Boulevard de Clichy, Parigi, Francia, 1923. ALESSIA BRANCO
Inviato: sabato 9 dicembre 2017, 15:49
Una porta, quattro mura, un letto, un tavolino, due calici e una bottiglia di vino rosso, tende svolazzanti, balcone aperto, luci della città, il vuoto, il buio. Avevo tredici anni, ne avevo vissuti venti in più. A diciott’anni, il mio viso iniziava a ricoprirsi di strane linee che chiamano rughe. Presto fu tardi nella mia vita. A diciott’anni era già troppo tardi. Non so se succeda a tutti, non l’ho mai chiesto. Non ricordo esattamente l’ultima volta che ho avuto il coraggio di mettermi di fronte ad uno specchio e guardarmi, guardare loro, le linee. A ventitré anni mi sono ritrovata, mi sono riconosciuta, per caso. Non era uno specchio, era il vetro del balcone che affacciava sulla città. È riflessa sulla mia faccia, la vedo, le strade ripercorrono le mie rughe. Ho gli occhi grigi, vuoti. Dodici anni chiusa in questa stanza, in questa strada: Boulevard de Clichy, 23, Parigi, 1923. Ho freddo, c’è troppo vento in questa stanza, non voglio chiudere il balcone. Le voci della strada riecheggiano e riempiono le quattro mura. Ogni giorno, io, sono una voce diversa: oggi voglio essere la mamma di un neonato. Sono visibilmente spaventata, non so come tranquillizzarlo quando inizia a piangere e siamo in mezzo alla strada, con i passanti che mi guardano, e lui continua a strillare, e i passanti continuano a fissarmi, ho paura di fargli del male, - Aiuto! - inizio a piangere anch’io. Il letto è sempre disfatto, non metto mai piede a terra. Il mio sguardo è fisso sulla città, ho paura. Voglio andar via, non riesco a muovermi, sono vittima della mia stessa dimora. Violini, fisarmoniche, li sento, li vedo, sono là, vicino al balcone; se non riesci a vedere sposta la tenda, oggi non c’è vento… mi ha lasciata anche lui. Eccola la vedo ancora, la città sul mio viso. È buio, sempre. C’è solo una luce: è dell’appartamento di fronte. Una donna si è appena accesa una sigaretta, canta. Soul. No, è blues. Sono così confusa, ti chiedo scusa, sono distratta, scusa. Sto cantando, blues. Domani debutto, mi tremano le gambe, ho paura. Il lenzuolo è intorno al mio collo, non respiro. Una lacrima scende dai miei occhi: è calda, è acido. Corrode il volto, fa male, ti prego basta!
È ancora là, sul mio volto, la città. Sono ancora qui, sul mio letto, immobile.
Stasera c’è una strana luce, fioca: non riesco a vedere. Ho voglia di camminare. Non lo ricordavo così, il pavimento è freddo e non posso tornare indietro. Ho voglia di camminare. Mi sento bambina. Le urla e il pianto del neonato: sono io, sono viva! La mamma mi guarda impietrita.
Una canzone blues, una donna canta, il fumo di una sigaretta, bevo un po’ di vino, avanzo dolcemente. Il balcone è sempre aperto, la vestaglia svolazza: è in armonia con la danza della tenda. Stasera c’è anche il vento. Guardo il mio volto riflesso. Asciugo le lacrime col lenzuolo. L’ho sporcato di rimmel, lo lascio cadere a terra dove prima c’erano violino e fisarmonica. No, ora non puoi vederli, li ho nascosti e non suonano più. Non suoneranno più.
Penso spesso a un’immagine che solo io vedo ancora e di cui non ho mai parlato. È sempre lì, fasciata di silenzio, nel buio di questa camera. La prediligo fra tutte, in lei mi riconosco, m’incanto. Stasera ha deciso di parlare, ho deciso di parlare. Mi chiamo Gabrielle, l’amore insensato che provo per lui rimane per me un insondabile mistero, ricordo solo questo. Non so più quanti anni ho. Ho addosso tutte le storie della gente che ho sentito passare dalla mia stanza. Parigi è dannatamente bella, lo è sempre, ma ora piange e ha macchiato di rimmel Boulevard de Clichy. La guardo ancora una volta, chiudo gli occhi, sento il vento accarezzarmi, ho freddo, l’ultima lacrima, è buio.
È ancora là, sul mio volto, la città. Sono ancora qui, sul mio letto, immobile.
Stasera c’è una strana luce, fioca: non riesco a vedere. Ho voglia di camminare. Non lo ricordavo così, il pavimento è freddo e non posso tornare indietro. Ho voglia di camminare. Mi sento bambina. Le urla e il pianto del neonato: sono io, sono viva! La mamma mi guarda impietrita.
Una canzone blues, una donna canta, il fumo di una sigaretta, bevo un po’ di vino, avanzo dolcemente. Il balcone è sempre aperto, la vestaglia svolazza: è in armonia con la danza della tenda. Stasera c’è anche il vento. Guardo il mio volto riflesso. Asciugo le lacrime col lenzuolo. L’ho sporcato di rimmel, lo lascio cadere a terra dove prima c’erano violino e fisarmonica. No, ora non puoi vederli, li ho nascosti e non suonano più. Non suoneranno più.
Penso spesso a un’immagine che solo io vedo ancora e di cui non ho mai parlato. È sempre lì, fasciata di silenzio, nel buio di questa camera. La prediligo fra tutte, in lei mi riconosco, m’incanto. Stasera ha deciso di parlare, ho deciso di parlare. Mi chiamo Gabrielle, l’amore insensato che provo per lui rimane per me un insondabile mistero, ricordo solo questo. Non so più quanti anni ho. Ho addosso tutte le storie della gente che ho sentito passare dalla mia stanza. Parigi è dannatamente bella, lo è sempre, ma ora piange e ha macchiato di rimmel Boulevard de Clichy. La guardo ancora una volta, chiudo gli occhi, sento il vento accarezzarmi, ho freddo, l’ultima lacrima, è buio.