non sono pericolosi, ma predicano la libertà d'impiego e quasi nessuno è dalla loro parte. Fanno una grande Assemblea, una volta all'anno, e lì danno il benvenuto ai nuovi adepti.»
Cristiano cercò di elaborare le informazioni, eppure non capiva dove fosse il pericolo.
«Quindi anche Gloria diventerà una Sindacalista?»
«Cazzo!» imprecò Alain. «Come hai fatto a mettere in questo casino Gloria? Sei un cretino!»
«Io non ho fatto nulla, è lei che è diventata strana. Ma non è in pericolo, vero?»
«Certo che è in pericolo, il Sindacato è una facciata. Molti di loro lavorano per le corporazioni…» Si guardò attorno e abbassò il tono di voce. «…come me!»
A quel punto, Cristiano si perse completamente. Alain procurava prodotti dalle altre corporazioni, quelli vietati da Adidas, non poteva lavorare per loro.
«Capisco il tuo turbamento, ma si tratta di equilibrio. Prendi il tuo caso: tu sei qui per la Play Station e per poter giocare a Fifa 76. Ufficialmente, da quando Nike ha stretto una partnership con la Sony, Adidas ha bloccato la vendita, ma sanno benissimo che i giocatori accaniti avrebbero fatto di tutto per averla. Ecco, la soluzione sono io.»
«E cosa c'entra Gloria?»
«Gloria si è avvicinata al Sindacato perché voleva cambiare vita, ma sai benissimo che nessuno può passare da una corporazione a un'altra. I Sindacalisti vengono usati per individuare questi rivoltosi e farli sparire.»
Cristiano sentì un vuoto al petto. «Devo aiutarla!»
«Non possiamo. L'assemblea sta per iniziare.»
Cristiano afferrò l'amico per una spalla. «Non posso abbandonarla, lei è tutta la mia vita!»
Alain inarcò un sopracciglio. «Ma se stavi per comprarti la Play… non sembravi così affranto!»
«Tu non capisci, io farei di tutto per lei.»
«Già, non capisco. Però per quella bottiglia potrei venderti l'informazione.»
Cedergli la bottiglia voleva dire non poter prendere la Play, ma Gloria valeva molto di più di un gioco.
«Ve bene, tieniti la bottiglia. Però mi farai lo sconto sul prossimo acquisto!»

6

Cristiano mostrò la pergamena all'uomo all'ingresso dell'Adidas Arena. Questi lo squadrò di sottecchi.
«Chi ti ha contattato?»
«Alain Bianchi.»
L'uomo annuì e si spostò, lasciando libero l'accesso.
«È iniziata da pochi minuti. Buona serata, Compagno!»
Cristiano guardò meglio l'uomo, nel tentativo di capire se l'avesse già incontrato da qualche parte, ma il suo viso non gli diceva nulla: di cos'erano stati compagni?
Dubbioso, si fece largo tra la folla e, a fatica, riuscì a raggiungere una delle gradinate del palazzetto. Salì alcuni scalini e si guardò attorno. C'erano centinaia di persone, sarebbe stato impossibile trovare Gloria.
Una donna, dal palco, parlava di diritti che nessuno rispettava e a intervalli regolari ripeteva la parola Compagno, tanto che Cristiano iniziò a pensare di trovarsi a una festa tra ex studenti di qualche scuola.
Raggiunse il centro del palazzetto, continuando a guardarsi attorno, ma ancora nulla. All'improvviso qualcuno l'afferrò per la spalla. Si voltò con il cuore ricolmo di speranza.
«Ciao!» Una ragazza, all'incirca della sua età, lo salutò.
«Ciao…» rispose lui, titubante.
«Tu sei il compagno di Gloria?»
«Sì, dov'è?»
«Seguimi.»
Cristiano le rimase appiccicato fino a un ingresso laterale. Sorrise notando la custodia di Fifa 76 che le usciva dalla tasca della giacca. Questi Sindacalisti non sembravano poi così diversi da lui.
«Non è con gli altri in assemblea?» chiese, imboccando un corridoio deserto.
«No.»
Continuò a seguirla fino a quando non si fermarono davanti a una porta.
«Entra qui e aspettala!»
Cristiano afferrò la maniglia della porta, inspirò profondamente ed entrò.
Qualcuno lo afferrò per il polso e glielo torse. Il dolore lo costrinse a voltarsi. Si ritrovò con la faccia schiacciata contro la parete.
«È uno di loro?» chiese una voce maschile.
«Uno dei più convinti» rispose l'accompagnatrice.
«No, io cerco solo la mia…»
Un colpo alla nuca non gli fece finire la frase. Divenne tutto buio e cadde sulle ginocchia.
«Bravissima, portami anche gli altri pericolosi, poi partiamo con la finta irruzione. Questa feccia merita di andare a cucire i palloni in India.»
Mentre sveniva, Cristiano pensò che non gli sarebbe poi andata così male, in fondo avrebbe continuato ad avere un lavoro fisso.

7
«Sei stato provvidenziale. Non avevo idea che fosse una trappola.» Gloria, in piedi davanti alla porta di casa, strinse tra le sue mani quelle di Alain.
«Per me è stato un piacere.»
«Non ci vediamo per anni e tu sbuchi fuori al momento giusto…»
«Già…»
«Dai, entra in casa, così saluti Cristiano.»
«Va bene, è parecchio che volevo passare a trovarlo.»
Gloria aprì la porta ed entrò, seguita dall'amico che le aveva appena salvato la vita. Quando la polizia aveva fatto irruzione nell'Arena, lui era comparso dal nulla e l'aveva trascinata fuori.
«Ciao Irma, non c'è nessuno in casa?»
«Bentornata Gloria. Che gioia rivederti. Dal messaggio che hai scritto sembrava non volessi più stare con noi.»
«Hai ragione cara, vi devo spiegare tante cose. Cristiano non c'è?»
«È uscito. L'ultima cosa che mi ha detto è che doveva “andare avanti”.»
«Ci sono problemi?» chiese Alain.
Gloria sorrise. «No, Cristiano è un pigro, al massimo sarà andato a uno store a comprarsi la nuova Nintendo. Si lamenta che preferiva la Play, ma anche quella gli va bene. Lo conosco troppo bene: quello è il suo modo per andare avanti!»
«Allora questa può andare bene per aspettarlo?» Alain tirò fuori dallo zaino,che aveva in spalla, una bottiglia di BonAdidas e gliela porse.
Gloria ammiccò, compiaciuta. Desiderava da sempre un uomo che la sera si fosse presentato a casa con del buon vino.
«Non potrei chiederti di meglio. A proposito, tu che lavoro fai?»
«Non posso dirtelo, ma sappi che ho parecchie conoscenze altolocate, se il tuo lavoro non ti soddisfa, non devi che chiedermelo…»

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Spartaco
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Re: Semifinale G.L. Barone

Messaggio#4 » domenica 15 ottobre 2017, 17:02

La classe commerciale va in paradiso
(primo selezionato)

Un futuro, quello che ci aspetta, dominato dalle multinazionali, dove le “corporazioni” impiegano eserciti di lavoratori occupati come bassa manovalanza. Il mondo è diviso tra chi è allineato al mondo commerciale, dove tutto ha una marca – persone “drogate” da prodotti come “fifa 76” o vino BonAdidas, che richiedono “crediti vita” per essere acquistati – e altri, ribelli, che predicano i diritti dei lavoratori e una vita diversa. È in questo mondo distopico e ucronico che si svolge la vicenda di Gloria e Cristiano, commessi di una grande corporazione. La ragazza però non si accontenta di “stare bene”, di avere cibo di marca, abiti di marca, un alloggio e un lavoro sicuro, lei vuole di più: vuole “vivere”. È così che si avvicina ai rivoltosi, i “Sindacalisti” e da quell’avventura ai limiti della legalità comincia la sua avventura/disavventura.
Un racconto piacevole, a tratti divertente, che volutamente enfatizza gli aspetti oscuri della nostra vita “corporazionista”. Come sarà il mondo nel 2076, dove i diritti dei lavoratori saranno visti come ricordi ormai lontani?



Il mostro della Tasmania
(secondo selezionato)

Il classico messaggio in bottiglia ci trasporta in una vicenda ambientata in Liguria negli anni Sessanta. La sparizione di alcuni ragazzi in mare, dopo un bagno a mezzanotte, fa da sfondo alla vicenda di Giovanni, un ragazzino timido che finalmente ha trovato la ragazza della vita. Che fine ha fatto la bella Camilla ed altri compagni di scuola? Il corpo non è stato trovato e gli abiti sono stati lasciati, ordinatamente piegati, sulla spiaggia. Giovanni decide di indagare, ma la sua indagine lo fa piombare in una profonda depressione, che condurrà a un epilogo inaspettato.
Racconto divertente e piacevole, che si rifà ai classici. Forse, unico neo, è la poca originalità.



Passa il turno e accede alla finale: "La classe commerciale va in paradiso", di Francesco Nucera.

Roberto Masini
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Re: Semifinale G.L. Barone

Messaggio#5 » domenica 15 ottobre 2017, 23:18

Chapeau!

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